PASQUA E LA PACE: UN FORTE MESSAGGIO
NELLE PAROLE DI DON MIMMO BATTAGLIA

di PINO NANO Che Pasqua sarà questa di oggi per un sacerdote? Che cosa dirà il sacerdote di ogni nostro piccolo paese a chi si prepara oggi a vivere la Domenica di Resurrezione?

Per don Mimmo Battaglia, attuale Arcivescovo di Napoli, lui originario di Satriano e figlio più autentico del catanzarese, la giornata di oggi va interamente dedicata al tema della pace. 

La preghiera che ha scritto per la Pasqua di quest’anno, e che è diventata il suo biglietto ufficiale di auguri, rivendica con forza la pace nel mondo, la pace nei cuori, la pace nelle famiglie, la pace del lavoro, la pace del carcere, la pace dei malati, la pace dei disperati, la pace degli illusi, la pace dei senza Dio, la pace del silenzio, la pace di ha perso la fede e il coraggio di vivere, la pace della politica, la pace del disordine e della confusione. 

Solo lui e nessun altro meglio di lui avrebbe potuto scrivere un appello così corale e così diretto al cuore degli uomini. 

Signore della Pace, perdona la nostra pace sazia! 

Perdonaci la pace del ricco, che banchetta sul sopruso del povero. 

Perdonaci la pace del potente, 

che si accampa tra le afflizioni del debole. 

Signore della Pace, perdona la nostra pace armata! 

Perdonaci la pace, che prepara la guerra. 

Perdonaci la pace del dittatore, che imprigiona il dissidente.

Perdonaci la pace dei vecchi, 

che inneggiano alla morte in guerra dei giovani. 

Signore della Pace, perdona la nostra pace sicura! 

Perdonaci la pace del padrone, che sfrutta il lavoratore. 

Perdonaci la pace delle città, che disdegnano il lavoro dei campi. 

Perdonaci la pace della casa, 

che non guarda chi non ha una casa. 

Perdonaci la pace della famiglia, 

che non si fa famiglia per le solitudini altrui. 

Don Mimmo Battaglia è uno di quei sacerdoti che per tutta la sua vita ha inseguito i più poveri per aiutarli e per dare loro conforto, uno di quei sacerdoti che pareva essere destinato a rimanere per sempre soltanto e per tutta un profeta del dolore e della miseria, figlio del Sud, in una regione lontana come la Calabria che è la sua terra di origine e in una città piena di problemi come Catanzaro. E invece, un giorno per uno strano gioco del destino il profeta dei poveri diventa vescovo. Anzi, diventa Arcivescovo di Napoli. 

Signore della Pace, perdonaci la nostra pace prudente! 

Perdonaci la pace per timore della verità. 

Perdonaci la pace del compromesso. 

Perdonaci la pace corrotta. 

Perdonaci la pace che non è pace. 

Signore della Pace, perdonaci questa pace minuscola, 

che è incapace di cogliere la potenza pacificatrice del tuo Vangelo, 

una pace che si nasconde dietro le convenzioni del mondo, 

una pace che tarda a divenire giustizia, 

una pace pigra, 

una pace che non è pace. 

Quella di don Mimmo Battaglia sembra la trasposizione della favola del brutto anatroccolo che diventa cigno bellissimo del grande lago della vita. Se posso paragonare questo sacerdote a qualcosa o a qualcuno vi dico subito che mi riporta con i ricordi indietro nel tempo, quando per la prima volta incontrai Hélder Pessoa Câmara, famosissimo vescovo delle favelas brasiliane.

«Quando io do da mangiare a un povero – raccontava – tutti mi chiamano santo. Ma quando chiedo perché i poveri non hanno cibo, allora tutti mi chiamano comunista». Don Mimmo Battaglia è ancora molto di più di mons. Hélder a Câmara. 

E allora ti preghiamo, Signore della Pace: 

donaci il coraggio della Pace! 

Donaci una Pace scomoda, che tende la mano all’affamato, 

apre la porta cello straniero e libera il prigioniero, 

disarma il potente e sostiene il debole, 

non accetta compromessi e non si lascia corrompere. 

Donaci una Pace maiuscola come la tua Risurrezione, 

la Pace, la tua Pace, che ci liberi dai cenacoli delle nostre paure, 

che irrompa nelle nostre quiete sicurezze. 

La tua Pace, fratello Gesù, la sola che duri per sempre.

Non quella del mondo, ma la tua. 

Fratello Gesù, perdonaci la pace, donaci la Pace!

Don Mimmo è un uomo buono, un pastore alla vecchia maniera, educato all’ascolto e alla pazienza, ma quando scrive è l’infinito. Ho letto decine di suoi scritti, e vi assicuro che è un uomo che scrive col cuore immerso nelle nuvole. Don Mimmo è il simbolo della Chiesa contemporanea, che non conosce il senso della mediazione quando c’è da ricordare al mondo esterno della politica la gente che soffre. E finalmente, per una volta almeno, non si poteva scegliere un pastore migliore di lui per la grande Napoli, e a cui la Domenica delle Palme don Mimmo ha regalato e dedicato una delle sue omelie più intense e più belle. Qui per voi, solo un passaggio.

La Passione di Cristo non è ancora conclusa. Investe il presente. Coinvolge ciascuno di noi. La Passione di Cristo si prolunga nella passione dell’uomo, di milioni di creature. La sua interminabile via crucis ha stazioni obbligate negli ospedali, in tante case, soprattutto dove la vita viene annullata, uccisa, per via di guerre, e in un’infinità di luoghi segreti. E ancora: Nelle sue piaghe, le piaghe di chi non ha lavoro; di chi è tormentato dall’angoscia per il futuro; di chi ha conosciuto il dolore della morte a causa dell’incuria dei nostri territori, per il veleno disseminato nei nostri terreni e nella nostra aria; delle donne vittime di violenza; degli esclusi; di chi soffre a causa della giustizia; dei giovani che non riescono a mettere insieme i pezzi della loro vita. La cosa più importante che possiamo fare è sostare accanto alla santità delle lacrime, presso le infinite croci del mondo dove Cristo è ancora crocifisso nei suoi fratelli. E deporre sull’altare di questa liturgia qualcosa di nostro: condivisione, conforto, consolazione, una lacrima. E l’infinita passione per l’esistente. Ma anche schiodare i crocifissi di oggi dalle loro croci.

Ecco che il sacerdote si fa pastore, e il pastore non fa altro che pregare per il suo gregge, che è sempre più sperduto e confuso. Ma questa oggi è la Pasqua di molti di noi. (pn)

DON MIMMO BATTAGLIA: SI DEVE FERMARE
LA TEMPESTA D’EGOISMO CONTRO IL SUD

di MIMMO NUNNARI – Ti illumina la mente e ti riscalda il cuore parlare di Sud e di futuro dell’Italia con un uomo di punta della Chiesa di Francesco, come l’arcivescovo di Napoli, don Mimmo Battaglia, che dice: «Io, prete, sono del Sud non solo perché sono nato in un piccolo paese [Satriano, provincia di Catanzaro] che dalle sue colline guarda il mare e al mare nostro si porge con la generosità della nostra antica accoglienza. Sono del Sud, non solo perché ho lavorato sempre lì, studiato lì, servito il suo popolo lì. Sono del Sud, non solo perché, per volontà del Pontefice e per grazia di Dio, sono Vescovo nella più grande Città del Sud. Io sono del Sud perché sono Sud. E lo sono perché condivido tutto il suo palpitare danime, tutto il suo sentire umano, tutta la sua grande forza creativa. Tutta la sua tristezza e il suo dolore. E tutta la sua allegrezza nella gioia di vivere».

Don Mimmo, come ama essere chiamato, ancora adesso che è arcivescovo metropolita di Napoli dal 12 dicembre 2020, in Calabria – soprattutto nella sua vecchia diocesi di Catanzaro-Squillace dove è stato prete per quasi trent’anni – lo ricordano per l’impegno missionario verso i più deboli e gli emarginati: dal 1992 al 2016 ha guidato il – Centro calabrese di solidarietà, una struttura che si prende cura di soggetti considerati svantaggiati: donne vittime di violenza, tossicodipendenti, alcooldipendenti, immigrati, giovani disagiati e famiglie.

Ha pure scritto un libro, su questa sua esperienza calabrese: Un filo derba tra i sassi (edito da Rubbettino) in cui ha raccolto le testimonianze di “umiliati e offesi dalla vita”, di cui l’autore, durante la sua lunga missione in Calabria, si è fatto padre, fratello e compagno di strada. A Napoli, il prete di strada – espressione che a don Mimmo in verità non piace molto – il “pretaccio”, come lo definì comunque il vescovo Giancarlo Bregantini, nella prefazione di quel libro, volendo indicare, con quel termine, il coraggio e la luminosità” del prete operante, ha continuato ad intrecciare storie quotidiane di periferia e Vangelo.

L’anno scorso, per dire, ha celebrato il giovedì santo a Scampia, in mezzo a una maleodorante e tossica discarica abusiva. Inginocchiato sui rifiuti, ha lavato i piedi di dodici bambini rom e, rivolto a giornalisti e telecineoperatori, li ha implorati a non riprendere lui, ma a riprendere cosa c’era intorno: tonnellate di rifiuti, che avvolgevano le baracche: «Questo non è un posto da esibire – disse – ma di cui avere vergogna».

Qualche cronista riferì che a Napoli lo avevano ribattezzato il “Bergoglio del Sud Italia”, per il suo essere rimasto “un autentico prete di strada”, uno anzitutto innamorato e strenuo difensore del Mezzogiorno. Quando nel maggio 2022 pubblicai per le edizioni San Paolo il libro Lo stivale spezzato, chiesi a don Mimmo di parlare del suo Sud. Ecco cosa rispose: «Tutto il Sud è una terra bellissima. Di questa estesa terra ricca di paesaggi e di storie, di mare e di cielo limpidi, di monti leggeri e di valli ondulate, di cultura e di umanità, di pensiero alto e di braccia forti, di incanto meraviglioso e di mani incallite, ho visto, e ancora da questo luogo straordinario vedo, le sofferenze degli uomini e delle donne, il loro coraggio di combattere ancora».

«La loro vivida intelligenza e profonda bontà. Però ho visto anche e vedo, le ingiustizie inflittegli anche da chi – a causa di un antico e reiterato preconcetto – considera il Sud una zavorra e non una risorsa, credendo di poter agganciare il treno dellEuropa abbandonando sul binario morto quella parte del Paese che in più di mezzo secolo gli ha offerto non soltanto le braccia per le industrie, ma anche le intelligenze per farlo diventare quel ricco e potente territorio che è».

Oggi, a distanza di un anno e mezzo, don Mimmo riprende quel discorso e “tuona”, con toni accorati, che esprimono la sua grande preoccupazione e della stessa Chiesa meridionale, contro il progetto di Autonomia differenziata, che definisce come qualcosa che “contiene nel suo corpo la divisione” e va inteso “come volontà egoistica e come perverso progetto politico”. La sua lunga riflessione, resa pubblica pochi giorni fa in un documento diffuso dalla Chiesa di Napoli, è come un avvertimento, un invito a risvegliarsi, «mentre soffia forte il vento di tempesta che è legoismo».

Nell’Autonomia differenziata, dice don Battaglia, «c’è la volontà egoistica dei ricchi e dei territori ricchi, il progetto antico, di poco più di quarantanni fa, di dividere lItalia, separando il suo Nord, divenuto opulento con le braccia e lintelligenza dei meridionali, da quel Sud impoverito dalla perdita di risorse, di forze fisiche e intellettuali, svuotato progressivamente di fondamentali sue ricchezze al posto delle quali sono arrivati a fiumi inganni e false promesse».

Già la stessa parola “Autonomia differenziata”, non è vera, sostiene l’arcivescovo: «È evidente che essa significhi che lautonomia non è uguale per tutte le regioni, che essa, appunto, si differenzia tra quelle forti, che con lautonomia diventeranno più forti, dalle regioni deboli, che paradossalmente diventeranno più deboli. Insomma, si realizza, anche nelle istituzioni, quella dinamica apparentemente incontrollabile che legittima lingiustizia più grave».

Anche i tempi, per don Mimmo Battaglia, sono sbagliati: «Questa trasformazione nel Paese avviene quando due debolezze si intrecciano pericolosamente, quella della politica e quella del Meridione. Basterebbe solo questo, per accendere le menti più attente e i cuori più sensibili». Questo era il momento per fare altro in Italia, sostiene l’arcivescovo: «Per cambiare il nostro sguardo e quello delle istituzioni, invertendo la sua direzione. Il vero inizio del buon cambiamento si avrà quando tutti partiremo dal Sud. È uno sguardo culturale prima che politico. Muove dal cuore. Per una sola volta almeno restiamo qui, quelli che ci siamo e gli altri,  che sono “ lontani”, scendano qui. Idealmente si diventi tutti insieme Sud per coglierne tutto il dolore e insieme tutta la sua grandezza. Il dolore, che porti alla riparazione dei torti subiti, pur non senza nostre colpe».

«La grandezza, per fare più ricca tutta lItalia, con il prezioso contributo, anche produttivamente economico, del Mezzogiorno. Che il Vangelo e la Costituzione, in questo tempo complesso e difficile, che chiede la generosità e limpegno politico di tutti, ci tolgano il sonno, rendano inquieti i nostri riposi, divengano un peso sulla nostra coscienza, fino a quando ogni riforma e ogni legge, anche la più piccola, non sia orientata al bene di tutti, iniziando dai più fragili, che un giorno scopriremo essere la cosa più preziosa che ci era stata data in dono dalla vita, la culla più adatta a gestire la nascita di una comunità rinnovata, fondata sulla solidarietà, sulla giustizia, sulla pace». (mnu)

Il Vescovo don Mimmo Battaglia ai funerali di Giogiò

di GREGORIO CORIGLIANO – «Perdonaci tutti, Giogiò, perché quella mano l’abbiamo armata anche noi, con i nostri ritardi, con le promesse non mantenute, con i proclami, i post, i comunicati a cui non sono seguite azioni, con la nostra incapacità di comprendere i problemi endemici di questa città, abitata anche da adolescenti, poco più che bambini che camminano armati come in una città in guerra».

Cosa poteva o doveva dire di più, don Mimmo Battaglia da Satriano, arcivescovo di Napoli, di fronte alla bara bianca di Giovambattista Cutolo – Giogiò – come lo chiamavano gli amici, il giovane musicista ucciso a colpi di pistola da un ragazzo diciassettenne dopo una lite in un pub? Ha chiesto perdono a nome suo, ma anche a nome della comunità non solo di Napoli, ma dell’intero Paese. A nome di chi avrebbe dovuto chiedere perdono di fronte alla mamma ed al fratello?

A nome dell’assassino, inconsapevole ed assente? Solo a nome nostro, giustamente. Farlo a nome dell’assassino cosa avrebbe risolto? Semmai avesse avuto l’arguzia di capire, non l’avrebbe fatto, e quindi non ha potuto o saputo chiedere perdono. Ecco perché il mio amico Arcivescovo di Napoli che ha curato per anni il centro calabrese di solidarietà, a Catanzaro, si è assunto la responsabilità dell’immane gesto che ha giustamente scosso la Campania, Napoli, il Paese. Noi, evidentemente, abbiamo armato la mano al giovane assassino, incapace di volere, perché non abbiamo saputo evitare quanto accaduto, abbiamo sempre rinviato il nostro agire – domani, faremo – abbiamo sempre detto che il nostro impegno è scontato, nel senso di sicuro, ma sicuro di cosa, di una parola che non costa nulla, tanto domani è un altro giorno? In compenso ad ogni piè sospinto ci sbracciamo in promesse e proclami, facciamo la voce forte ed intonata, gridiamo ma non agiamo, ci lasciamo prendere, poi, dal laissez faire, dal laissez passer, quando invece occorrerebbe agire, ora e subito. Lo ha detto, lo ricorderete, Rossella O’hara, –  domani è un altro giorno – ma le circostanze erano diverse. Qui c’è l’ennesimo omicidio, di un ragazzo ai danni di un altro ragazzo. Lo ha fatto, l’omicidio, il diciassettenne che, nell’istante in cui ha premuto il grilletto era consapevole, eccome. Ecco perché la richiesta di perdono di Don Mimmo, di fronte a migliaia di persone, compresi ministri, sindaco, presidente della Regione, muti e attoniti e, si spera, sconquassati dall’omicidio e dalle parole, gridate sommessamente dall’Arcivescovo: «Figlio mio, figlio di Napoli, accetta la richiesta di perdono!».

La società ha lasciato intendere l’ex parroco calabrese, voluto fortemente da Papa Francesco alla guida della Diocesi di Napoli, ha fatto tanto, ma è ancora poco, assai poco, aggiungo, a Napoli come altrove, dove l’egoismo, purtroppo, sembra regnare sovrano. Proprio così! Di fronte a tutto ci giriamo dall’altra parte, sembra che siamo diventati tutti sordi di fronte al grido dolore che viene assordante dalla società. Eppure il fratello di Giogiò consapevole non ha potuto non gridare che «Napoli sei tu, fratello, non è Gomorra o mare fuori!», guardando lo strumento e stringendolo a sé appartenuto a Giovambattista.

L’Inno alla Gioia di Beethoven scelto dai familiari per accompagnare il feretro fuori dalla Chiesa, viene eseguito, giustamente, a tempo lento, come una marcia funebre: un invito alla riflessione di tutti e di ognuno, finalmente. Una riflessione che, a questo punto, non può non indurre all’azione, se il silenzio – a Napoli, di fronte all’altare della Chiesa del Gesù Nuovo – ha accompagnato l’estremo passaggio di Giogiò verso il Cielo, sicuramente.

«Restate ed operate, non scappate – chiude con voce tremante don Mimmo Battaglia – operate una rivoluzione di giustizia e di onestà». Non era mai successo, prima. Un segno? Speriamolo tutti, insieme. Per il musicista stroncato, per noi! Giorno verrà, diceva Padre Cristoforo, dovrà venire! (gc)

L’arcivescovo di Napoli don Mimmo Battaglia: Bisogna ascoltare i giovani

di GREGORIO CORIGLIANO – «Non sono stato io che ho aiutato i tanti ragazzi che ho avuto modo di incontrare, ma sono stati tutti gli uomini e le donne che ho incontrato, che Dio mi ha permesso di incontrare, che hanno cambiato la mia vita e riempito di senso la bellezza del mio essere prete». Con gli occhi lucidi e sinceri, don Mimmo Battaglia, presidente onorario del centro calabrese di solidarietà, di Catanzaro, ed oggi, per scelta personale del Santo Padre, arcivescovo di Napoli, ha sottolineato l’importanza di ascoltare i giovani ed ha condiviso con loro la scelta di seguire il Signore.

E lo ha fatto, in un commovente incontro, al Comunale del capoluogo della Regione, voluto per festeggiare i 37 anni di attività di quel centro che ha guidato per decine di anni, prima di essere chiamato alla guida della Curia di Napoli. Un incontro che definire commovente è poco, intenso, pieno di pathos, da batticuore. Don Mimmo, come vuole essere chiamato, ha lasciato per due giorni la sede episcopale napoletana, per tuffarsi tra i suoi giovani e rivivere le giornate che lo hanno visto impegnato nella sua azione spirituale, e non solo, di vita e di rinascita. Il centro calabrese di solidarietà, lo sapevo bene, è fatto di storie, volti e speranze ed in quel centro l’arcivescovo di Napoli dice di aver imparato il senso della speranza accogliendo, ascoltando, camminando assieme a questi “volti”, facendo mia la loro storia, che è una storia che ha cambiato la mia vita.

Il cuore è a mille, quando l’arcivescovo parla, quando in silenzio l’assemblea del Comunale ascolta, quando giovani e meno giovani, convenuti da tutta la Calabria, si spellano le mani in calorosi applausi di stima super meritata. Ero lì perché informato da Franco Cimino della presenza a Catanzaro dell’arcivescovo. Al mio amico, degli anni 80, di Catanzaro, avevo chiesto qualche mese fa di essere messo in contatto Don Mimmo. E Franco Cimino lo aveva fatto subito per la nostra conoscenza “politica” – eravamo, allora nel Movimento giovanile della DC – e, sapendo dei loro rapporti di vicinanza, gli avevo chiesto la cortesia del contatto. Avrei voluto chiedere a mons. Battaglia di fare la prefazione di un libro, che uscirà in giugno, che “abbiamo” scritto con Piero Praticò, un altro mio amico del giovanile di Reggio, che aveva fatto il Cammino di Santiago.

Ne abbiamo parlato ed è venuta fuori una lunga riflessione su quel che significa e comporta il cammino. Franco Arcidiaco e Antonella Cuzzocrea stanno provvedendo alla bisogna. Per metà giugno – questa è una anticipazione- vedrà la luce, per i tipi della Città del Sole. Per dirmi che avrebbe accettato di farmi la prefazione, l’arcivescovo, nativo di Satriano, ma di missione sacerdotale a Catanzaro, ha chiesto a Cimino il mio numero.

E cosa ha fatto? Mons. Battaglia, facendomi emozionare, e non poco, mi ha telefonato. Una telefonata che avrei voluto registrare se avessi saputo farlo. Non capita tutti giorni l’occasione di ricevere la telefonata di un Arcivescovo e per di più di una Diocesi di grande rilievo come quella di Napoli. Mons. Battaglia si è ricordato dei miei trascorsi al Tg calabrese della Rai. Sempre preciso e affettuoso mi dice: dottor Corigliano, sono don Mimmo (non l’arcivescovo di Napoli) si ricorda di me?” Addirittura, dico. “Padre, certo, lei mi commuove, mi fa piangere. “Insomma, aveva accettato di scrivere la prefazione.

«Mi ricordo, benissimo, di lei». Grazie, padre, verremo con Piero a Napoli a portarle la prima copia. Andremo, così come siamo andati a riverirlo a Catanzaro. Due ore volate con le riflessioni a voce alta di don Claudio Magnago e di don Mimmo. Mons. Magnago ha ricordato di essere entrato a Catanzaro “dalla porta stretta” del Centro in occasione del suo insediamento il 9 gennaio 2023 come testimonianza tangibile del suo «esserci sempre» in quella comunità che opera nel campo del disagio e dell’emarginazione giovanile, con particolare attenzione alla prevenzione, al recupero e al reinserimento sociale di soggetti con problematiche di dipendenza patologica, ma anche di donne e di minori vittime di violenza. «Come spiegate la frase scritta sui muri di Auschwitz»? «se Dio esiste dovrà chiedermi scusa!» hanno tuonato in coro alcuni dei ragazzi in teatro guidati da Francesco Passafaro, volontario del centro. Maniago e Battaglia non hanno evitato la domanda.

Anzi. Hanno raccontato e spiegato le ragioni di una fede che per essere credibile “esce dalle sacrestie”, l’importante è “non lasciarsi prendere da giudizi e pregiudizi per non perdere il senso della bellezza dell’incontro con l’altro. La Chiesa siamo tutti noi, hanno detto i presuli all’unisono. Stare al Centro, fatto di persone appassionate, operatori e volontari – ne ha parlato la presidente Isolina Mantelli- per occupare le periferie, far vincere il bene, prestare attenzione all’altro.

Certo se Catanzaro e la Calabria fossero magnanimi nell’aiutare concretamente questi uomini “donati agli altri per scelta di vita” potrebbe significare vere opportunità di rinascita. Grazie don Mimmo, a presto. (gc)

Don Mimmo, pastore buono della Chiesa, cittadino di Catanzaro che ci “onora”

di FRANCO CIMINO – È tornato. Nuovamente è tornato. Non è la prima, non sarà l’ultima sua visita alla nostra Città. Tornerà anche quando sarà molto più impegnato. Ne sono certo. Nella sua Città. A Catanzaro. La sua Città, quel luogo che dalla piccola Satriano, sul cocuzzolo che guarda il mare, è diventato il mondo per lui. Sì, quel mondo del suo tutto. Prima immaginato. Dopo vissuto pienamente. Il mondo delle sue aspirazioni di ragazzo, bello e intelligente, con quei colori scuri sulla pelle. E negli occhi. I colori della “razza meridionale”. Quella in cui più a Sud, oltre il Mediterraneo, trovi tutto ciò che più ci somiglia.

A noi calabresi, somiglia. Trovi la terra, la più meridionale di tutte. La più simile alla Terra globale, unitaria. L’unica che abbiamo. La Terra dell’unico popolo che siamo. Dell’unica razza creata, quella umana. In questo Sud, a cui apparteniamo come popolo e come regione, trovi altro che più ci somiglia. La contraddizione nella nuova legge dei contrasti, innanzitutto. Arretratezza e cultura profonda, storia esaltante di dominazioni e ribellioni, schiena piegata sulla reti e sui campi ma non ai piedi del padrone, intelligenza robusta e sentimenti profondi, quelli ispirati dalla luna quando si riflette sul mare. Questo trovi. Ragione e fede, trovi. Religiosità e filosofia, trovi. Arte e contemplazione, pure. Dissesto e voglia di ricostruzione. E la Bellezza, trovi. Quella distrutta dalle inutili guerre e dalla stoltezza degli uomini. E quella ancora rimasta, perché i predatori non vi sono finora arrivati o perché i più coraggiosi tra noi l’hanno difesa.

In questo immenso Sud che ci unisce trovi, quindi, la disperazione e la speranza, la pigrizia e la lotta, il” mi fazzu i fatti mei” ,in tante lingue, e il “eu mi fazzu a pezzi pe’ tutti”, sintetizzato nel più cantato inno popolare, anche in tutte le lingue. Questo:” eu ti dugnu tutt’a vita mia.” Tutto questo, trovi a Sud. Nel nostro Sud. E in ogni Sud del pianeta. Mimmo Battaglia, il ragazzo di un borgo somigliante ai borghi belli della Calabria, cerca nella sua prima “grande” Città, quella vastità di spazi in cui poter realizzare i sogni di bambino e le aspirazioni di ragazzo.

Magari, anche un campetto migliore di quello sterrato a ridosso della strada, o in quel cortile cementato, dove dava calci a un pallone inventato. E chissà se non sognasse di diventare un campione. Ne dico per intuizione, ché per forza sarà stato questo anche per lui. Tutti i ragazzi della sua generazione, e della mia, qui, sognavamo la stessa cosa. L’incanto gli si consumò subito tra le mani e gli occhi. Mimmo si fece incendiare il cuore da quella fede che da sempre lo chiamava. Lo invitava con delicatezza. Lo sfidava con forza. Lo carezzava con la grazia più grande che possa scendere su un uomo che ama Gesù, la vocazione. E questa gli si accende nell’animo come un fuoco ardente. Che riscalda e non brucia. Illumina e non acceca.

Catanzaro, la sua Città, diventa il seminario dei suoi studi intensi, dove si distingue subito recuperando le difficoltà del suo partire dalla periferia. Passa il tempo. Gli anni corrono veloci, questi. E quel ragazzo diventa, dalle mani sante di un grande Vescovo, don Mimmo. In questa grande Città inizia la sua opera. Io, purtroppo, non me lo ricordo affatto questo suo periodo. Ero, infatti, noto dentro i confini, e, per la militanza politica, “cosmopolita” sempre in giro per la regione. E per le sedi scolastiche più lontane, dove insegnavo. Nel mezzo la mia Taverna, dove ho vissuto con moglie e figlie per quattordici anni. Don Mimmo, mi arrivò comunque, per la sua fama che cresceva. Anche qui c’entra il grande Vescovo, che gli fu padre e maestro.

E guida severa e dolce. Fu quando, narrano gli appunti della sua biografia ma anche il racconto che con gioia ne faceva, sempre, quel Vescovo, quando parlava con orgoglio di don Mimmo. Spero di ricordare bene e di non sbagliare. Un giorno quel giovane prete si reca da lui per chiedergli di essere inviato in qualche missione lontana. Troppa povertà assoluta, troppa ingiustizia quale forma più violenta dell’ingordigia umano, troppa sopraffazione del ricco sul povero, dei forti contro i deboli, troppi Gesù inchiodati ogni giorno sulla croce del dolore, reclamavano braccia e parole, spalle e preghiera, per lenire quelle sofferenze e, ricevendo il Vangelo, ricevessero anche la spinta a lottare, a riscattarsi. A costruirsi con le proprie mani un futuro di pace e di serenità, nel luogo che è il loro allo stesso modo in cui ogni luogo della terra, e tutta intera la terra, è anche il proprio. Perché i veri liberatori sono gli uomini che liberano sé stessi.

Da ogni prigione. E dagli inganni. La risposta del Vescovo gli arrivò immediatamente. Pressapoco questa: “tu resti qui. C’è una sofferenza enorme che ha bisogno di essere curata, combattuta, sconfitta”. E gli affida la guida del Centro Calabrese di solidarietà, l’ente che proprio quel Vescovo aveva contribuito a fondare nel lontano 1986, per contrastare, egli intuendone il più grave dei pericoli, il fenomeno, già allora impetuoso, della droga che stava consumando la vita di centinaia di ragazzi. Era il 1992, don Mimmo aveva solo ventinove anni. A gennaio ne compirà sessanta e da quasi sette è vescovo. Da due Arcivescovo di Napoli, dopo gli anni di Cerreto Sannita. Aveva ragione l’indimenticabile mons Antonio Cantisani, l’Africa del dolore don Mimmo l’avrebbe trovata qui.

Da quel Centro, nato per accogliere i tossicodipendenti che don Mimmo andava a “raccogliere” dalle strade più buie e isolate, è venuto crescendo un ente che opera nel campo delle emarginazioni sociali, dove l’abbandono fa il paio con tutte le condizioni di svantaggio che portano esseri umani indeboliti a essere preda di ogni violenza. Da quella domestica a quella delle contraddizioni proprie di questa società delle diseguaglianze. Lo chiamavano il prete di strada, don Mimmo, la denominazione forse a lui meno gradita. Di certo, quella che a me è sempre piaciuta poco. Anche perché troppo semplicistica e riduttiva rispetto a quella personalità gigantesca, sfuggente a qualsiasi denominazione e classificazione.

Per le lotte aperte fatte in Città, per le denunce dei mali che la stavano indebolendo impoverendola in ogni suo aspetto, per il coraggio delle sue posizioni nei confronti dei poteri, per il fascino della sua parola poetica, per la poesia con cui la modulava tra scrittura e oratoria, per la sua fede aperta e non giudicante, per la sua capacità di dialogo, per la sua capacità di comprensione dell’animo umano come ad alcuno esperto di scienze della mente riuscirebbe mai, per il suo amore per la chiesa aperta sulle strade degli uomini, per la sua idea del sacerdozio non chiuso ermeticamente nelle sagrestie, per il suo amore per Gesù e la sua passione per il Vangelo, egli è molto molto di più. È semplicemente un prete. Ecco, questo egli è.

Don Mimmo Battaglia, il prete con il “bastone” e l’anello del Vescovo, oggi è a Catanzaro. Vi è tornato per fare festa con la sua creatura, il Centro Calabrese, da lui stesso affidato alle mani forti di una donna fortissima, accanto a lui, in quella fatica, per oltre vent’anni, Isolina Mantelli. È un compleanno importante ma normale, non tocca la cifra tonda. È infatti il trentasettesimo. C’è una ragione, però, che lo rende davvero solenne e celebrativo. È quella di richiamare l’attenzione della gente su una struttura che ha bisogno di molti sostegni perché non ce la fa più a rispondere a tutti i bisogni di cui si occupa.

Ma anche questo non basta. Come non basta l’appello agli enti pubblici di liberarsi dall’avarizia verso i più bisognosi, per sciogliersi, invece, come fa da sempre, indisturbata nelle tasche bucate del clientelismo e del finanziamento immorale alla brutta politica, già troppo coperta dalle laute indennità di chi la rappresenta, unitamente ai super stipendi di manager e alti burocrati. L’accoppiata oggi pomeriggio di don Mimmo e di don Claudio( il nostro nuovo vescovo), servirà per sensibilizzare le persone a donare. E a donare tanto di più di qualche euro. Donare il proprio impegno nel sociale per fare in modo che in un prossimo futuro siano sempre di meno i povericristi da dover accogliere in quella casa della solidarietà sociale e dell’amore per l’uomo.

Benvenuto don Mimmo, allora, amico di Catanzaro, dove spero che ti si possa presto invitare a tornare per essere “eletto”, dal Civico Consesso, Cittadino Onorario. Poco più di vent’anni fa, lo divenne anche il tuo maestro, che ci ricambiò di un amore infinito e grato. Come il tuo, che estenderai alle Chiese che ti saranno affidate per farle crescere con te. Noi tutti orgogliosi del più lungo cammino che farai. (fc)