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IL RICORDO / Franco Cimino: A "te" Ettore Capicotto, a dieci anni dalla "tua" partenza

IL RICORDO / Franco Cimino: A “te” Ettore Capicotto, a dieci anni dalla “tua” partenza

di FRANCO CIMINO – E ci siamo dimenticati di te! Ancora una volta ci siamo dimenticati di te. E nel decimo anno senza di te. Come per altri, come te, la nostra memoria è naufragata nel frastuono di queste estati che si vogliono concepire stupidamente ricche e piene. E ricche di che quando si perdono persone come te? E piene di cosa, se il vuoto s’allarga quando si assentano catanzaresi come te? Estati che fanno rumore per coprire il silenzio assordante delle altre stagioni, come dicevi tu. E la Marina, stracolma di gente sempre più “anonima” e di più che nell’essere folla, celebrata per nascondere il vuoto profondo della Città Alta, come ripetevi tu, quando nei vari punti del Centro ti intrattenevi, cazziando e sfottendo, ridendo e facendo ridere, ché anche comico eri tu.

“E mo’ a chiudimma Catanzaru”. Sono le tue parole. Le ricordi tu? Non ce le siamo dimenticate. Come della tua tromba, che non era solo quella, che, sempre e spesse volte a piedi scalzi, durante La Naca, ritmava quella dolente nota, sempre uguale a intermittenza, per farci sentire il rumore del martello sui chiodi di Gesù o il pianto umano di sua madre. Ripeto quasi testuale le tue frasi. Quella tua tromba era la tua voce, forse nata con te. Era la parte di te, che la tua timidezza non riusciva a esprimere. La tromba tua, una magia. Un mistero. Un incanto. Anche di sera senza luci, neppure quelle del palco, luccicava. E da gialla diventava rossa, come la tua barba “garibaldina”. Per questo molti amici affettuosamente ti chiamavano Garibaldi. Ettore Garibaldi, sì, me lo ricordo, io. E se ad altri non risultasse, è perché di certo io l’ho pensato. Ora che ci penso, ti ho visto così. I tuoi anni, non so quanto più vecchi dei miei, mi hanno offerto la magnifica opportunità di vedere te, sempre adulto, e me sempre fanciullo.

Fino a quando te ne sei andato è stato così, tanto che ancora ti rimprovero di avermi sottratto, con la tua improvvisa e immatura partenza, un altro pezzo della mia fanciullezza tra gli altri pezzi profondamente legati a figure sentimentali insostituibili o a miti immarcescibili. Tu eri l’una e l’altro. Sei sempre stato grande tu. Anzi, di più. Piccolo di statura, gigante di natura. Il tuo cuore “garibaldino” ti faceva gigante. Perché non volevi essere eroe. Nessun garibaldino lo fu. Solo Garibaldi, così è stato considerato. Gli eroi sono la necessità dei popoli pigri, o di quelli indifesi. O di quelli rassegnati. Alla “sventura”, alla disavventura. Alle “ disgrazie”. All’ignoranza. Al dominio dei falsi giganti e alla invadenza dei prepotenti. Dei bugiardi nella parole e nei comportanti e, quindi, delle promesse ingannevoli. Dei guitti. Dei guappi. Dei furbetti. Dei fanfaroni. Dei mascherati  “prendiefuggi”. Dei bulli adulti rimasti stupiti sin da piccoli. È questa società che ha bisogno di eroi. E quando non ci sono nella storia, di eroi veri o verosimili, se li fa inventare, per essere imposti alla credulità popolare, confondendo il bisogno “ di pane” delle persone con l’emotività alterante degli individui lasciati soli. E per la necessità di tenerli separati dalla coscienza collettiva affinché non diventi popolo.

La società che ha bisogno di eroi, non ha memoria di sé. E dimentica, dimentica sì, persone come te. Di quelle che, invece, il loro eroismo l’hanno espresso nell’umiltà delle loro fatiche. Come hai fatto tu per circa settant’anni di vita, scegliendo di restare qui, nella tua Catanzaro, pur se le tue alte qualità artistiche, per quel grande musicista che eri, ti avrebbero garantito sicuro successo se fossi andato altrove. Tu eri la musica. La tromba eri tu. Nelle tue dita la musica si muoveva come quella degli angeli suonatori. Il tuo fiato le iniettava il soffio della tua anima. La tua bocca, sempre aperta al sorriso lontana dal bocchino, era il bacio dei santi agli uomini e alle donne sognanti. Le tue parole, rigorosamente in dialetto, quando le componevi per i tuoi spettacolo di musica/teatro, erano poesia autentica. Di quella che piaceva ai poeti veri. E ad Achille Curcio, il primo tra questi. Achille il maestro, che tanto ti amava. Come l’altro grande che hai già raggiunto, Michienzi, con il quale mille volte ti sei esibito.

A coprire anche quella nostalgia che in te hanno lasciato il complesso “Le Ombre” di Pino Ranieri, il grande Ulisse, cantautore profondo, dei fratelli Franchetto e Peppuccio Citriniti dal sax “ prepotente e romantico, la chitarra rock di Salvatore Celeste, il basso frenetico di Franco Folino, la tempestosa batteria di Antonello Nicita e la pianola delicata dell’indimenticabile Manlio Canino. Tutti indimenticati compagni tuoi nel cammino verso la musica. Non eri un eroe, tu. Eri il fabbro umile di quell’officina rimasta chiusa dopo di te. Chiusa in modo serrato, affinché di fabbri, di falegnami, di ceramisti, di tessitori, di operai, di pescatori, non se ne vedano più in giro. Ché a qualcuno non venga la voglia di fare come te, narrare Catanzaro com’era.

Raccontarla com’è. Sognarla. Come i veri catanzaresi la vorrebbero. E cioè bella. Com’era. Bellissima. Come un giorno sarà. Ettore, scusaci di esserci scordati di te. Non eri un eroe, tu. Eri di più, un catanzarese autentico. Come lo si era un tempo. Come volevi diventassimo noi. Ché il catanzarese ama Catanzaro. E la difende. Sempre. Anche quando costasse povertà e fatiche inascoltate. Anche sulle delusioni per gli inganni subiti da ingannatori non visti. Non eri un eroe, tu. Tu resterai sempre di più. Un esempio da seguire. Il cittadino d’onore. Che onorificenza non riceve, poiché onore alla Città hai sempre donato, tu. E senza mai prendere nulla. Ché nulla hai mai chiesto o preteso. (fc)