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Carbonai Serra San Bruno

Prima dell’Alba – La Rampa, si parla degli ultimi carbonai della Calabria su Rai 3

Nella puntata di questa sera di Prima dell’alba – La Rampa, un programma di Rai 3 prodotto da Stand By me con Salvo Sottile, si parlerà, anche, degli ultimi carbonai della Calabria.

Quest’ultimi, di notte, con estrema fatica e bassissimi redditi, lavorano appena fuori dal paese di Serra San Bruno, Vibo Valentia.

Salvo Sottile commenterà il servizio con Carlo Calenda, e si confronterà con lui sulla necessità di andare incontro ai cambiamenti dell’economia globale, ma anche di tenere conto delle sue contraddizioni, delle quali i carbonai della Calabria sono un perfetto simbolo.

In un articolo di RepubblicaCarmine Abate racconta, supportato dalle foto di Fabrizio Villa, il lavoro dei – pochi – carbonai di Serra San Bruno, che sono definiti «come i panda, in via d’estinzione».

«Gli ultimi eredi di mestiere millenario – si legge nell’articolo – svolto allo stesso modo dei fenici, che probabilmente lui non sapeva chi fossero. Questo mestiere, che consiste nel trasformare la legna in carbone e che richiede una maestria e una fatica fuori dal comune, i carbonai lo hanno imparato dai padri e dai nonni».

«In passato – prosegue l’articolo di Abate – Serra San Bruno era più nota per i suoi carbonai che per la splendida Certosa. Erano in tanti del paese che facevano i carbonai, e i boschi delle Serre non potevano bastare per tutti. E così si spostavano nei territori collinari o montani ricchi di lecci e di faggi, dove vivevano finché c’era la materia prima, la legna, e poi si stabilivano altrove».

Nell’articolo, Carmine Abate ricorda un episodio del passato, a quando una famiglia dei cosiddetti carvunàri di Serra San Bruno si erano trasferiti nel suo paese, e un bambino di queste famiglie gli chiese di accompagnarlo dal padre, un carbonaio. Arrivati, dopo due ore di cammino, l’autore racconta di aver trovato «in un grande spiazzo senza alberi vidi una montagnola fatta di pezzi di legna della stessa lunghezza, più grossi alla base e più fini verso l’alto. Era la carbonaia, perfettamente circolare ed enorme, almeno tre o quattro volte l’altezza del padre del mio amico, un uomo magro e slanciato, che continuava a salire e scendere lungo una scala di legno appoggiata alla montagnola, infilando paglia e frasche nella buca in cima e infine appiccandovi il fuoco».

«A quel punto – prosegue nel racconto Abate – due o tre carbonai coprirono la montagnola con terriccio, frasche e ancora terriccio, per poi compattare il tutto con violenti colpi di pala e infine bucarla qua e là con un bastone appuntito come una spada. La carbonaia aveva ora le sembianze di un piccolo vulcano che eruttava scintille e fumo azzurro dal cratere e dai fori delle pareti, anzi quello era vapore, che se lo respiri non ti fa male, come mi spiegò il padre del mio amico, e quando fra una ventina di giorni diventa bianco vuol dire che il carbone è cotto al punto giusto e si può vendere. Nel frattempo bisognerà civarla meglio di un figlio, la carbonaia, con altra legna e paglia e, se a causa del vento c’è un principio d’incendio, con l’acqua del ruscello. Altrimenti, se la legna s’infiamma, va in fumo il lavoro di mesi e noi carvunàri mangiamo capocchie».

«Il padre del mio amico – si legge ancora nell’articolo – e numerosi carvunàri di Serra San Bruno hanno resistito fino a quando il gas e il carbone dell’Est hanno invaso il mercato. Poi sono emigrati anche loro all’estero o al Nord Italia. Quei pochi che resistono continuano a lavorare dalle cinque del mattino alle otto di sera; spesso si alzano la notte per andare a controllare se la loro creatura sta maturando bene, non importa se è domenica o Pasqua o Ferragosto; sanno che il loro carbone è di qualità superiore, prodotto da alberi sani e profumati, mai bagnati da piogge acide, tant’è che viene richiesto non solo nei migliori ristoranti italiani ma pure in quelli russi per la carne alla brace».

Per l’autore, «gli ultimi ‘panda carbonai’ di Serra San Bruno meriterebbero di essere protetti, aiutati e valorizzati per quello che fanno e che sono: il simbolo della Calabria che lavora con passione e che resiste». (mp)

In copertina, la foto di un carbonaio serrese, datata 1952.