di GREGORIO CORIGLIANO – «Perdonaci tutti, Giogiò, perché quella mano l’abbiamo armata anche noi, con i nostri ritardi, con le promesse non mantenute, con i proclami, i post, i comunicati a cui non sono seguite azioni, con la nostra incapacità di comprendere i problemi endemici di questa città, abitata anche da adolescenti, poco più che bambini che camminano armati come in una città in guerra».
Cosa poteva o doveva dire di più, don Mimmo Battaglia da Satriano, arcivescovo di Napoli, di fronte alla bara bianca di Giovambattista Cutolo – Giogiò – come lo chiamavano gli amici, il giovane musicista ucciso a colpi di pistola da un ragazzo diciassettenne dopo una lite in un pub? Ha chiesto perdono a nome suo, ma anche a nome della comunità non solo di Napoli, ma dell’intero Paese. A nome di chi avrebbe dovuto chiedere perdono di fronte alla mamma ed al fratello?
A nome dell’assassino, inconsapevole ed assente? Solo a nome nostro, giustamente. Farlo a nome dell’assassino cosa avrebbe risolto? Semmai avesse avuto l’arguzia di capire, non l’avrebbe fatto, e quindi non ha potuto o saputo chiedere perdono. Ecco perché il mio amico Arcivescovo di Napoli che ha curato per anni il centro calabrese di solidarietà, a Catanzaro, si è assunto la responsabilità dell’immane gesto che ha giustamente scosso la Campania, Napoli, il Paese. Noi, evidentemente, abbiamo armato la mano al giovane assassino, incapace di volere, perché non abbiamo saputo evitare quanto accaduto, abbiamo sempre rinviato il nostro agire – domani, faremo – abbiamo sempre detto che il nostro impegno è scontato, nel senso di sicuro, ma sicuro di cosa, di una parola che non costa nulla, tanto domani è un altro giorno? In compenso ad ogni piè sospinto ci sbracciamo in promesse e proclami, facciamo la voce forte ed intonata, gridiamo ma non agiamo, ci lasciamo prendere, poi, dal laissez faire, dal laissez passer, quando invece occorrerebbe agire, ora e subito. Lo ha detto, lo ricorderete, Rossella O’hara, – domani è un altro giorno – ma le circostanze erano diverse. Qui c’è l’ennesimo omicidio, di un ragazzo ai danni di un altro ragazzo. Lo ha fatto, l’omicidio, il diciassettenne che, nell’istante in cui ha premuto il grilletto era consapevole, eccome. Ecco perché la richiesta di perdono di Don Mimmo, di fronte a migliaia di persone, compresi ministri, sindaco, presidente della Regione, muti e attoniti e, si spera, sconquassati dall’omicidio e dalle parole, gridate sommessamente dall’Arcivescovo: «Figlio mio, figlio di Napoli, accetta la richiesta di perdono!».
La società ha lasciato intendere l’ex parroco calabrese, voluto fortemente da Papa Francesco alla guida della Diocesi di Napoli, ha fatto tanto, ma è ancora poco, assai poco, aggiungo, a Napoli come altrove, dove l’egoismo, purtroppo, sembra regnare sovrano. Proprio così! Di fronte a tutto ci giriamo dall’altra parte, sembra che siamo diventati tutti sordi di fronte al grido dolore che viene assordante dalla società. Eppure il fratello di Giogiò consapevole non ha potuto non gridare che «Napoli sei tu, fratello, non è Gomorra o mare fuori!», guardando lo strumento e stringendolo a sé appartenuto a Giovambattista.
L’Inno alla Gioia di Beethoven scelto dai familiari per accompagnare il feretro fuori dalla Chiesa, viene eseguito, giustamente, a tempo lento, come una marcia funebre: un invito alla riflessione di tutti e di ognuno, finalmente. Una riflessione che, a questo punto, non può non indurre all’azione, se il silenzio – a Napoli, di fronte all’altare della Chiesa del Gesù Nuovo – ha accompagnato l’estremo passaggio di Giogiò verso il Cielo, sicuramente.
«Restate ed operate, non scappate – chiude con voce tremante don Mimmo Battaglia – operate una rivoluzione di giustizia e di onestà». Non era mai successo, prima. Un segno? Speriamolo tutti, insieme. Per il musicista stroncato, per noi! Giorno verrà, diceva Padre Cristoforo, dovrà venire! (gc)