DA 150 ANNI LA “QUESTIONE MERIDIONALE”
PRESENTE E FUTURO DI CHI NON PARTE PIÚ

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – “Se questa è terra”, parafrasando Primo Levi, lontani da ogni coinvolgimento e dai falsi millantatori, la Calabria ha bisogno, e finalmente, di una sincera e profonda analisi. Un’indagine accurata della sua vita, le manchevolezze e le virtù; un’esposizione precisa dei fatti che liberamente ha vissuto e dei misfatti a cui è stata nottetempo costretta. E a seguire, il tracciamento di una linea di sviluppo su un futuro prossimo ancora possibile per i calabresi. Dunque un reale e profondo esame, affidato alla genialità e genuinità del suo stesso popolo. Procedendo passo passo, dall’individuazione allo studio dei particolari, fino alla scomposizione di tutte le sue parti. Inclusa la grandezza di cui ne è pregna, ma anch’essa spesso variabile nelle sue componenti.Idee, ideali, visioni, lavoro, sviluppo, territorio, sanità politica… Passato e presente. Presente e futuro. Futuro e basta.

“Cominciate col fare ciò che è necessario, poi ciò che è possibile. E all’improvviso vi sorprenderete a fare l’impossibile”, diceva San Francesco da Paola, la cui visione della Calabria amplia ogni qual si voglia prospettiva.

Era il 1861, e nasceva come nascono i figli, la questione meridionale. La Calabria si trovava improvvisamente a doversi curare da sola le ferite delle razzie subite. E perdeva in un batter d’occhio, l’indipendenza e la libertà. Il Mzzogiorno in cui è tutt’ora incastonata, veniva, e nella forma più terribile e vile, svuotato delle sue fabbriche, le flotte navi, le poste. E poi i valori, i sogni, la dignità, ma soprattutto i figli.

Una strage silenziosa di addii e di partenze obbligate che colpiva direttamente lo stomaco delle famiglie. Ed è lì, in quella parte del corpo degli uomini del Sud, che va ricercata oggi la prima causa del male, per cui, tra le altre terre, soprattutto la Calabria, rinnegata e derisa, piange ciclicamente se stessa.

Quando le mancava la farina, e i figli si stropicciavano gli occhi, e le madri si battevano il petto per il fianco del pane. Quando le rubavano le olive, e certe volte le boicottavano le terre, e su quello stesso suolo, le stupravano le mogli. Con violenza, senza pietà.

Allorquando, con il corpo, obbligata e oberata dal bisogno, risaliva verso la grande Italia, mentre l’anima le rimaneva lì piegata dov’era nata. Nella miseria acuta e ancora oggi incompresa, in cui i piemontesi l’avevano amaramente condannata. Così al dolore delle doglie delle madri, si aggiungeva quello forte delle partenze dei figli e dei mariti. Come soldati in fila alle stazioni, accalcati sopra i lunghi treni.

Erano giovani e forti. Non sono morti, ma son partiti in tanti. Che mentre con la forza delle braccia, ben forgiate nella durezza della terra nera, con i sacrifici e il pianto amaro delle spartenze, industrializzavano Milano e Torino, Milano e Torino, con la pratica del convincimento, al limite dell’assuefazione, li annoverava tra gli ultimi, gli sporchi, gli oziosi e i lenti. I fetusi e i tinti. I terroni infami. Gli stolti della terra inquieta.

Una terra da dove tutti partono, la Calabria. E verso dove, il ritorno è una scelta che solo pochi mettono in programma. Un terra dannata e sola. E nelle terre sole (diceva Saverio Strati) prolifica la mafia. Nelle terre sole, si incarognisce la mafia. Ed esse stesse, diventano improvvisamente asprimondi, e nel disagio sociale che imperversa, l’uomo disperatamente si concede (totus tuus). Se è adulto, e se è bambino. Perché nei campi fragili, negli orti incolti, e nei cuori ripetutamente tristi, attecchisce la più malvagia e maledetta di tutte le piante. Andragatia, o più comunemente ‘ndrangheta.

Malaffare, criminalità, ostentazione del rispetto, potere, vendetta, resa dei conti. Reclutamento di uomini, e giuramenti di obbedienza. Davanti ai santi e non ai fanti. Nella solitudine della Calabria, il bisogno diventa mafia. E si radica ovunque trova morbido e scava profondo. Nella debolezza delle istituzioni, nel tentennamento più che accessibile della politica, nella fragilità assoluta del tessuto sociale. Attecchisce e velocemente cresce. Perché quaggiù, alla Calabria appunto, nessuno viene per porgere aiuto. Né restituisce quello avuto.

Ma a infilzare le ferite ancora aperte e sempre vive di questa ineguagliabile magna Grecia, ecco che arrivano ripetutamente, con il passo dei dominatori,  il giudizio e il pregiudizio del mondo. Dal 1861 a Corrado Augias, il tempo è tanto e pure lungo. La storie e le offese, altrettanto.

La Calabria, ahimè, ahivoi, ahinoi, a oltre 150 anni di storia italiana, non rinviene. E la sua questione rimane eternamente irrisolta.  Ma se è vero che alla base dei mali vi son sempre i rimedi, le cure e le soluzioni, la Calabria deve avere convintamente ancora un futuro nuovo davanti a sé. Così da finirsi Augias e tutti gli sfidanti come lui.

La morte, solo la morte che rende le cose, i luoghi e gli uomini definitivamente perduti e irrecuperabili. E la Calabria, dentro di sé ha ancora una razza viva. Che è il rimedio, la cura e la soluzione.

Una rivoluzione? No. Una conversione definitiva alla calabresità, affinché oltre al forestiero, il calabrese non sia più nemico del calabrese stesso. Che fomentato contro la sua stessa pena poi viene deriso. E si recuperi nel più breve tempo possibile l’amore dei calabresi verso la Calabria e quello della Calabria verso i suoi calabresi. Perché per tracciare la linea di sostenibilità del futuro ancora possibile per questa terra, urge uno scatto d’orgoglio che converta alla vera razza. Alla primordiale. Che è madre e figlia della lotta, del sacrificio, della ribellione, lontana dalla rassegnazione e dell’assopimento. Che è resistente, ma soprattutto resiliente.

Il calabrese non deve più attendere altri 150 anni ancora. Ma già da ieri, deve riuscire a ritrovare, la peccaminosa intimità con la sua terra, rinnamorandosi di lei e di se stesso. Rinunciando definitivamente a uomini come Augias, – che ve ne saranno sempre e saranno molti di più – che mai hanno contribuito, né col pensiero né con la parola, alla risoluzione della storica “questione meridionale”, riadattandola invece in una ben più rena “questione calabrese”.

Dunque, meno chiacchiere  e tabbaccheri i lignu. Il banco di Napoli non ne impegna più. Risorse, investimenti, infrastrutture, impegni, ma soprattutto opportunità di scelta. Occasione che, ahinoi, non c’è mai stata data.

Ad analisi completa, i panni sporchi si lavano in famiglia. I calabresi che concordano con la perdizione della propria terra, è l’ora che vadano. Quelli che invece intendono ancora concorrere per un nuovo futuro restando, è ora che decidano. Il futuro della Calabria e dei calabresi, è nelle nostre mani sporche di impegno e di lavoro. (gsc)

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In Calabria è stato commesso il più grave dei delitti, di cui non risponderà mai nessuno: è stata uccisa la speranza pura, quella un po’ anarchica e infantile, di chi vivendo prima della storia, ha ancora tutta la storia davanti a sé. (Pier Paolo Pasolini)

 

[La fotografia di copertina è del gen. Emilio Errigo]