FRANCESCHINI AIUTA IL TURISMO D’ARTE, MA LA CALABRIA ESCLUSA DAI CONTRIBUTI

di SANTO STRATI – Sono 29 le città d’arte che il ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini ha scelto di aiutare con contributi a fondo perduto, previsti dal dccreto agosto, ma il Mezzogiorno e la Calabria rimangono fuori da queste provvidenze. Già perché la selezione è stata fatta in base al rapporto tra presenze di turisti stranieri e residenti. Le città prescelte sono: Venezia, Verbania, Firenze, Rimini, Siena, Pisa, Roma, Como, Verona, Milano, Urbino, Bologna, La Spezia, Ravenna, Bolzano, Bergamo, Lucca, Matera, Padova, Agrigento, Siracusa, Ragusa, Napoli, Cagliari, Catania, Genova, Palermo, Torino e Bari. Come faceva ad entrarci, per esempio Reggio, che col suo ricchissimo e pregevole Museo archeologico, che custodisce i Bronzi, pur avendo avuto performances notevoli non può contare su un elevato numero di presenze turistiche di stranieri? E qui subentra il dubbio che, ancora una volta i criteri di attribuzione di aiuti non rispondano a logiche di opportunità per i centri meno fortunati, bensì prevale la regola del dato storico cui fare riferimento: più hai, più prendi, più produci benessere più lo Stato ti aiuta a fare di più e meglio. Se, invece, come avviene nel Mezzogiorno, i numeri sono scarsi, è destino (o meglio volontà politica) continuare a tenerli  bassi: non vengono incentivati i centri che hanno più bisogno di attenzione, pur avendo aspirazioni turistiche che andrebbero sostenute, ma si privilegiano solo le città che hanno già numeri importanti.

Certo, si dirà che nelle grandi città d’arte come Roma e Venezia, per esempio, il danno subito dai commercianti e dagli esercenti delle attività turistiche di accoglienza (alberghi, ristoranti, bar, etc) è certamente superiore rispetto a quello dei piccoli centri, ma è la logica che sta alla base delle provvidenze che lascia perplessi.

Dovrebbe, a questo punto, intervenire la Regione a coprire il vuoto di aiuti che continua ad affliggere negozianti, bar, titolari di alberghi, ristoranti, trattorie. La loro situazione economica è stata sottostimata e, soprattutto, sottovalutata: 70 giorni di lockdown prima e il quasi deserto nei mesi successivi, dopo, hanno messo a dura prova in particolar modo le piccole attività. Molti esercenti hanno preferito restare chiusi, giacché il rapporto tra clienti ammessi e costi dell’esercizio è improponibile. Si continua a non capire che serve denaro fresco e non promesse di crediti d’imposta: quali tasse potranno pagare gli esercizi pubblici che a malapena riescono a garantire gli stipendi dei dipendenti? Come si può pensare di trascurare, se non con aiuti minimi, attività che sono ormai al collasso?

Prendiamo il caso dei gestori di discoteche e lidi: se tutto va bene sono rovinati. La chiusura imposta due giorni prima di Ferragosto – giusta e sacrosanta, perché la salute va salvaguardata e difesa prima di ogni cosa – ma spazzato via ogni ipotesi di compensare in qualche modo le perdite, con la beffa delle scorte ordinate (e ancora da pagare) proprio in vista del Ferragosto.

Tutto ciò rientra, purtroppo, nella constatazione che il Paese legale è lontano mille miglia dal Paese reale: i nostri governanti, gli amministratori locali, sindaci, presidenti di provincia, assessori o semplici consiglieri comunali sono, disgraziatamente, sempre più distanti dalla realtà del loro territorio. C’è – dispiace affermarlo – una insopportabile incapacità di comprendere e valutare correttamente i bisogni di una città e della sua parte attiva, ignorando o, peggio, trascurando le necessità di natura economica che sono alla base di qualsiasi ripresa economica. Con queste premesse, non è un problema il mancato aiuto dei Beni Culturali, con le “dimenticanze” di Franceschini, bensì è l’improvvisazione e la superficialità con cui si continua ad affrontare l’altro aspetto della pandemia, non meno pericoloso e terribile, che è quello economico. Il contagio della crisi economica non si pensi sia meno letale del coronavirus. Non si tratta, evidentemente, di raffrontare i poveri morti di covid (a moltissimi dei quali – non dimentichiamolo –  è stato negato persino l’ultimo saluto dei familiari nella fase più acuta della pandemia) con i danni di natura economica subiti da imprenditori e aziende, ma se non riparte l’economia, avremo centinaia di nuovi poveri, milioni di posti di lavoro irrimediabilmente perduti, con le ovvie conseguenze per le famiglie.

A questo proposito non si può fare a meno di sottolineare l’assenza di vergogna di chi avrebbe dovuto provvedere al tempestivo pagamento della cassa integrazione (stanno corrispondendo i salari di maggio!) e di come manchi il senso di responsabilità necessario per intervenire in maniera drastica, ma decisamente funzionale, con soldi veri e non con mille piccole elemosine che lo Stato ha già ipotecato per il pagamento delle imposte dovute. Già, perché non va dimenticato che il Governo centrale mica ha posticipato i pagamenti delle tasse, quando avrebbe dovuto quanto meno sospendere i tributi in scadenza: come al solito abile questo Stato a prendere, è lentissimo o addirittura assente quando deve dare.

Con queste premesse le elezioni regionali e comunali del prossimo 20 settembre, nonché il referendum confermativo, porteranno il risultato scontato di una ulteriore disaffezione della politica, anche locale, e di un sì – sbagliato perché dettato da un vieto populismo – che si vendicherà della “casta” votando il taglio dei parlamentari. Con buona pace della rappresentanza mutilata e una selezione di “rappresentanti” del popolo non eletti ma solo “prescelti” dalla segreterie dei partiti. Ma questa è un’altra storia.

Per ora torniamo a insistere sulla responsabilità civile del Paese nei confronti di chi lavora, mantiene e crea occupazione e, soprattutto, paga le tasse. Dimentichiamoci di Franceschini e del decreto agosto per le città d’arte, ma la Regione Calabria s’inventi al più presto aiuti veri se vuole evitare la catastrofe economica in una terra dove i quattrini quelli che lavorano li vedono sempre in misura minore e le poche risorse che producono non li usano per vivere o sopravvivere, ma per pagare le mille imposte di uno Stato rapace. (s)

L’amara drammatica verità del post-riapertura
Per negozianti e bar a fine giornata casse vuote

di SANTO STRATI – Quando a fine serata, il primo giorno di riapertura, hanno guardato il registratore di cassa, lo sconforto di molti esercenti, di troppi negozianti, ha raggiunto dimensioni inimmaginabili. Dopo 70 giorni di chiusura forzata (legittima e dovuta, per carità), il giorno della ripartenza, pur con molte incognite, sembrava dovesse riportare qualche timido sorriso sulle facce sconsolate di chi non vedeva né clienti né quattrini da troppo tempo. Invece, il disastro annunciato si è rivelato ancor più grave di quanto si potesse immaginare. Sette su dieci hanno riaperto (la percentuale nazionale si attaglia anche alla realtà calabrese) e di questi sette, dopo lo choc (pur se ipotizzato) del registratore di cassa con numeri a una cifra negli scontrini emessi, in molti – sfiduciati – stanno seriamente pensando di chiudere. Del resto, come si può dar loro torto? Non ci sono aiuti seri, le provvidenze annunciate con grande enfasi sono irraggiungibili se non totalmente impossibili, l’accesso al credito uguale a zero e il peso fiscale identico se non superiore a prima. Oltre, naturalmente, ai costi fissi su cui il Governo non ha ha avuto il minimo senso pratico di intervento. Continuare con la logica del credito d’imposta, pari al 60% delle spese di affitto è un’ignobile risposta a chi fatica da anni e versa regolarmente tasse e contributi e permette allo Stato di garantire i lauti stipendi ai burocrocrati ormai integrati nelle strutture dei ministeri. Funzionari che vivono una dimensione tutta loro, incapaci di valutare, capire,o appena immaginare la gravità della situazione.

Perché non ci vuole molto a comprendere che ci sono due ordini di problemi: da un lato agli esercenti viene richiesta l’adozione di misure di sicurezza che non sono gratis, dall’altra le stesse misure scoraggiano i clienti e fanno rinviare consumi e acquisti in tempi migliori. Veniamo agli esercenti: comprare gel, mascherine, plexiglas, disinfettanti, richiedere interventi di sanificazione, ecc. ha un costo. Già da 70 giorni baristi, ristoratori, artigiani, parrucchieri, barbieri, estetiste, ecc. non battono un centesimo sul proprio registratore di cassa e devono pure affrontare altre spese per iniziative di cui non si sa per quanto tempo saranno richieste. Facciamo un esempio pratico: il ristoratore Pippo che aveva venti tavolini per 80 coperti, dovrà rinunciare a due terzi di clienti (25 clienti al massimo) e garantire le dovute distanze di sicurezza. Ha un colpo di genio, ordina lastroni di plexiglas che facciano da divisorio tra un tavolo e l’altro. Siccome di 20 tavolini potrà utilizzarne appena sei, gli serviranno almeno cinque lastroni di plexiglas trasparente (non può mica mettere il polistirolo o il cartongesso…). Costo medio di ogni lastrone da 250 a 400 euro  oltre l’eventuale montaggio. Alla fine del giorno prima della ripartenza il nostro ristoratore avrà speso almeno 2/3000 euro per mettere in sicurezza il locale. Col rischio, naturalmente, che tali misure, a distanza di qualche mese possano non essere più considerate adeguate e dovranno essere sostituite o modificate. A fine giornata, il nostro ristoratore con due-tre giri di coperti avrà realizzato 75 coperti, se gli butta bene, contro i 240 del periodo pre-covid. Come farà a gestire il locale, gli affitti, il personale e tutto il resto? Se ha una cospicua somma da parte e vuol fare il missionario non avrà alcun ripensamento. Ma se è un onesto lavoratore che si spezza la schiena tutto il santo giorno facendo salti mortali per mantenere la famiglia e garantire il lavoro ai propri dipendenti, cadrà nello sconforto più totale. Già, perché c’è l’altra faccia della medaglia: il cliente. Scoraggiato da un servizio spesso poco funzionale e da obblighi che, pur se legittimi, risultano demoralizzanti (lunghe file per l’accesso nei locali o nei negozi, gel per le mani, guanti, mascherine, distanze da mantenere, ecc) finisce per rinunciare agli acquisti o ai servizi cui era abituato. Escludendo la cura del corpo (barbieri, parrucchieri, manicure, pedicure, massaggi) tutto il resto risulta persino superfluo, oppure – disgraziatamente per i dettaglianti – si può ordinare ad Amazon o a chiunque faccia e-commerce, restandosene tranquillamente a casa, senza file da fare, senza obbligo di mascherine, senza sentirsi addosso il rimprovero della cassiera perché ci si attarda nella scelta dei prodotti. Questo significa – in assenza di una seria politica di aiuti che compensi lo squilibrio provocato dal covid alla piccola impresa, al negoziante, al gestore di bar o di trattoria, che non c’è futuro altre che per il 30% (quelli che hanno deciso momentaneamente di non riaprire) ma per una larghissima fetta di operatori commerciali. Chiudono i negozi, le attività al dettaglio, se ne avvataggiano i grandi del commercio on line, e ci ritroveremo con centinaia di migliaia di disoccupati prima che arrivi l’autunno. E non parliamo qui del personale addetto al cosiddetto turismo balneare: quanti giovani quest’estate non avranno neanche l’opportunità di un lavoro part-time come bagnini, assistenti di spiaggia, aiutobanconisti, camerieri, ecc.? A piangere non sono solo i gestori dei lidi, abbandonati e trascurati, ma saranno migliaia di famiglie.

C’è, insomma,  una bomba sociale che sta per esplodere e il contagio della crisi economica non ha né eparina né plasma autoimmune che possano alleviare il rischio di morte: qui – scusate il macabro raffronto – avremo migliaia di aziende destinare a morte certa. E nessuno fa nulla. A cominciare dal Governo che offre solo le funamboliche capacità del premier Conte di restare sempre in equilibro sul filo delle promesse e degli annunci, quando in realtà servono fatti concreti. Serve denaro fresco e qui continuano a parlare di credito d’imposta. Ma quale imposta, quali tasse ci saranno da pagare se le aziende esalano l’ultimo respiro? Chi verserà i contributi previdenziali e assistenziali se la platea degli aventi diritto, i lavoratori, diventerà sempre più assottigliata, come se a uno spettacolo, pur importante e degno di attenzione, si recassero quattro spettatori soltanto.

Gli attori protagonisti, negozianti, esercenti, liberi professionisti, non solo non hanno visto il becco d’un quattrino da 70 giorni. L’elemosina dei 600 euro ha offerto, nella sua drammatica funzione, comiche surreali. La cassa integrazione è ancora un miraggio per oltre due terzi di lavoratori che a casa non hanno niente da mangiare, mentre continuano ad accumularsi bollette, utenze, affitti, spese di ogni genere. In Calabria, almeno, la metà di chi aveva diritto alla cassa integrazione l’ha ricevuto in tempi “umani”, ma non è sufficiente, serve tempestività e un minimo di buonsenso. Che i nostri governanti mostrano di non avere la più pallida idea di cosa possa essere.

Anche in Regione, per la verità, le cose non brillano: il 7 maggio in pompa magna sono stati annunciati 120 milioni di aiuti “immediati” da tradursi in 20.000 assegni da 2000 euro da destinare ad altrettante aziende indebolite dal coronavirus e impossibilitate a produrre reddito da 70 giorni, più il pagamento di un terzo dei contributi dovuti per i lavoratori cui viene garantito il mantenimento del posto di lavoro. Siamo al 20 maggio, il primo preavviso di bando pubblicato ha provocato una marea di proteste per l’assurdità dei requisiti richiesti (incluso il documento di regolarità amministrativa, ossia la dimostrazione di essere in regola con il versamento di tasse e contributi e, per buttarla sul comico, una certificazione firmata da apposito perito (con pagamento ovviamente a carico del beneficiario dell’aiuto) attestante la perdita di reddito. Ieri è apparso il preavviso numero due e, ancora una volta, si ha la concreta dimostrazione che a scrivere questi bandi siano funzionari privi di senso pratico (che avranno probabilmente fatto le scuole serali con Crudelia Demon). Non si capisce che ogni giorno in più che si rinvia ci sono decine di aziende che non riaprono più. Non si comprende che qui non si sta facendo beneficenza, ma si cerca, in misura abbastanza modesta, di rendere meno amara la vita di chi è rimasto fermo 70 giorni (pensiamo a parrucchieri, estetiste, artigiani, negozianti, baristi, ristoratori, ecc.). E per distribuire la miseria di 2000 euro (importanti, per carità, in un momento di panico totale) si continua a chiedere di certificare “lo stato di povertà” e quantificare le perdite. Poteva aver senso se a disposizione di questi imprenditori aspiranti morituri ci fossero 20-30mila euro ciascuno: ti dò il 50-60% di quello che hai perso, per farti riaprire, per farti recuperare la fiducia in uno stato che non è solo un “rapinatore autorizzato” a mezzo tasse, ma provvede concretamente a far ripartire il Paese. Invece no, per il contributo a fondo perduto l’azienda dovrà autocertificare che la sua “attività economica è stata sospesa ai sensi dei D.P.C.M. 11 marzo 2020 e 22 marzo 2020” e che il contributo non eccede il “fabbisogno di liquidità determinatosi per effetto dell’emergenza Covid-19”: che significa? Chi farà corsi accelerati per insegnare a comprendere le scritture dei bandi regionali si farà d’oro.

L’assessore al Lavoro Fausto Orsomarso, uno degli ideatori di “Riparti Calabria”, sostiene che per la misura flat dei 2.000 euro «sono richiesti una semplice autocertificazione e un documento di identità». Quando apparirà il bando e il relativo modello di autocertificazione ne riparliamo. L’altro bando, invece, riguarda le aziende con fatturati superiori a 150 mila euro (previsto un bonus fino a 15mila euro come sostegno all’occupazione). «Le due misure – ha dichiarato Orsomarso – sono accomunate dalla facilità di accesso attraverso piattaforme informatiche sulle quali sarà sufficiente caricare pochi documenti per completare la procedura e accedere direttamente agli aiuti. Niente obbligo di rivolgersi ai consulenti, niente firma digitale, diamo fiducia agli imprenditori calabresi, avviamo subito i pagamenti e rinviamo ad una fase successiva i controlli, sia quelli a campione da parte della Regione, sia quelli demandati a prefetture e Guardia di finanza cui invieremo i report delle domande. Abbiamo cercato di coniugare le regole alla semplicità e alla rapidità di intervento. La procedura prevede un ordine cronologico, che è quella che garantisce maggiore trasparenza, ma il sistema impedisce invii massivi e richieste multiple». Sembra un film già visto, ci perdoni l’assessore il nostro inguaribile scetticismo. Sarà una lotta all’ultimo (anzi “al primo”) click tra i mouse più veloci della regione. Su oltre 100mila piccole imprese potenziali destinatarie di questi miserevoli 2000 euro, una su cinque vincerà la medaglietta, sempre che, nell’attesa non abbia definitivamente abbassato la saracinesca e mandato a casa anche l’unico dipendente rimasto. (s)