FAR RESTARE QUEI CERVELLI IN FUGA: AL
SUD SI PUÒ ESSERE CITTADINI DI SERIE A

di PIETRO MASSIMO BUSETTA – «Trattenere i 40.000 laureati che ogni anno se ne vanno dal Sud dovrebbe essere l’obiettivo centrale delle politiche di sviluppo perché ognuno di quelli è un pezzo di Pil che se ne va». Cosi Luca Bianchi, direttore della Svimez commentava,  nei giorni scorsi, il tema  al centro di un incontro di studio organizzato da Banca d’Italia e Istat. 

Il messaggio univoco che proviene dall’indagine che il calo della popolazione in età lavorativa richiede un aumento del tasso di occupazione in particolare di donne e giovani ed anche un’attenta politica migratoria é di quelli scontati. Il merito sta nel fatto che il tema della emigrazione dei cervelli ritorna centrale.

Chiedersi perché in tanti scelgono fin dalla frequenza della università di puntare al Nord è un esercizio quasi scolastico. Da una realtà dove lavora una persona su quattro come il Mezzogiorno, nel quale rispetto ai 20 milioni di abitanti vi sono solo poco più di 6 milioni che lavorano, compresi i sommersi, non si può che fuggire. Per una serie di motivazioni: alcune delle quali riguardano le ragioni della mancanza assoluta di opportunità. Ed in ogni caso quando queste dovessero presentarsi, considerato che i livelli superiori sono concentrati nelle realtà nelle quali le direzioni generali sono localizzate, nel momento in cui bisogna crescere nelle responsabilità, l’esigenza di lasciare il Mezzogiorno diventa sempre più cogente. Ma vi sono anche altre motivazioni che riguardano il fatto che l’emigrazione a cui assistiamo é alla ricerca dei diritti. 

Proprio così si tratta di una generazione di meridionali, che hanno deciso che non vogliono accontentarsi di essere cittadini di serie B e poiché hanno già cessato di sperare in una possibilità di cambiamento, poiché ritengono che non sia possibile avere gli stessi diritti di cittadinanza che si hanno al Nord, hanno deciso di spostarsi. I diritti fondamentali che cercano  sono quelli alla mobilità, alla salute, agli asili nido per i loro bambini, a una buona scuola. Se a questo aggiungi quello che afferma sempre Luca Bianchi e cioè che “in realtà se continuano ad emigrare è perché la qualità del lavoro e le retribuzioni sono troppo basse, circa il 20% inferiori al resto d’Italia” il quadro si completa. 

Ciò vuol dire che le gabbie salariali tanto invocate e richieste da una parte del Nord  sono già una realtà. 

Ovviamente il Centro Nord gode di tutto questo come evidenziato dall’ultimo Rapporto Istat sulle migrazioni nel Paese: «Il Centro-Nord “recupera” le perdite accumulate nel decennio 2012-2021 con gli studenti in arrivo dal Mezzogiorno. Negli ultimi 10 anni, il Nord guadagna oltre 116mila giovani risorse provenienti dal Sud e dalle Isole, il Centro quasi 13mila. Nel complesso, le uscite dal Mezzogiorno verso l’estero e le altre regioni d’Italia determinano una perdita di circa 150mila giovani laureati». 

Non per fare il conto della serva ma dire che tutto questo costa al Sud 45 miliardi, considerato che per formare un laureato  servono 300 milioni,  non è sufficiente ad individuare il vero costo per la realtà meridionale, perché i 45 miliardi riguardano solo il danno emergente, la valutazione del lucro cessante è più difficile da calcolare. 

Ma certamente il processo emigratorio è quell’elemento che non consente più alla foresta dello sviluppo di crescere e che avvia ed alimenta un processo di desertificazione.

Per questo l’autonomia differenziata voluta in primis da Calderoli/Zaia, ma anche da Fontana e Bonaccini, sodali in quel mai costituito ufficialmente, ma sempre in azione,  Partito Unico del Nord, che prevede la istituzionalizzazione dei diversi diritti di cittadinanza è una deriva pericolosissima. 

Bisogna puntualizzare peraltro che sbaglia chi confronta l’emigrazione dal Sud con la mobilità che vi é al Nord. Perché se è vero che gli arrivi da Sud compensano numericamente la fuga e che resta il fatto che anche tutte le Regioni del Nord hanno un saldo dei giovani laureati verso l’estero negativo non si può non precisare che quella dal Sud è emigrazione e l’altra invece è mobilità. 

L’Istat ricorda che sempre nel decennio 2012-2021 è espatriato dall’Italia oltre un milione di residenti di cui circa un quarto in possesso della laurea, in buona parte settentrionali. Tra rimpatri ed espatriati il saldo insomma è chiaramente negativo, al punto che la perdita complessiva dell’Italia per l’intero periodo è di oltre 79mila giovani laureati. 

Tutto vero ma bisogna calcolare però che vi sono una serie di stranieri che vengono a lavorare in Italia e che compensano, anche se solo in parte,  il drenaggio che avviene,  in un processo di scambio di esperienze che non può che essere positivo. 

L’emigrazione di cui soffre il Sud è invece un fenomeno tipico dei paesi poveri, che perdono i loro migliori residenti spesso senza guadagnare giovani stranieri che decidono di trasferirsi nelle aree meridionali. Lamentarsi di un processo che ha le sue origini in politiche che prevedono che alcune parti del Paese siano considerate come colonia, nelle quali anche con il Pnrr si pensa di dotare i comuni interessati degli asili nido con bandi competitivi è un esercizio non solo inutile ma anche vigliacco. 

Deve essere chiaro a tutti che il Mezzogiorno è funzionale, in tutte le sue componenti di territorio e capitale umano, alla crescita sempre più contenuta di un Nord che pensa di poter sostenere la propria competitività rispetto alle aree ricche della MittelEuropa sfruttando  a suo vantaggio, in una cannibalizzazione degli altri territori,  un Mezzogiorno debole.  Anche se é evidente che fin quando il rapporto nei confronti delle  parti forti del Paese sarà in una forma di ascarismo perdente, sia in termini elettorali che conseguentemente in termini economici,  i risultati non potranno che essere quelli registrati ormai da oltre cinquant’anni. 

Se come nelle tragedie greche il Sud aspetterà che un deus ex machina, che sia lo Stato centrale o un partito nazionale,  si occupi di impegnarsi seriamente per politiche di sviluppo adeguate allora non potrà che rimanere deluso. Anche se è difficile con la mancanza di formazione e di consapevolezza,  dovuta anche ad una diffusa dispersione scolastica oltre che alla mancanza di tempo pieno nelle scuole e alla poco occupazione che non consente di avere in casa delle donne occupate quindi più inserite nelle problematiche del Paese, è necessario che vi sia un colpo di reni che preveda non questue rispetto ad un Paese che può essere più o meno generoso, ma pretese legittime da far rispettare con la forza delle urne. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]

La Calabria ultima in Europa per l’occupazione a tre anni dalla laurea

Maglia nera per la Calabria anche sul tema dell’occupazione per i giovani laureati: a tre anni dal titolo nel 2020, solo il 37,2% ha trovato lavoro, a fronte della media italiana che è del 59,5% e di quella europea, che è dell’81,5%. È il desolante quadro emerso dall’analisi dell’Eurostat, che ha pubblicato il libro sulle Regione, in cui si affronta, anche, il tema dell’istruzione e del lavoro e riportato dall’Ansa.

Nonostante l’Italia abbia registrato una riduzione di « 2,2 punti a fronte di una flessione di 1,7 punti nella media dell’Ue a 27» per quanto riguarda il dato sull’occupazione dei giovani laureati a tre anni dal titolo, la «Calabria – riporta l’Ansa — resta la regione con le difficoltà maggiori e appena il 32,1% dei ragazzi che hanno completato l’istruzione superiore con un’occupazione tra uno e tre anni dal titolo. È seguita dalla Sterea Ellada in Grecia (32,2%) e dalla Sicilia (33,3%)».

«La Campania – viene riportato ancora – è la quarta regione per difficoltà dei neo diplomati e neo laureati con appena il 37,6% con un impiego tra uno e tre anni dal titolo. E la difficoltà a trovare lavoro persiste nel Paese nonostante sia ancora molto bassa la percentuale delle persone in età lavorativa con un livello di istruzione universitario (il 20,1% in Italia a fronte del 32,8% medio nell’Ue a 27)». (rrm)