Sara Tafuri, la ragazza che aveva fatto l’attrice

di LUIGI TASSONISara era bellissima, ma d’una bellezza non banale, anzi strettamente legata al suo modo d’essere, al suo carattere vitale e spinto da entusiasmi. E siccome aveva soprattutto un’intelligenza dinamica, sapeva coinvolgere l’interlocutore, gli amici, i suoi compagni di avventura.

L’avventura di Sara Tafuri era cominciata in sordina a Catanzaro, città piccola e insufficiente, come lo è oggi ancora, per i giovani talenti. E allora (siamo intorno al 1976) un gruppetto di giovani attori cercava la propria strada, incoraggiato da un appassionato come Lillo Zingaropoli, e da un grande professionista come Mario Foglietti. Tutti loro, Diego Verdegiglio, Rosa Ferraiolo, Anna Maria De Luca, Pino Michienzi, Carlo Greco, investivano il loro impegno e il loro studio come giovani attori in una provincia desolata, e a volte ravvivata da brevi sprazzi di opportunità, di confronto e di attenzione. Tutti loro si muovevano nel piccolo teatro della vita di provincia pensando al palcoscenico, e alcuni alla macchina da presa. 

Sara era la più piccola, non ancora ventenne, animata dalla voglia di farcela, e cosciente del sacrificio e della spietata scena in cui avrebbe dovuto confrontarsi, quella scena della vita e delle immagini che non l’ha risparmiata e che allo stesso tempo l’ha affidata alla nostra memoria, legandola comunque alla storia del cinema. Dunque, quando arriva Fellini, poco prima del 1980, dopo alcuni anni di ingrata gavetta anche televisiva, è come se quelle porte magiche che i ragazzi di provincia sognavano a occhi aperti si fossero spalancate d’improvviso.

La soubrettina Sara nella Città delle donne sembra aver trovato il palcoscenico giusto, e quelle sue movenze, di lei sorridente e giocosa intorno a un Mastroianni attonito e volubile, andrebbero lette come la passerella appariscente di un femminile ammirato, osannato e mortificato in egual misura, ma un femminile che ha molto di più da dare e da dire. La seduzione, e questo Fellini lo sapeva bene, come lo sapevano i suoi amici Simenon e Zanzotto, che con lui conversavano di queste cose, è un effetto che s’aggira oltre le superfici, oltre le apparizioni eclatanti, è fatta di pause, silenzi, passi cauti, e di intelligenza. Tutte doti che non mancavano a Sara, come dimostra la sua presenza di attrice nei Tre fratelli di Francesco Rosi, e come mostra benissimo un bellissimo film documentario, oggi diremmo un docufilm, sullo scrittore Fortunato Seminara, firmato da Foglietti e da chi scrive per il testo, che appartiene alla cineteca della Calabria.

Lì Sara vi appare in una scena magica a suo modo, accompagnata dalle note di Rachmaninov, negli interni di un vecchio casotto di campagna (che era la campagna di mio padre), con il suo sguardo luminoso ed enigmatico rivolto all’orizzonte. Anche questa sua immagine è destinata a perdurare nel tempo, a dirci implicitamente di lei, a darci la misura del suo generoso dialogo con il mondo.

Ragazza incuriosita dalla conversazione, familiare in tutto il suo essere, Sara era e resta quell’immagine giocosa che, in un pomeriggio di agosto, con il poeta Nelo Risi coinvolgemmo in una intrecciata chiacchierata sul femminile, sulla fierezza, sulla dignità, sulla gioia, sulla passione e sul rispetto, che ogni donna dà e sa che deve ricevere, come era giusto che fosse e con urgenza in anni in cui tutto questo non era affatto dato per scontato. Sara incarnava questa complessità, con la tenacia e la perseveranza di un femminile differente, coraggioso, avventuroso. (lt)

Pippo Marra ricorda il cardiologo Franco Romeo

di PIPPO MARRA L’AdnKronos è orgogliosa di ospitare questa serata dedicata alla memoria del professor Franco Romeo, le cui figlie: Alessia, Silvia e Francesca, sono con noi stasera a condividere questo momento.

Un caro saluto va all’avv. Giacomo Francesco Saccomanno e al prof. Giuseppe Germanò, rispettivamente Presidente e Consigliere dell’Accademia Calabra, promotori di questo evento.

Saluto anche Roberto Occhiuto, Presidente della Regione Calabria e Carmine Belfiore, questore di Roma, nonché gli altri illustri ospiti.

Franco Romeo era un mio amico. Un calabrese importante, una persona cara, piena di premura per il prossimo. Ma soprattutto, ripeto, un amico. E se metto per iscritto il mio ricordo è prima di tutto per non commuovermi.

È stato un cardiologo importante, e lo attestano tutti i riconoscimenti che si è meritato. Tra i tanti, cito solo la medaglia d’oro al merito della sanità pubblica che gli ha voluto conferire il Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, nel 2013.

Per la nostra agenzia, che ai temi della salute ha dedicato sempre una particolare attenzione anche attraverso l’impegno più specifico di “AdnKronos salute”, è stato sempre un interlocutore prezioso, competente, amichevole.

E il compito di chi fa informazione e comunicazione è prima di tutto quello di conservare la memoria, di non dimenticare. È questo lo spirito con cui ci ritroviamo questa sera, e anche nel dispiacere per una persona di valore che non è più tra noi, restano sempre le mille tracce che il professor Romeo ci ha lasciato come la sua preziosa eredità. La nostra serata ha questo spirito e so che la condividerete con me e con tutti i presenti. 

Ma forse il merito maggiore, più ancora che nella sua competenza scientifica, stava nella sua disponibilità umana, nella cura che si prendeva dei suoi pazienti, nell’attenzione che riservava ai 

malati prima ancora che alle malattie. È qui che si nasconde il valore più profondo del grande luminare.

La sua scomparsa ha colto tutti di sorpresa. È avvenuta in un’età giovane, quando avrebbe ancora potuto essere di utilità e di conforto a tanti pazienti che si affidavano alle sue cure. Una circostanza che rende tutto ancora più amaro.

Per noi, che ci siamo avvalsi dei suoi consigli e della sua esperienza, questa perdita è particolarmente dolorosa. L’opera del maestro Gerardo Sacco, con cui oggi lo ricordiamo, è un ringraziamento per il suo operato. E più ancora, un modo per dire che non dimenticheremo tutto il bene che ha fatto. (pm)

[Pippo Marra è Presidente dell’Adnkronos e del Gruppo GMC Comunicazione]

Foto © 2024 Calabria.Live

 

IL RICORDO / Franco Cimino: Il mio Carmelo Pujia, tra sentimento e ragione

di FRANCO CIMINO – Carmelo Puija dopo ventuno mesi esatti dalla scomparsa, torna dalla sua Polia, dove vi è andato, colpevole il Covid pure in esaurimento, troppo frettolosamente, a Catanzaro.

Vi torna per un convegno a lui dedicato. E per la parola di chi è stato invitato a parlarne. Tutte personalità importanti. Roberto Occhiuto, il presidente della Regione, Pierferdinando Casini, il presidente(presidente emerito della Camera e quasi presidente della Repubblica). Questi i nomi di maggiore richiamo, che fanno immaginare una sala gremita di persone. Saranno davvero tanti. Chi verrà oggi, non lo farà, però, come spesso accade qui da noi, per

la buona possibilità di poter salutare, e magare parlarci un po’, gli uomini del potere che potrebbero rispondere a qualcuna delle numerose richieste che i calabresi avrebbero da muovere. E senza rimprovero, tra l’altro, ché noi siamo gente “ bella”, e perciò umile e rispettosa. No, no, chi verrà nella sala grande del palazzo della Regione, verrà solo per

lui, Carmelo Pujia, l’onorevole per tutti, Carmelino per gli amici. Dispiace già dire, mentre scrivo, che quasi tutti coloro, e non erano pochi, che usavano chiamarlo così, non ci sono più. Ne ricordo con tristezza, gli ultimi due, Cataldino Liotti e Guido Rodhio, che sarebbero sicuramente venuti, commossi, ad ascoltare in prima fila. Ma ci saranno gli altri. Chi sono? Lo dico, sussurrandolo, al mio amico Pierferdinando, che, in serata, all’hotel Guglielmo, presenterà il suo libro dal doppio intrigante titolo “C’era una volta la politica. Parla l’ultimo democristiano”. I presenti odierni sono i democristiani. E non sono pochi già quelli che oggi li rappresenteranno tutti.

La Calabria è stata, anche sinceramente, piena di autentici militanti. Io, per fortuna, ho l’età per ricordarmeli tutti, nome per nome, viso per viso, militanza per militanza.

E sono ancora numerosi. E vivi e svegli e intelligenti. E dolorosamente sofferenti per la perdita di quel grande partito della Democrazia e della Politica. Io tra questi. Ma, diversamente da una buona parte di loro, non rassegnato alla fine della Politica e alla perdita di quegli immarcescibili ideali, cui mi sono formato. Verranno tutti per “sentire” la DC, sentirne la eco pure lontana. Verranno per “sentire” di esserci stati e di non aver creduto invano. Per “sentire” la bellezza di una storia, che, nonostante limiti e contraddizioni, colpe ed errori, è storia viva. Storia che potrebbe continuare se chi avesse cuore sincero, mente limpida e coerenza morale e politica, soprattutto credibilità e disinteresse, si mettesse al lavoro “ gratuito” per farla rinascere. Quale dovere, tra l’altro, verso un Paese quasi alla deriva e verso la Politica, affinché non muoia sepolta da quei difetti gravi che oggi la coprono, tra ignoranza e scarso senso delle istituzioni.

E stupida concezione divistica di uno già sterile protagonismo, vuoto di idee e di passione. Tutti verranno all’incontro odierno per incontrare Carmelo Puija, ancora sorpresi, oltre che addolorati, che lui non ci sia più. Verranno per “ sentire” lui e, suo tramite, tutta la bellezza di cui ho detto qui. Carmelo Pujia è la sintesi di questi valori e di questa storia. Incontrarlo oggi non sarà solo nostalgia. Ma, come io credo, promessa di un nuovo impegno. Quale dovere che ciascun democristiano autentico deve sentire verso questa terra e le istituzioni. Come ha fatto proprio quel grande leader di quella grande Democrazia Cristiana calabrese ancora sospesa tra pregiudizio e cattiva conoscenza dei suoi impegnatici anni. Pregiudizio e incompleta quanto distorta conoscenza, per responsabilità anche della non corretta azione di pochi tra i suoi uomini che l’hanno rappresentata nelle diverse istituzioni.

Di Carmelo Pujia, il gigante, l’uomo delle possenti idee e dall’indomito coraggio, parlerò in altre situazioni meno cariche delle intense emozioni che mi prendono ancora. Meglio ne parleranno gli osservatori neutrali e gli storici quando finalmente la Calabria sarà studiata con maggiore obiettività. Il suo ruolo, come quello di Mancini, Misasi, Rossi, Pucci, Reale, Ambrogio, Politano, Casalinuovo e altri, sarà centrale. E la sua azione molto esplicativa. Oggi voglio parlare di lui in altro modo. Di getto, così come mi viene. Della sua persona più che della sua personalità. Della sua umanità più che della sua politica. Della sua cultura umanistica più che della sua tecnica operativa. Della sua sensibilità più che del suo carattere mica facile. Della sua fragilità che non della sua forza. Dell’uomo prima che del politico. Dell’oratore naturale che non del parlatore attento. Dell’amante della parola più che del concreto espositore di concetti definiti. Della sua emotività più che della sua razionalità. Della sua tenerezza di padre che non della sua imperiosa autorità. Della sua poesia prima che della distaccata concretezza. Del suo spirito fine che non della sua virulenza. Del suo amore per la propria donna prima che di quello per tutto ciò che faceva. E vorrei parlare di quell’indicibile dolore più che del coraggio con cui lo nascondeva anche per proteggere quella madre, che l’ha subito violentemente, e quei suoi figli perché non soccombessero al dolore. Dell’uomo semplice, in ultimo disarmato di tutto, e del mio amico, vorrei parlare, anche. Mi rendo, però conto, scrivendo, che pure questi titoli sono tanti. E, allora, mi limiterò a dire, così alla rinfusa, ciò che il mio cuore detta, fino all’ultima riga che segnerà la mia stanchezza prima che quella di chi vorrà generosamente leggermi. Carmelo ha lasciato la politica molto anni fa allo stesso modo in cui l’ha vissuta, con dignità e onore. Intensamente vissuta, per quell’aggiunta straordinaria di passione e sentimento che solo nel “lunghissimo dopoguerra” della ricostruzione morale e civile, economica e culturale, del Paese, i militanti potevano sentire. Ah, la Politica, con la maiuscola! Per Carmelo Pujia era un tutto che si poteva accostare solo alla famiglia tanto amata, a cui però ha dovuto sottrarre quel tempo che neppure gli bastava, dal mattino presto fino a notte, per quell’amore che l’ha avvinghiato fin dalla più giovane età. Ecco, mi è spontaneamente venuta meglio la descrizione di quel fuoco che ardeva in lui. Era amore, amore vero verso l’attività umana più bella e più importante. La passione l’accendeva esattamente come il fuoco fa con ciò che benignamente arde.

Quando non rovina, non distrugge, non cancella, ma invero riscalda, accende energie, mette in moto i cuori, illumina la mente della persona e il cammino delle genti. Ah, l’Amore, quello vero!

Carmelo Pujia, era infuocato d’Amore. Non gli bastava mai, quello del donare, ché quello ricevuto era assai meno. Non gli bastava mai, sì. Ne elenco in parti suddivise quello che più mi è rimasto impresso, avendolo conosciuto bene. Parti suddivise ma non divise. Al contrario concatenate, ciascuna facendo parte di un tutto. Unico, assoluto. Unitario. Quello che lui ha sicuramente incontrato nei suoi ultimi anni, sia con la ragione sia col cuore, nonostante la sua fede cattolica fosse stata sempre ferma lì, in quegli insegnamenti che l’amatissima madre gli ha impartito, avvertendolo con carezzevole severità che non avrebbe mai dovuto dimenticarli o rinnegarli. Ah, la madre! Carmelo aveva per lei, la maestra del paese natale, un amore sconfinato. Totale e totalizzante. Anche quello verso il padre era di simile caratura. Soprattutto, per la stima enorme verso quell’uomo che aveva lavorato sempre con onestà e spirito di sacrificio. Ma quello nei confronti della madre era fatto di mille altre sfaccettature. O di foglie diverse che non si finirebbe mai di contare. Ogni foglia una carezza, un insegnamento, un rimprovero, un consiglio. E tutte insieme, la felice esortazione ad amare. La propria terra, innanzitutto. In ogni parte in cui la terra dei padri si compone. Polia, il piccolo articolato paesino all’interno del vibonese, la prima. Qui vi sono le sue radici. Non le ha mai dimenticate. Andava fiero di essere nato e cresciuto lì. Nonostante la sua passione e le sue ambizioni l’avessero portato presto via, di quel piccolo paese ne parlava con orgoglio e, sempre più che passassero gli anni e crescesse la nostalgia, con delicatezza. Te lo descriveva, anche nei libri che aveva scritto, nelle sue diverse realtà territoriali, che forse erano anche in qualche modo culturali. Ora io non la so recuperare bene in memoria, ma Pujia elevava quelle diversità e apparenti separatezze a quei valori profondi che facevano di ciascun poliasino (si dice così?) un cittadino del mondo, a partire da quello piccolo piccolo, la Calabria. Una persona tanto legata a quel pezzo di terra, anche interna al suo territorio comunale, quanto aperta ad altre realtà. Ad altre culture ed esperienze. Forse, nasceva da qui quella sua intelligenza poliedrica e geniale e quella curiosità accesa, che hanno fatto di lui una delle personalità più complete e più forti della Calabria. Uno dei politici più grandi oltre che tra i più importanti della storia politica regionale. Di questo politico straordinario, grandissimo quanto le idee che la sua mente fertile ha partorito, specialmente per lo sviluppo della nostra terra, ripeto, non ne parlo ora. Non ne parlo in questa triste giornata, strapiena di ricordi e di commozione. L’ho fatto tante volte in questi anni e lo farò, mi ripeto nuovamente, non appena si sarà riposata l’emozione del momento e razionalizzata la mia personale sofferenza per la sua scomparsa. Una scomparsa da molti sentita come prematura, nonostante gli anni che lo avrebbero voluto vecchio senza però esserci mai riusciti, ché Pujia è sempre rimasto presente alla vita. E a se stesso, anche se il cammino compiuto lungo un dolore immane hanno portato i suoi occhi celesti come il mare quando il cielo lo rischiara del suo azzurro limpido, a guardare in modo diverso il mondo, la vita stessa. E le persone. E tutto ciò che la loro umanità detta e la loro forza muove e trasforma. O rovina. Nella terra che li nutre del sangue di madre, che mai è matrigna. Questa terra madre è la Calabria. Ah, la Calabria, amore immenso il suo! Per Carmelo, la nostra regione non era una terra disgraziata o condannata da un Dio cattivo e per essa non usava mai il termine “sfortunata”. Noi, i suoi figli, prima ancora che i tanti arroganti e stupidi dominatori che l’hanno derubata, al pari dei suoi figli degeneri, di tante bellezze, siamo i responsabili del suo impoverimento. Poi, i governi e i vari parlamenti, che nel tempo hanno operato con scarsa sensibilità verso il Mezzogiorno, hanno fatto il resto. Proprio per questo, e per il fatto che le cose umane vengano determinate dalle azioni degli uomini, anche quelle che procurano le più tristi conseguenze dagli eventi naturali calamitosi, sono i calabresi a doversi impegnare in prima persona per cambiare l’ordine delle cose, invertendo nettamente il loro cammino, storico e contingente. Ecco che la passione si trasformava in sollecitazione all’impegno individuale e collettivo, a una presa di coscienza politica che passava anche per la ribellione. Ah, la ribellione! Il carattere di Carmelo era impetuoso, un uragano in permanenza, un vulcano sempre acceso. In qualsiasi altro tempo fosse vissuto, egli avrebbe danzato sulle barricate. O avrebbe partecipato a eventi rivoluzionari. Tranquillamente avrebbe potuto essere giovane socialista o comunista, sarebbe stato anche lì il primo della classe. Decise di essere democristiano. Chissà se in questa scelta non ci fosse l’influenza della madre, fervente cattolica. Fedele praticante.

Non lo sappiamo e poco ci importa di saperlo. Quel che conta davvero è l’amore e la fedeltà con cui ha servito la Democrazia Cristiana. Ah, la DC, quante battaglie fatte in suo nome e quante lotte al suo interno per divenirne il migliore in perenne conflittuale amicizia con l’altro genio della politica, Riccardo Misasi. Ah, l’amicizia! Ah, Misasi! Carmelo amava l’amicizia, pur venendone più volte tradito. Ovvero, subendone spesso la strumentalizzazione altrui, anche se talvolta( poche in verità) per colpa di qualche “ consigliore”, anche lui stesso l’ha distratta dal suo cuore. Riccardo Misasi che la vulgata( ed anche i gruppi ristretti di sostenitori dei due) ha sempre voluto fosse il suo nemico ampiamente ricambiato, è stato invece un suo grande amore, come l’amicizia nel suo più profondo significato lo era. Lo scontro c’è stato. E a volte durissimo, come quello tra giganti. Uno scontro che ha indebolito entrambi, con quelle insane tifoserie reciproche che volevano che ciascuno dei dei occupasse un unico posto di comando. Quello che non era il loro, destinati, invece, dalla storia e dalla loro propria grandezza, ad occuparne due diversi, ma assai importanti. Eh sì, perché Riccardo e Carmelo, per amore esteso dell’amicizia, nonostante la fermezza delle loro autonome decisioni, talvolta, anche per la stanchezza della fatica o per quella della loro insistenza, a quelle insincere sollecitazione “guerriere” a cui davano retta, sono stati in conflitto quasi ininterrotto. Ma i due si volevano bene. Un bene grande e vero, rafforzato dalla reciproca enorme stima.

Quella alterata competizione, come le altre che nei decenni si susseguirono e si intrecciarono, anche tra esponenti di partiti diversi, mantenendo divisa la classe dirigente o le migliori intelligenze in essa, indebolirono anche la Calabria. Ah, la Calabria! Nuovamente lei, terra di bellezza resistente, di forza nell’antico orgoglio trattenuta, di speranze radicate nel cammino lungo ed erranti sulle gambe dei suoi figli lontani. Basterebbe ricordare i suoi discorsi sulla nostra terra, sulla sua fragilità e forza, sulla sua povertà e ricchezza e la sua visione, assai avanzata anche oggi, per trovare davvero le vie più sicure di una crescita ordinata e uno sviluppo davvero moderno della nostra regione. Una crescita economica che, puntando sull’unità territoriale da costruire con una autentica architettura geo-politica e culturale che ne disegnasse le forme antiche e nuove, rafforzasse contemporaneamente il tessuto democratica e la coscienza civile, le più forti barriere contro le mafie di ogni genere. E qui mi fermo. Si è fatto tardi e devo prepararmi ad andare al convegno in cui si parlerà in maniera sicuramente troppo affettuosa di lui. Gli sarebbe davvero piaciuto ascoltare e chissà che ciò non accada da quel posto in cui si trova. Posto sicuramente buono. E riposante. Carmelo Puija però andrà ripreso e studiato. È stato un grande innovatore.

Un trasformatore incompleto di una realtà difficile. Un utopista del reale, mi si lasci passare il termine, che potrei lungamente sciogliere dalle sue apparenti contraddizioni. Il suo disegno di una Calabria nuova, le sue famose “ schede programmatiche, che l’hanno preceduto, la proposta di una legge Calabria, che l’ha seguito, la sua idea di nuovo Mezzogiorno come strumento per lo sviluppo dell’intero Paese, il suo incompleto sforzo di studiare l’Europa, di cui sentiva il fascino e anche i dubbi per come veniva ancora intesa, la passione per la Democrazia, la sua leadership particolare nella forza espressiva e quella della forte personalità con cui la nutriva, la sua concezione del potere e la tecnica con cui l’ha gestito, l’idea di partito e quella del rapporto con le altre forze politiche, il suo “ invisibile” tentativo, in parte qui riuscito, di realizzare davvero il rapporto organico, quindi di governo, tra la Democrazia Cristiana e il Partito comunista calabresi, poi bloccato dal suo amico Ciriaco De Mita, allora segretario politico, l’errore anche di non aver costruito classe dirigente pur avendone la possibilità( fatto di cui parlava con dispiacere negli ultimi anni), sono alcuni dei temi che andrebbero studiati e appruo goditi. Qui resta, subito visibile, la lezione politica e umana che ci lasciato. Una lezione utile a restare democristiano o a divenirlo. Una lezione necessaria a comprendere e a fare la Politica. Una lezione di vita, indispensabile a capirla, la vita. Ad amarla fino in fondo. Soprattutto, quando ci porta un conto troppo salato e una sorta di ingiustizia praticata sul campo di una esistenza tanto generosa quanto coraggiosa e sognante. (fc)

Il ricordo del Presidente Giorgio Napolitano in visita all’UniCal

di FRANCO BARTUCCIGiorgio Napolitano all’UniCal per presenziare la cerimonia inaugurale dell’anno accademico 2008/2009 e la intitolazione dell’aula magna dell’Università della Calabria alla figura del primo rettore, prof. Beniamino Andreatta scoprendo insieme alla vedova signora Giana Petronio Andreatta un bassorilievo in argento realizzato dall’orafo Gerardo Sacco.

Era il 15 gennaio 2009 e il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano volle lasciare una sua testimonianza sulla figura del Rettore Beniamino Andreatta, politico, senatore della repubblica e più volte Ministro del Governo Italiano.

Dopo la visita di Sandro Pertini, avvenuta il 3 marzo 1982 e quella del Presidente Carlo Azeglio Ciampi che il 7 febbraio 2001 venne all’UniCal per inaugurare la Biblioteca d’Ateneo in ricordo del prof. Ezio Tarantelli, ucciso dalle Brigate rosse, al quale fu intitolata la Biblioteca dell’area sociale/economica/giuridica e politica, quella del Presidente Giorgio Napolitano costituisce la terza permanenza di un Presidente della Repubblica nel Campus Universitario dell’Ateneo calabrese. 

Quel 15 gennaio 2009 per il Rettore Giovanni Latorre costituiva un motivo di forte orgoglio nel ricordare le qualità raggiunte dall’UniCal per l’alta formazione e la ricerca scientifica auspicata dallo stesso Rettore Andreatta.

«Insomma una Istituzione di alta formazione – pronunciò il Rettore Giovanni Latorre – che con la sua collocazione geografica e le sue politiche di diritto allo studio rappresenta uno straordinario motore di promozione sociale e quindi, in definitiva, di coesione sociale e di democrazia in questa difficile parte del Paese».

Ad ascoltare il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano intervennero in tanti quel giorno riempiendo l’aula magna, tra i quali si segnalano diversi rettori ospiti delle Università italiane, il Presidente della Giunta Regionale della Calabria, Agazio Loiero, la signora Giana Petronio Andreatta, accompagnata dalla figlia Eleonora, nonché Enrico Letta, già sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e direttore dell’Arel.

Fu un discorso chiaro e di forte apprezzamento della figura di Beniamino Andreatta quello pronunciato dal Presidente Napolitano, ma anche di tutela e sviluppo del Mezzogiorno.

«Sentiamo la sua mancanza, più semplicemente, come persona di prorompente talento, di forte carattere, di straordinaria generosità e finezza umana. Ma c’è piuttosto da dire quanto prezioso per l’Italia sarebbe oggi il suo contributo: il contributo della sua competenza e della sua fantasia, della sua passione e del suo coraggio, del suo senso dell’interesse pubblico, al servizio di visioni anticonvenzionali dei problemi dell’economia e di scelte limpide e rigorose».

Non mancò di chiarire meglio la personalità e il modo di fare del prof. Senatore Beniamino Andreatta: «Il primo è quello dell’esempio che più di ogni altro egli ha concorso a dare di come si possa far nascere, in condizioni ambientali difficili, una Università campione, una università di eccellenza per qualità culturale, per proiezione internazionale, per radicamento nella realtà regionale, per serietà degli studi e, anche, per capacità di autogoverno e di uso oculato delle risorse».

«L’altro profilo- continuò il Presidente – che motiva l’omaggio di questa mattina a Nino Andreatta è quello della passione di un uomo del Nord per il Mezzogiorno. Passione che faceva tutt’uno, direi, con il sentimento di un dovere nazionale. Il sentimento e la passione che spinsero dopo l’unità d’Italia Franchetti e Sonnino ad affiancarsi a Giustino Fortunato nelle analisi che fondarono il meridionalismo liberale, e che videro via via altri illuminati uomini del Nord impegnarsi in prima persona nell’azione per la rinascita del Mezzogiorno nei primi decenni del secolo scorso».

«In questo solco va collocata la figura di Nino Andreatta e va collocato il suo impegno in Calabria, per la fondazione dell’Università della Calabria nello spirito che ho ricordato. Non occorre dire quanto ci sarebbe bisogno che quella tradizione riprendesse vigore. Sarebbe una risposta eloquente a deleterie contrapposizioni tra Nord e Sud, a vecchie e nuove sordità verso le esigenze del Mezzogiorno, e anche a ogni forma di scoramento, di inerzia e di stanca gestione dell’esistente in queste stesse regioni. L’esperienza di questa Università – concluse il Presidente Giorgio Napolitano – per come venne pensata e varata da Nino Andreatta e per come è cresciuta in più di trenta anni, è motivo di fiducia per tutti noi».

Nel concludere questo servizio e nel ricordare il Presidente Napolitano all’uniCal per fare un affresco sulla figura del Rettore Beniamino Andreatta ci porta a riflettere che anche lui ci ha lasciato nel cinquantesimo anniversario del primo anno accademico 1972/1973, quasi al termine del tempo, della nostra Università. Quel giorno è stato per me l’ultimo trascorso quale responsabile dell’ufficio stampa e pubbliche relazioni in quel contesto in quanto pochi giorni prima entrato in quiescenza; ma oggi quelle parole costituiscono un motivo in più per sollecitare l’attuale dirigenza dell’Università ad impegnarsi per fare una puntuale e dettagliata riflessione su ciò che l’UniCal è stata in questi anni e creare quei presupposti essenziali per prepararsi a vivere i prossimi anni in funzione pure della creazione di un rapporto vivo con la società e contestualmente essere punto di richiamo per il superamento delle barriere divisorie tra Nord e Sud del Paese che permangono ancora. (fb)

IL RICORDO / Osvaldo Napoli: Grazie Guido Rhodio

di OSVALDO NAPOLICon la scomparsa di Guido Rhodio se ne va uno degli ultimi veri grandi democristiani del Sud. L’ho conosciuto da Presidente della Regione Calabria, ma lo conoscevo ancora prima da politico militante e da esponente di primo piano della DC di allora. Erano gli anni ’90 e lui era un politico puro, che credeva nel rigore della gestione amministrativa delle cose e nel rispetto verso gli avversari, un uomo al di sopra di ogni sospetto e al di sopra delle parti. Credeva nel potere della politica e nella forza della democrazia.

Conosceva la Calabria come pochi, palmo dopo palmo, l’aveva attraversata mille volte diverse, ma la cosa che di lui mi impressionava di più era l’amore viscerale verso la terra che lo aveva visto nascere, Squillace, Soverato, la provincia di Catanzaro, e che lo aveva sempre ricompensato con una messe di voti.

Non conosceva la parola rancore, e non lo ricordo neanche una volta adirato o irritato per qualcosa che non era andata bene. Aveva un senso esasperato della speranza, e per tutta la sua vita, lo ricordo, si è battuto per la crescita del Sud e per la difesa degli interessi dei più deboli. Con lui Squillace, Catanzaro, e la Calabria tutta perdono un testimone fedele del riscatto meridionale. (on)

[Osvaldo Napoli è deputato di Azione]

IL RICORDO / Franco Cimino: A “te” Ettore Capicotto, a dieci anni dalla “tua” partenza

di FRANCO CIMINO – E ci siamo dimenticati di te! Ancora una volta ci siamo dimenticati di te. E nel decimo anno senza di te. Come per altri, come te, la nostra memoria è naufragata nel frastuono di queste estati che si vogliono concepire stupidamente ricche e piene. E ricche di che quando si perdono persone come te? E piene di cosa, se il vuoto s’allarga quando si assentano catanzaresi come te? Estati che fanno rumore per coprire il silenzio assordante delle altre stagioni, come dicevi tu. E la Marina, stracolma di gente sempre più “anonima” e di più che nell’essere folla, celebrata per nascondere il vuoto profondo della Città Alta, come ripetevi tu, quando nei vari punti del Centro ti intrattenevi, cazziando e sfottendo, ridendo e facendo ridere, ché anche comico eri tu.

“E mo’ a chiudimma Catanzaru”. Sono le tue parole. Le ricordi tu? Non ce le siamo dimenticate. Come della tua tromba, che non era solo quella, che, sempre e spesse volte a piedi scalzi, durante La Naca, ritmava quella dolente nota, sempre uguale a intermittenza, per farci sentire il rumore del martello sui chiodi di Gesù o il pianto umano di sua madre. Ripeto quasi testuale le tue frasi. Quella tua tromba era la tua voce, forse nata con te. Era la parte di te, che la tua timidezza non riusciva a esprimere. La tromba tua, una magia. Un mistero. Un incanto. Anche di sera senza luci, neppure quelle del palco, luccicava. E da gialla diventava rossa, come la tua barba “garibaldina”. Per questo molti amici affettuosamente ti chiamavano Garibaldi. Ettore Garibaldi, sì, me lo ricordo, io. E se ad altri non risultasse, è perché di certo io l’ho pensato. Ora che ci penso, ti ho visto così. I tuoi anni, non so quanto più vecchi dei miei, mi hanno offerto la magnifica opportunità di vedere te, sempre adulto, e me sempre fanciullo.

Fino a quando te ne sei andato è stato così, tanto che ancora ti rimprovero di avermi sottratto, con la tua improvvisa e immatura partenza, un altro pezzo della mia fanciullezza tra gli altri pezzi profondamente legati a figure sentimentali insostituibili o a miti immarcescibili. Tu eri l’una e l’altro. Sei sempre stato grande tu. Anzi, di più. Piccolo di statura, gigante di natura. Il tuo cuore “garibaldino” ti faceva gigante. Perché non volevi essere eroe. Nessun garibaldino lo fu. Solo Garibaldi, così è stato considerato. Gli eroi sono la necessità dei popoli pigri, o di quelli indifesi. O di quelli rassegnati. Alla “sventura”, alla disavventura. Alle “ disgrazie”. All’ignoranza. Al dominio dei falsi giganti e alla invadenza dei prepotenti. Dei bugiardi nella parole e nei comportanti e, quindi, delle promesse ingannevoli. Dei guitti. Dei guappi. Dei furbetti. Dei fanfaroni. Dei mascherati  “prendiefuggi”. Dei bulli adulti rimasti stupiti sin da piccoli. È questa società che ha bisogno di eroi. E quando non ci sono nella storia, di eroi veri o verosimili, se li fa inventare, per essere imposti alla credulità popolare, confondendo il bisogno “ di pane” delle persone con l’emotività alterante degli individui lasciati soli. E per la necessità di tenerli separati dalla coscienza collettiva affinché non diventi popolo.

La società che ha bisogno di eroi, non ha memoria di sé. E dimentica, dimentica sì, persone come te. Di quelle che, invece, il loro eroismo l’hanno espresso nell’umiltà delle loro fatiche. Come hai fatto tu per circa settant’anni di vita, scegliendo di restare qui, nella tua Catanzaro, pur se le tue alte qualità artistiche, per quel grande musicista che eri, ti avrebbero garantito sicuro successo se fossi andato altrove. Tu eri la musica. La tromba eri tu. Nelle tue dita la musica si muoveva come quella degli angeli suonatori. Il tuo fiato le iniettava il soffio della tua anima. La tua bocca, sempre aperta al sorriso lontana dal bocchino, era il bacio dei santi agli uomini e alle donne sognanti. Le tue parole, rigorosamente in dialetto, quando le componevi per i tuoi spettacolo di musica/teatro, erano poesia autentica. Di quella che piaceva ai poeti veri. E ad Achille Curcio, il primo tra questi. Achille il maestro, che tanto ti amava. Come l’altro grande che hai già raggiunto, Michienzi, con il quale mille volte ti sei esibito.

A coprire anche quella nostalgia che in te hanno lasciato il complesso “Le Ombre” di Pino Ranieri, il grande Ulisse, cantautore profondo, dei fratelli Franchetto e Peppuccio Citriniti dal sax “ prepotente e romantico, la chitarra rock di Salvatore Celeste, il basso frenetico di Franco Folino, la tempestosa batteria di Antonello Nicita e la pianola delicata dell’indimenticabile Manlio Canino. Tutti indimenticati compagni tuoi nel cammino verso la musica. Non eri un eroe, tu. Eri il fabbro umile di quell’officina rimasta chiusa dopo di te. Chiusa in modo serrato, affinché di fabbri, di falegnami, di ceramisti, di tessitori, di operai, di pescatori, non se ne vedano più in giro. Ché a qualcuno non venga la voglia di fare come te, narrare Catanzaro com’era.

Raccontarla com’è. Sognarla. Come i veri catanzaresi la vorrebbero. E cioè bella. Com’era. Bellissima. Come un giorno sarà. Ettore, scusaci di esserci scordati di te. Non eri un eroe, tu. Eri di più, un catanzarese autentico. Come lo si era un tempo. Come volevi diventassimo noi. Ché il catanzarese ama Catanzaro. E la difende. Sempre. Anche quando costasse povertà e fatiche inascoltate. Anche sulle delusioni per gli inganni subiti da ingannatori non visti. Non eri un eroe, tu. Tu resterai sempre di più. Un esempio da seguire. Il cittadino d’onore. Che onorificenza non riceve, poiché onore alla Città hai sempre donato, tu. E senza mai prendere nulla. Ché nulla hai mai chiesto o preteso. (fc)

Il RICORDO / Franco Cimino: Emilio Ledonne, il mio amico «amante della giustizia»

di FRANCO CIMINO – Mannaia, mannaia, due volte e cento, mannaia! È morto Emilio Ledonne, l’amico mio, che non ho mai frequentato, ma che ho fortemente sentito.

Ci siamo scambiati al massimo il saluto, da lontano. A volte, era lui, me distratto, a salutare per primo. Anche quando era in compagnia, praticamente sempre, con la sua inseparabile moglie. La moglie amata e dalla quale era amato allo stesso modo. Si vedeva apertamente l’amore e l’armonia in loro due che era un piacere davvero incontrarli. Un esempio per tutti. Un insegnamento dell’amore. Ché l’amore si insegna e si impara pure. È questa ammirazione, il primo segno della nostra amicizia. E la mia gratitudine verso quell’innamorato, che ti fa sentire bene. E per un fatto aggiuntivo e dimostrato. È cioè che l’amore è per sempre. In quel Sempre che muove verso l’infinito. Per il quale il vivere adesso, qui, in questo tempo umano, duri un giorno o cinquant’anni e più, conta poco.

C’è in quel “Per Sempre” l’appuntamento dell’eterno vivere insieme. Che bello il mio amico innamorato! Emilio Ledonne era un mio amico, perché, non poche volte, ha avuto l’umiltà di chiamarmi e di dirmi il suo apprezzamento per alcune mie battaglie sociali e politiche. Apprezzava in me, soprattutto, la coerenza del pensiero e l’onestà nel rappresentarlo. Di più il coraggio. “Continui professore, non si abbatta”, era il suo suono di tromba.

Il nostro appuntamento mai scambiato era sempre allo stesso posto, il Teatro. I due teatri della Città. Soprattutto, il Comunale, che lo vedeva sempre presente, alla solita poltroncina della solita fila, a sinistra scendendo, alla metà esatta della sala. Il suo amare il Teatro, in particolare quello semplice e popolare, dove il catanzarese più semplice e umile incontrava i nostri artisti, semplici e umili, ma grandissimi nell’arte, era la sua nuova agorà. “Dottore, le è piaciuto?”, la mia domanda uscendo. Sempre positiva, la sua risposta, nella quale talvolta si leggeva una certa generosità, che non era “menzogna”, ma affetto grato verso i teatranti e la loro immane fatica. Oltre che un modo per incoraggiarli a continuare. E a ripetersi migliorando.

Il Teatro, un altro spazio della nostra amicizia. Che bello il mio amico “artista”! Emilio Ledonne amava Catanzaro. L’amava di un amore autentico, fatto anche di profonda conoscenza. Conoscenza storica e antropologica. Culturale e sociale. Sociologica e psicologica. Tanto tenero con lei, severo con i suoi abitanti, duro con chi l’ha governati nel tempo. Le sue analisi erano rigorose, le sue proposte puntuali, le sue idee fortissime e innovative. Il suo amore era contagioso. Amava chi amava la Città nella quale è voluto tornare, dopo aver vissuto, per la sua missione, nelle Città più importanti d’Italia. Che bello il mio amico catanzarese.

Emilio Ledonne, era un mio amico perché amava la Giustizia. Quella con la maiuscola, che è fatta non solo di applicazione imparziale della legge, espressamente lavoro del giudice quale lui è sempre stato nelle due funzioni ricoperte in cinquant’anni di attività nella Giurisdizione. La Giustizia intesa anche come comprensione di chi commette il delitto e del contesto sociale e personale in cui il delitto si compie. Giustizia intesa anche come luogo articolato e complesso in cui chi delinque e paga la pena ma si rieduca, svolge egli stesso una funzione sociale, perché aiuta la società a migliorarsi nella crescita sua personale.

Anche per lui, per fortuna, la persona viene prima di tutto. Che bello il mio amico amante della Giustizia! Emilioledonne è un mio amico perché ha la passione per lo studio e la ricerca. La ricerca come speculazione sulla realtà, come intelligenza della comprensione della stessa. Ma pure come curiosità sfrenata per tutto ciò che gli accresceva la voglia di sapere, di entrare nelle cose apparentemente più lontane da lui. Profondo conoscitore della dottrina giuridica e della filosofia del diritto, Emilio Ledonne spaziava in campi del sapere sconfinati. Conosceva di tutto e di tutto con lui si poteva parlare, molti suoi interlocutori, me compreso, fermandosi, però, dinanzi alle più semplici nozioni.

Che bello il mio amico intellettuale! Della sua intensa attività antimafia e delle sue coraggiose indagini sul terrorismo ed altre forme di criminalità organizzata, non parlo sia per non scadere nella retorica, sia perché in queste ore di lui si parla prettamente per quest’attività, svolta con particolare acume nella nel suo ruolo di vice procuratore antimafia. Desidero, invece , dire della schiettezza e del coraggio della persona, che respingeva sempre convenevoli e “diplomatismi” vari. Rammento un fatto, per me indimenticabile, essendo anche la prima volta che lo incontravo di persona.

Nell’albergo più importante della città si svolgeva, promosso non so da chi, un convegno sulla mafia. I due relatori principali erano Monsignor Bertolone, arcivescovo e lui. Entrambi da poco tempo, per ragioni diverse, nella nostra Città. Ricordo con chiarezza gli interventi del Vescovo e dell’alto magistrato. Nonostante quello del Vescovo fosse duro, sincero e avanzato sul tema, Ledonne, in un’analisi rigorosa del fenomeno mafioso in Calabria, sferrò un duro attacco alla politica per quella sua parte di contiguità e di zona d’ombra. E alla stessa Chiesa per non aver fatto abbastanza nella lotta contro la ‘ndrangheta. Ricordo bene che il Vescovo se ne dolse molto,ma lui nelle rispettive repliche non arretrò di un passo.

Che bello il mio amico combattente! Infine, ma chiunque potrebbe continuare qui sotto a dire tanto ancora, il vezzo che si era concesso, l’uso del social più diffuso, Facebook. Come un giovinetto dei nostri tempi, egli usava questo strumento di comunicazione. Certo, il suo uso era corretto e moderato, tuttavia lo attivava, appunto, per comunicare. Comunicare, ecco! Il suo voler essere utile alla società già troppo frastornata da migliaia di “scorrette” e nevrotiche informazioni al minuto, questo il suo primo bisogno. Il secondo, ora che aveva dismesso la sua incontaminata toga, di rappresentare il meglio della dottrina giuridica e del Diritto, entrando con lucidità culturale e con coraggio “politico”, e su certe decisioni delle procure e sul vero significato di una norma.

In particolar modo, su alcune di quelle che una politica incolta vorrebbe cambiare come fossero pannolini al neonato. Che bello il mio amico maestro! Per questi motivi, oltre che per la mitezza e l’eleganza della sua persona, anch’io sento un dolore grande, del tutto personale, politico, sociale, per la perdita di un uomo e di un catanzarese così grande e bello. (fc)

IL RICORDO / Franco Bartucci: Il mio incontro con Benedetto XVI nel 2007

di FRANCO BARTUCCINon prometteva bene il tempo in quella mattinata del 2 maggio 2007 in Piazza San Pietro, dove era in programma l’udienza di Papa Benedetto XVI con una immensa folla di fedeli intervenuti per vederlo ed ascoltarlo o meglio ancora incontrarlo in udienza privata sul  Sagrato della Basilica, come era previsto per una delegazione di studenti, docenti e non docenti dell’Università della Calabria.

C’ero anch’io che accompagnavo il Presidente del Progetto Magellano, lo studente Salvatore La Porta, che doveva consegnare a Sua Santità il libretto dei “pensieri della pace” raccolti in giro per le Università Europee durante la seconda edizione del Progetto Magellano che si svolse nella primavera del 2005.; mentre la prima edizione in giro per le Università Europee avvenne tra i mesi  di marzo/aprile 2003 e fu composta la “bandiera della pace” che fu consegnata l’8 settembre 2004 a Papa Giovanni Paolo II, sempre in udienza privata nell’Auditorium Paolo VI in Vaticano.

Fu anche quello un incontro che lasciò il segno di sentimenti profondi per le cose dette e ascoltate con grande partecipazione tanto da accogliere con compiacimento in segno di gratitudine la sua benedizione del plastico della nostra Università mostratogli dal Rettore Giovanni Latorre e lasciatogli in dono. Una benedizione di un Santo che pesa sull’intera comunità del Campus universitario di Arcavacata, che abbiamo visto, apprezzato ed amato per un ricordo da tramandare nel tempo all’intera comunità universitaria.

Altro tenore fu il giorno dell’udienza con Papa Benedetto XVI. Si era in attesa del suo arrivo in Piazza San Pietro quando cominciò a piovere portando tutti ad aprire gli ombrelli senza riuscire comunque a fermare l’acqua piovana che nel cadere per terra finiva per bagnare fastidiosamente i vestiti delle persone pur sempre l’una vicina all’altra.

Lampi e tuoni erano la caratteristica inoltre di quei momenti di attesa per sentire la meditazione del Papa e poi l’incontro privato. Sebbene il tempo inclemente Sua Santità arrivò collocandosi sotto il baldacchino posto nella parte discendente del Sagrato della Basilica cominciando a parlarci con la sua meditazione del mercoledì di un tema di grande attualità ai nostri giorni e cioè del creato di Dio e del dovere di ciascuno di noi uomini e donne di essere parte attiva nel tutelarne e salvaguardarne la bellezza e purezza quale valore per una vita equilibrata e socialmente aggregante. 

Passavano i minuti e la pioggia diveniva qualcosa di fastidioso tanto da costringermi ad abbandonare il mio posto riservato sul sagrato e rifugiarmi sotto il portico più vicino, mentre Sua Santità continuava a parlarci della natura. Pioveva tanto, ascoltavo le sue parole e pregavo intensamente  affinché quella pioggia smettesse di cadere mettendo a rischio l’udienza privata che avremmo dovuto avere subito dopo con Papa Benedetto XVI.

Le preghiere rivolte a Dio ebbero effetto tanto che smise di piovere, le nuvole scomparvero ed il sole apparve in uno squarcio di cielo azzurro a riscaldare ed asciugare i nostri vestiti, cosicché l’udienza privata ebbe luogo regolarmente con un congruo numero di persone autorizzate ed allineati lungo delle transenne.

Dopo diversi minuti di attesa arrivò il nostro turno con lo studente Salvatore La Porta, presidente del Progetto Magellano, pronto a consegnargli il libro dei “Pensieri della Pace” scritti da numerosi studenti europei raccolti durante il viaggio in varie Università dei Paesi europei, compresa la Russia, aperta all’epoca a scambi culturali con le Università, compresa l’Università della Calabria che aveva già istituito la prima Università italo/russa.

Subito dopo mi si avvicinò per ascoltarmi e sentire le tante cose che avevo in cuore ed in animo di dirgli. Ciò che ricordo di quei momenti è la sua grande disponibilità all’ascolto in atteggiamento spontaneo, semplice, umile e con un sorriso incoraggiante. Naturalmente velocemente ma con pacatezza gli ho raccontato del Campus universitario che cominciava ad accogliere giovani cinesi, russi e di altri Paesi europei; della figura del nostro primo Rettore Beniamino Andreatta scomparso il 26 marzo 2007 che rappresentava ancora per i suoi valori e l’impegno profuso nella realizzazione dell’UniCal  una guida sicura, con al centro la creazione di una parrocchia universitaria secondo i disegni predisposti a suo tempo dal Rettore Giovanni Latorre in accordo con l’Arcivescovo di Cosenza/Bisignano, Mons. Salvatore Nunnari.

Era felice e contento di sentire quelle cose e capivo dalla sua espressione serena e dolce che ne condivideva il valore tanto che mi chiese del Rettore Andreatta e sorridendomi mi disse, battendo la sua mano sulla mia, poggiata sulla transenna divisoria, «Coraggio, andate avanti nel disegno di questo progetto che merita tanta attenzione».

Da quel giorno sono trascorsi 15 anni e quei momenti continuano a vivere con un rimpianto che non sono più al mio posto dell’ufficio stampa dell’UniCal in quanto pensionato; mentre quel progetto della struttura parrocchiale inserita nel Campus è rimasto solo un disegno su carta perché nel frattempo si sono interrotti i rapporti tra l’UniCal e la Concessionaria (Bocoge), preposta ad occuparsi della realizzazione del Progetto Gregotti. Ma oggi intravedo una nuova possibilità di dare corso a quel sogno desiderio. 

 Nel Campus universitario dell’UniCal ci vivono circa 1.300 studenti stranieri provenienti da 84 Paesi del mondo, grazie ad una politica internazionale adottata da tre anni dal Rettore Nicola Leone, si è venuto a creare un nuovo clima di gestione dello stesso centro residenziale avendo come presidente la prof.ssa Patrizia. Data la presenza di questo grosso nucleo di studenti stranieri un nuovo  clima si avverte nel Campus in cui la  convivenza sociale si avverte e più culture di avvertono come occasione di crescita culturale.

È un luogo ideale per fare del Campus universitario di Arcavacata un “Giardino di Pace”, per mostrare al mondo che la convivenza pacifica è possibile in quanto basata sulla cultura e la reciproca comprensione e rispetto delle rispettive identità culturali e religiose. Il mondo nuovo si costruisce nella pace tra tutti gli esseri umani e su questo bisogna lavorare nel ricordo delle cose belle che abbiamo vissuto attraverso gli incontri con San Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, di cui questo mio racconto fa testo. (fb)

                                                                                                                                     

IL RICORDO / Francesco Gagliardi: In morte dell’on. Giacomo Mancini, quante lacrime di coccodrillo

di FRANCESCO GAGLIARDIParce sepulto, frase dell’Eneide di Virgilio. Significa abbi rispetto per il sepolto, abbi rispetto per chi non è più in vita, per chi è morto. Quindi non si deve continuare a parlare male di lui, ad odiarlo, a disprezzarlo, a calunniarlo.

È morto. Non c’è più. Non può più difendersi. Ma io oggi, dopo aver letto due articoli dell’amico Paletta e del Direttore Pellegrini sull’on. Mancini, leader del Partito Socialista Italiano e Sindaco della città di Cosenza, morto 20 anni fa nella sua città che amava tanto, vorrei scrivere qualcosa con gli occhi ancora pieni di lacrime vere e sincere e con un cuore che fa a bizze gonfio di dolore immenso, per la commemorazione della sua morte, non di un amico, ma di un uomo che ha dato lustro a Cosenza, alla Calabria e all’Italia intera. Non ho avuto la fortuna e il privilegio di stare vicino a lui o di lavorare con lui come il Direttore Pellegrino, tuttavia abbiamo militato insieme nel glorioso Partito Socialista Italiano.

Io l’ho conosciuto attraverso la televisione, i resoconti giornalistici, la lettura di Parola Socialista, del settimanale Candido e di Cuore, i vari comizi alla Villa Vecchia e a Viale Trieste, le assemblee di partito, i congressi provinciali. Non è mai venuto nel mio paese di origine, San Pietro in Amantea, neppure quando io ricoprivo la carica di vicesindaco. Ricordo, come se fosse ieri, il giorno dei suoi funerali. Tutti piangevano, perché non solo avevamo perso un leader, anche se vecchio ed acciaccato, ma un eroe di altri tempi, un meridionalista convinto, un difensore della legalità e della democrazia, un grande della politica italiana e calabrese in particolare. In Calabria, dopo di lui, il vuoto.

Ho dovuto assistere durante i suoi funerali a scene che non avrei mai voluto partecipare. Quante lacrime di coccodrillo sono state versate, quante facce contrite, quanti elogi infarciti di retorica e fuori luogo ho dovuto leggere sui giornali. Anche questo ho dovuto sopportare. E quanti avvoltoi in Piazza ostentavano il garofano rosso nell’occhiello della giacca. Sono passati venti anni dalla sua morte e ancora oggi, purtroppo, sono costretto a leggere cose che non avrei mai più voluto leggere. Io questa sera al Rendano non ci sarò causa indisposizione perché sono vecchio ed acciaccato quando Claudio Martelli, ex ragazzo prodigio del P.S.I. commemorerà l’on. Mancini. Vorrei osservare uno per uno i presenti all’incontro. Ma dove erano costoro quando a Reggio Calabria durante la rivolta del “Boia chi molla” la sua effige veniva bruciata in piazza.? Dove erano costoro quando un giornale per mesi e mesi lo accusava  di essere un ladro, scriveva si scrive leader ma si legge ladro ( C’è una prima pagina del giornale Candido nell’articolo scritto da Paletta).

Era una campagna giornalistica montata ad arte per screditare l’uomo politico che si batteva per portare in Calabria qualche fabbrica, per portare fino a Reggio l’Autostrada del Sole, per avere anche in Calabria un aeroporto ed una Università, per evitare il sacco della Valle dei Templi in Agrigento, per dotare gli ambulatori comunali degli ottomila comuni italiani di un frigorifero per conservare il vaccino contro la poliomielite. Ricordo le invettive, i sarcasmi, le ingiurie, i pettegolezzi, le calunnie. E i giornali ogni giorno inventavano nuovi scandali. Erano cose tutte inventate.

I giornali di allora lo facevano per screditarlo perché aveva rifiutato l’abbraccio mortale con certi personaggi e che non voleva nulla a che fare con quella sinistra giacobina, forcaiola e stalinista. Per i compagni comunisti era “Un Califfo”. E dove erano costoro quando nel 1966 venne condannato dal Tribunale di Palmi per “Concorso esterno in associazione mafiosa”? Calunniato, oltraggiato, offeso, vilipeso, umiliato, sospeso dalla carica di Sindaco della Città. Poi, però, venne assolto. Ora che non c’è più mi vengono alla mente le parole che pronunciò nel lontano 1974:- Quando si muovono i falliti, le mezze calzette, i cani t’azzannano-. Gli amici di un tempo lo avevano abbandonato, i giornali lo avevano già condannato.

È stato un gioco al massacro, lui indomito socialista, costretto a subire l’onta del disprezzo, dell’odio, dell’isolamento. Quante battaglie ha dovuto combattere e quanti nemici, anche nel suo stesso partito, ha dovuto affrontare. Voglio augurarmi che Claudio Martelli ricorderà tutte queste cose che ho cercato di ricordare. E ricorderà sicuramente quel buffetto sulla guancia destra che ha ricevuto da Mancini dopo essere intervenuto ad un Congresso Socialista quando il nostro leader ricopriva la carica di Segretario Nazionale del PSI. Martin Luther King e il Profeta Isaia  avevano un  grande sogno: I figli dei neri andare insieme ai figli dei bianchi, il lupo pascolerà un giorno insieme all’agnello. Anche l’on. Mancini aveva un sogno: lasciare il posto di Sindaco in eredità ad una donna che lui stimava tanto. Il sogno si è avverato.

Purtroppo, la signora Catizone dopo alcuni anni è stata disarcionata. Dopo la morte del grande leone socialista, però, le vecchie calzette, i vecchi tromboni, i vecchi sciacalli si sono svegliati dal lungo letargo e i danni che stanno combinando sono sotto gli occhi di tutti. A distanza di lunghi 20 anni si parla ancora di lui. L’On. Martelli lo commemorerà stasera al Rendano, Leporace ha scritto un libro che uscirà fra breve, il Dott. Pellegrini e il Dott. Paletta hanno scritto due interessantissimi articoli sulla sua vita. Avrebbe, forse, voluto intervenire anche lui, lui che in vita è stato un fiume in piena.  

Non ascolterà, però, quello che diranno. Non leggerà gli articoli. Quella tomba nel cimitero di Cosenza coperta da tanti garofani rossi non sarà scossa dall’eco dei discorsi che il vento porterà dalla Villa Vecchia. Murata nel cemento non ascolterà le parole di qualcuno che lo ha fatto tanto soffrire e poi morire. (fg)

In copertina, foto di Giacomo Mancini Jr