Giuseppe Romeo: le polemiche su “La Sposa” / una narrazione errata di questa terra

di GIUSEPPE ROMEO – In un’epoca nella quale si riduce ogni valore ed ogni esperienza ad una visione sintetica e veloce della vita come il senso di appartenenza, rara qualità nazionale, diventa interessante quando accade che esso si manifesti anche nelle piccole realtà locali, magari regionali. 

È il caso della Calabria e della ricaduta in termini di gradimento della fiction Rai La sposa. Una storia di un matrimonio combinato, una fotografia secondo l’obiettivo del regista degli anni Sessanta in Calabria, promossa da Piemonte Film Tv Fund e con il sostegno di Film Commission Torino Piemonte e girata dovunque, ovviamente, ma non in Calabria. Una storia di un matrimonio per procura e dai significati diversi che a questa pratica, non solo in uso al Sud, si possono dare e che non affranca nessuna esperienza di vita delle altre regioni della penisola negli stessi anni. Non entro nel merito delle ragioni e del fascino che una simile narrazione di una prassi sociale abbia suscitato nel decidere di produrla siano esse il riscatto di una donna forte e coraggiosa per affrancare la famiglia dal bisogno o altro. 

Tuttavia, al netto delle possibili opinioni di stile, lascio alcune considerazioni che credo possano essere ritenute ragionevoli. La prima è sul piano della scelta di dare un senso di mercato, quasi un mercimonio sgradevole, del matrimonio per procura, quasi come se la Calabria fosse, la terra per spose in vendita, una sorta di Zanzibar all’italiana del XX secolo. I modi e i termini della contrattazione dicono tutto – ed è un peccato che la produzione non si sia fermata a riflettere sul messaggio che tali scene avrebbero sotteso – e poco importano le finalità della promessa sposa che al senso di riscatto fa da cornice un dramma senza fine che avvolge tutto e tutti: protagonisti e spettatori. 

Il secondo è come e in che misura non sia ancora oggi possibile scrivere una storia diversa di una terra che della semplicità del passato ne aveva fatto uno stile di vita, dove la parsimonia era virtù in costumi che aborrivano il crimine relegandolo a patologia da curare, senza dare vetrina o aprire credito per povertà. 

Se fossimo obiettivi, infatti, dovremmo riconoscere che tutto questo lo abbiamo permesso perché abbiamo scelto di fare della Calabria il luogo di un romanzo criminale fine a se stesso, senza speranza di vedere una luce oltre le pagine impregnate di sangue e di miseria. 

Un romanzo che ci avvolge tutti in una sindrome di Stoccolma per la quale non solo ci rassegniamo alla versione noir che invade le vetrine e i bookshop delle stazioni e degli aeroporti, ma celebriamo il salvatore o il sacerdote di turno, meglio se proveniente da altre latitudini e magari con una rendita mediatica spendibile da poter sfruttare pro domo propria. Eppure, se guardassimo L’albero degli zoccoli potremmo dirci figli, seppur lontani, di una comune storia italiana di marginalità e di sfruttamento, ma questa con risultati diversi. Dagli zoccoli portati dovunque, in Italia e all’estero i contadini veneti di ieri sono diventati imprenditori e ben altro, rimettendo capacità e conoscenze, oltre che capitali, alla loro terra con efficacia e amore, sposandola in nozze mai più combinate. 

La Calabria, invece, continua a vivere remissivamente in un continuo divorzio con la sua storia, con le sue migliori risorse, senza regolare i conti con una deprivazione culturale che dura da tanto… troppo tempo, permettendo a chiunque di sposarne una parte di essa come meglio crede e alle sue condizioni. 

SULLA RAI UNA CALABRIA CHE NON ESISTE
LA FICTION ‘LA SPOSA’ INSULTA I CALABRESI

di SANTO STRATIPassi per le belle spiagge della Puglia contrabbandate per le incantevoli coste calabresi, passi per un dialetto che con calabrese c’azzecca poco, ma il mercato delle “vacche” no, non è tollerabile. La fiction Rai La sposa con la regia di Giacomo Campiotti e la sceneggiatura di Valia Santella (Nastro d’argento 2019 e premio David di Donatello nel 2020) ha fatto invelenire i calabresi e scatenare un’ondata di sdegno come non capitava da tempo. La vicenda è molto semplice. La Rai propone in tre puntate (doppie) la storia di una giovane calabrese (splendidamente interpretata da Serena Rossi) che sposa per procura un settentrionale vicentino per garantire sostegno finanziario alla propria famiglia, in disgrazia dopo la morte del padre.

Ora, la storia in sé potrebbe anche essere carina e avvincente per una trasposizione televisiva (ricorda vagamente un racconto del collettivo Lou Palanca del 2015, che non viene minimamente citato) ma appare evidente che la storyteller si sia fatta prendere la mano attingendo non si sa da quali fonti circa un mercato di vergini (peggio della schiavitù) offerte ad aspiranti possidenti matrimoniabili del Nord. È una vergognosa invenzione che, oltretutto, non trova neanche una collocazione temporale giustificabile: che in Calabria (come in tutt’Italia) ci fossero i famosi “sensali” di nozze che combinavano matrimoni misti nord-sud è cosa risaputa, si davano da fare fino a tutti gli anni Sessanta, ma la storia televisiva dice che siamo nel 1967 (quando già c’erano i germogli della emancipazione femminile che da lì a poco sarebbe esplosa) e traccia un’immagine della povera e disperata Calabria che nemmeno il buon Muccino, tra coppole e asinelli, avrebbe potuto immaginare. 

Il disprezzo verso i meridionali è fin troppo evidente ma risulta gratuito e sgarbatamente odioso (Calabria, vuoi sempre sghei!)  e questo non è tollerabile in una televisione che è Servizio pubblico. Si offre un’immagine contorta e distorta di inciviltà come non è mai esistita: si propone un mercato di vergini al miglior offerente che nemmeno negli emirati arabi d’inizio secolo o negli States di miss Rossella e Mamie della guerra americana di Via col vento, tra razzismo, schiavitù e ribellione. No, hanno ragione i calabresi a indignarsi, soprattutto pensando alle lotte contadine, al sacrificio di Giuditta Levato e di tantissime altre anonime donne che hanno pagato con la vita il rifiuto della sottomissione e della violenza di genere.

È un falso storico e in una fiction, in un film, in un romanzo, si può raccontare di tutto, senza tener conto della realtà, ma un conto è l’invenzione creativa, un altro il viscido filo di razzismo che viene trasmesso dalla tv di Stato e sbattuto in faccia alle cattive coscienze dei sostenitori dell’autonomia differenziata (del Nord ai danni del Mezzogiorno).

Le costiere che appaiono in video non sono della Calabria (gli esterni al mare sono stati girati a Vieste, nel Gargano, per evidenti opportunità di produzione – Film Commission Apulia è stata più brava della nostra?), ma neanche la storia, i volti, i personaggi sono della Calabria. 

Un Paese come l’Italia che conta circa 4 milioni di calabresi fuori dalla regione sparsi per la penisola (alcuni illustri, famosi e meritoriamente apprezzati in tutti i campi) non può accettare un’immagine così retriva della storia del Sud, della Calabria, che offende non solo tutti i calabresi, ma anche gli italiani. 

Non è una “storia di Calabria” quella de La sposa che per tale è stata contrabbandata e grazie al cielo non è stata finanziata dalla Calabria Film Commission, ma ha trovao grande pubblico televisivo nella prima serata di RaiUno.  

Una brutta pagina di televisione che coltiva il seme dell’odio razzistico (Nord contro Sud – non s’affitta ai meridionali) sulla quale riteniamo opportuno proporre e riportare i commenti di due scrittori “autenticamente” calabresi: Santo Gioffrè e Giusy Staropoli Calafati. Due riflessioni che, personalmente, condividiamo in pieno e che, siamo convinti, troveranno il giusto apprezzamento. Ma qualcuno, alla fine, risponderà mai di tanta infamia a buon mercato? (s)

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LO SDEGNO DELLO SCRITTORE DI SEMINARA

di SANTO GIOFFRÈ – Mancava, solo, l’anello al naso. Poi, mel reale immaginario dell’Italia da bere, la Calabria torna terra del Grand tour… Micuzzu… Micuzzu ,vota i crapi, ca cattai na capretta  Calabrisi in Puglia e a facimu cumbojjari du muntuni Veneto, in Piamonte… 

Certo che solo la fantasia e la testa malata, infetta da 40 anni di qualunquismo razzista e clerical- reazionario, con evidenti e subitanee complicità Calabresi,  poteva partorire una ipotesi pseudo filmica in cui, negli anni ‘60, le ragazze calabresi venivano fatte sfilare nelle piazze dei paesi, in un mercato delle vacche, come facevano, nel ‘700, gli schiavisti anglo-olandesi- americani, e sottoposte ad aste in base allo stato di verginità, alla dentiera e alla prestanza fisica per usarle come troie da traino nelle terre del nord. 

Qualsiasi proseguo avrà, questa fiction è di una violenza xenofoba…(prendi i sghei, Calabria…) mai fin’ora apparsa in una fiction su una Rete di Stato. Falsa dal punto di vista storico (negli anni 60 non vi furono, mai, fenomeni  di vendite evidenti e pubbliche di donne… anzi in quel periodo, in Calabria, iniziarono lotte politiche feroci per l’emancipazione, il riscatto culturale e sociale e contro il potere politico dominante… e se drammi sociali e familiari vi furono, questi vanno raccontati sotto il profilo storico, antropologico e sociale…). 

La letteratura calabrese, in quel periodo, mostrava, Resistenza, se pur minima, anche se incapace di farsi avanguardia d’impulsi  d’emancipazione …Cialtroni, miserabili e venduti alla vulgata razzista del nord. Ma ve lo meritate… I pacchi i pasta, anche questo sono, visto che accettate di tutto pur di aver qualcuno da chiamare padre!  (s.g)

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NON È LA CALABRIA, È UNA QUESTIONE DI IDENTITÀ

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – Permalosi e orgogliosi. I calabresi siamo così. Suscettibili quando ci toccano la storia e ci reinventano i luoghi. Alterano tutto ciò che attorno ad essi si compie. E che completa la nostra esistenza. Dà acqua alle nostre radici. Fortemente emotivi quando ci scombinano la narrazione, ci strapazzano l’ideologia, ci adattano ai tempi, e ci modificano i decorsi. E non è campanilismo questo risentimento che si palesa sui volti di un popolo intero, è questione di identità.

La Calabria è una parte del Sud, troppo intima, da rendicontare il tempo di una briscola o un tressette. Troppe, infinite le sue declinazioni. Impossibili di essere colte nella totalità.  E interpretarla si sbaglia il concetto, a imitarla si erra per presunzione. E nessuno riesce mai, e per precise ragioni di appartenenza, a fidelizzare con lei completamente. La sua lingua è un ossimoro. Il suo è un idioma potente, impossibile da rendere mediatico. Ha un accento che non esiste.

La Calabria è una gentile colomba. Così ritrae le spose d’Aspromonte, Corrado Alvaro. Anche quelle maritate per procura. Con una sola foto oltre l’oceano. Preservate dal male e dall’affascino.

Nella prima puntata de La sposa, la Calabria torna sul grande schermo ammantata di arretratezza e inciviltà. Riproponendo una questione meridionale praticamente irrisolta.  Ma La sposa non è la Calabria.

La donna calabrese non è una regalia. Non sfila nelle piazze dei paesi, come accade nel film, al mercato delle vacche, per essere messa all’incanto a seconda della sua verginità. Sulla base delle sue possibili prestazioni. Né ieri né mai. La donna calabrese è fimmina! È forza, coraggio, dignità, lavoro, ostinazione e senso, altissimo, dell’onore. 

La sposa in Calabria è valore, anche per procura. È rispetto, è considerazione. La storia cerca verità, non compiacimento. E allora non si esagera, neppure nei fil. È questione di identità.  

La Calabria non è un bicchiere sempre mezzo vuoto, con cui il Nord cerca di placarsi l’arsura quando cazzo gli pare. La mia terra, è un calice di vino rosso pieno che anche il cinema deve imparare a rispettare. Onorando la sua storia, in nome di donne come Giuditta Levato, con tutto il dolore e la resistenza, le lotte e non la ciotìa. Donne come Caterina Pisani Tufarelli, prima donna sindaco d’Italia. Tra le “ragazze del ‘46”, quando già la Calabria aveva avviato la sua emancipazione.

Se non fosse per la capacità del regista, d’aver attributo alla protagonista Maria, interpretata magistralmente da Serena Rossi, la forza inequivocabile che la Calabria ha, che a quanto pare sarà proprio lei a salvare il Veneto, avrei ammonito con fermezza e rigore questa storia. Strumentalizzare una terra come la Calabria, come a volerle ogni volta piegare il capo per la benedizione, è un delitto che non si può perdonare. La Calabria è una terra speciale, e come tutte le cose speciali, va prima provata, assaporata. E solo poi, eventualmente, raccontata nei libri o in televisione.  (gsc)