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L'OPINIONE / Raffaele Malito: Il ricordo delle foibe

L’OPINIONE / Raffaele Malito: Il ricordo delle foibe

di RAFFAELE MALITO – Oggi una seconda giornata di alto valore civile e storico, dopo quella del 27 gennaio dedicata alla Shoah: Il Giorno del Ricordo, un appuntamento che si ripete dal 2004, da quando il Parlamento ha approvato con una legge, l’impegno di conservare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, le migliaia di persone, adulti, bambini, vivi o morti, gettate nei profondi crepacci del Carso, nel Friuli, un orrore di cui si sono rese responsabili le bande comuniste di Tito, del drammatico esodo dalle terre degli istriani, i fiumani e i dalmati, nel dopo guerra, e, infine, delle persecuzioni operate dal  fascismo nei confronti delle popolazioni slave. 

Questo giorno coincide con il giorno e il mese nei quali, nel 1947, a Parigi si è firmato il trattato della Pace: si intuisce, così, il significato della scelta del 10 febbraio. Ma non si può ricordare questa giornata con le passioni di parte: a rinnovare l’impegno a superare nazionalismi fuori luogo, ad affermare le ragioni del dialogo, della riconciliazione e della comprensione reciproca, è stato il presidente Sergio Mattarella che, insieme con il presidente della Slovenia Barut Pahor, il 13 luglio del 2020, nel centenario dell’incendio, a Trieste, della Rodn Dom (la casa del popolo slava) ha reso omaggio alle vittime delle foibe e ai combattenti sloveni perseguitati dal fascismo.                                                                                                                          

Gli eventi che interessarono il capoluogo giuliano nei mesi cruciali tra la fine dell’occupazione nazista, toccarono  vertici di feroce atrocità con la risiera di San Saba (unico campo di deportazione e di sterminio nazista in Italia); poi, con l’ingresso delle forze comuniste che attuarono una brutale politica di annessione, e il loro ritiro dovuto alle pressioni angloamericane.

Molti cittadini di Trieste vennero deportati o eliminati dalle truppe di Tito decise a imporre un nuovo ordine rivoluzionario e totalitario che non tollerava alcuna opposizione. Altra pagina dolorosa è quella che riguarda il lager di Goli Otok dove il regime di Tito, dopo la rottura, nel 1948, con Stalin, fece deportare gli stalinisti jugoslavi, che, peraltro, avevano conosciuto altri terribili lager per decisione del dittatore sovietico.

Delle pene e tormenti sopportati nell’Isola Calva scrive Ligio Zanini, nel suo libro, autobiografico, riaggiornato e appena uscito, Ligio Zanini, insegnante, antifascista poi comunista pentito. L’esodo degli italiani, paragonato da alcuni, a quello del popolo ebraico, che lasciarono la terra istriana, fu drammatico. Le genti ( si calcola in 350mila), portandosi dietro tutto il possibile e i ricordi di una vita,  patirono l’incomprensione, l’ostilità e il pregiudizio ideologico, l’idea che chi lasciava la Jugoslavia comunista di Tito era, presumibilmente, fascista o poco meno.

La discriminazione nei confronti degli slavi, già esistente prima e, ancor  più durante il fascismo, ha avuto un ruolo nefasto e grande responsabilità in quel dramma di confine. Una spaventosa somma di crudeltà: prima, con l’oppressione fascista (annullamento di ogni identità etnica, l’obbligo di parlare italiano, di cambiare persino il cognome); durante, con l’oppressione violenta del comunismo di Tito; dopo, con la rottura da Stalin, le torture e le violenze nel lager di Goli Utok, l’Isola Calva.

Non ci sono, dunque, parti senza responsabilità e non possono trovare spazio rivendicazioni e giustificazioni di fronte a questo insieme di orrori: la destra post-missina, per non parlare di quella apertamente neofascista, coltiva una versione dei fatti avulsa dai precedenti e dal contesto storico, come se gli italiani, al confine orientale, fossero stati solo vittime e non, anche in precedenza, oppressori e aggressori. Dalla sinistra radicale, il critico d’arte Tomaso Montanari, già noto per alcune spericolate incursioni su temi costituzionali e di alte speculazioni teoretiche in politica, ha bollato il  Giorno del Ricordo come espressione di un aberrante revisionismo di Stato di cui si sarebbero resi responsabili ben due presidenti della Repubblica, Napolitano e Mattarella, per il semplice fatto  di essersi  convintamente impegnati per il dialogo e la riconciliazione,  per aver valorizzato ciò che ci unisce alle repubbliche ex jugoslave, grazie al progetto  di unità europea.

Dunque, l’insegnamento  che deriva da questi ragionamenti è non rassegnarsi alla logica  perversa che fa del Giorno del Ricordo l’occasione per riproporre antiche contrapposizioni, per  imporre, come cerca di fare la destra più aggressiva, una versione nazionalista e vittimista; né si può dimenticare la repressione del comunista Tito che colpì non solo coloro che erano legati agli  ex-occupanti nazifascisti,  ma anche gli stessi componenti antifascisti del CLN dal quale si erano staccati  i comunisti. Non si trattò solo di  sola ritorsione ma della cruda e dura attuazione di un progetto politico annessionista e totalitario. Tito lasciò Trieste dopo il perentorio intervento di Stalin preoccupato di  mettere in discussione  i nuovi equilibri emersi tra le potenze  vincitrici della guerra. Siamo nel 1945.

In conclusione, il giorno del ricordo ha senso solo se lo si celebra senza scadimenti nazionalisti, nello spirito della conciliazione  e del processo di integrazione su cui  si dovrà costruire  la piena integrazione europea, unica via per il superamento delle   ferite che, di sicuro, hanno lasciato il segno. (rm)