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L'OPINIONE / Giusy Staropoli Calafati: La storia non si insegna. Si ripete

L’OPINIONE / Giusy Staropoli Calafati: La storia non si insegna. Si ripete

di GIUSY STAROPOLI CALAFATILa storia insegna, ci è stato sempre detto. Ma la verità è che la storia non veste mai i panni di una maestra, e annullando ogni memoria, si ripete. Come fosse il vocale di una musicassetta o le immagini di una pellicola. Finita la traccia, il nastro si riavvolge e ricomincia tutto daccapo. Stessa musica, stesse figure.

L’uomo non ha mai imparato nulla dalla storia. L’ha sfidata invece. E per l’incapacità ossessa di non essere mai riuscito a comprendere le lezioni impartitegli dalle sue stesse gesta, è stato sempre sconfitto. Nessuno impara da sè stesso, né dai propri fallimenti se questi non vengono da altri evidenziati. Ognuno dovrebbe essere allievo di un maestro. Ma ci siamo sempre finti solo maestri noi uomini, e per piacere solo a noi stessi, quando invece dovevamo essere allievi. Incapaci di capire ed intercettare gli errori delle nostre azioni, non abbiamo fatto altro che perpetrare tutti gli errori passati. Con l’aggravio di conoscere già i tristi finali. 

Non è dunque il diavolo, quella vampa di fuoco rovente, malefica e inestinguibile, che minaccia il creato aggiudicandosi ogni sorta di male, e infiammando le peggiori rivolte, come scriveva Leonida Repaci ne Il giorno della Calabria, che approfittando del riposo del Creatore, distrugge, a suo dispetto, ciò che egli ha amorevolmente creato, ma l’uomo. Il sapiens, dalla cui stessa carne, Dio plasma finanche suo figlio, ma che ahinoi, è già disobbediente nel giardino dell’Eden, tentato dalla donna e dal serpente, mai riconoscendo a sé e alla sua stirpe il vero valore. Egli, infatti, si scopre sempre più ossessionato dall’essere egli stesso, protagonista e antagonista dei suoi stessi fatti e dei medesimi misfatti. Dei corsi e i ricorsi della storia in cui, ad opera sua, si ripetono addirittura le guerre. Frutto acidulo della follia della specie a cui appartiene, che non avendo credo né spirito di ideale, tumula ogni radice umana.

Sentii parlare della guerra, per la prima volta, da mia nonna quando ero bambina. Avevo più o meno cinque anni, e correvo spensierata dietro le farfalle.

La guerra l’aveva vissuta lei. E ne era uscita particolarmente provata. Neppure ai cani, diceva. Tanto se la sentiva viva sulle carni. Una disfatta di carne e di ossa. Un trito di animali e di uomini. Un campo di sogni sepolti, dove i papaveri portano in spalla gli uomini morti.

Quando le chiedevo di raccontarmi com’era andata, si incupiva mia nonna. Persino la voce le diventava incerta. Tremolante. Un dettato che le giungeva dal passato e che diventava terribilmente presente.

“Immagina un paese che da una parte ha il calvario e dall’altra ha il manicomio”, diceva. “Ecco la guerra è così. È morte e pazzia. La guerra non è buona per nessuno. Pe nuju” insisteva. “La carne vale, la roba no. Megghju ricchi di carni ca d’arrobba. La guerra è solo per la roba”.

Conosceva bene il colore della morte che provocava la guerra, mia nonna. Chju’ niru da menzannotti, diceva, e pregava affinché noi altri di quel nero lì non dovessimo mai conoscerne le trame. Esso irrompe nella quiete della notte rabbuiata dalla violenza, trasformando la pace dei popoli, in una deflagrazione della carne umana. Le guerre, diceva la nonna, sono fatte da persone che si uccidono senza conoscersi, per gli interessi di persone che si conoscono senza uccidersi. Ma solo oggi scopro che queste parole non erano sue ma di Pablo Neruda.

Se la nonna oggi fosse stata qui, mi avrebbe chiesto di pregare. Chju’ niru da menzannotti, è scuru abissu. La guerra è tornata. La Russia ha attaccato Kiev. La città ha il calvario da una parte e il manicomio dall’altra. E tutto perché la Russia oltre a Dio, ha dimenticato anche Tolstoj: “Lasciamo che i morti seppelliscano i morti, ma fin quando si è vivi, bisogna vivere ed essere felici”. (gsc)