«Allo stadio con Dio»: la riflessione domenicale dell’Arcivescovo Bertolone

«Indossare la maglia azzurra è bellezza oltre il significato simbolico, stai rappresentando il tuo Paese e non soltanto i tuoi tifosi: è una cosa bella di per sé, è bello sentirsi fasciati da quel colore».
Alessandro Del Piero, l’indimenticabile Pinturicchio della pedata italica, restituisce con le sue parole il senso di amor patrio che ogni partita della Nazionale restituisce ad un Paese intero, ancor più adesso che si è tornati a giocare una competizione internazionale come gli Europei, specie ora che il rotolare di un pallone viene visto – a torto o a ragione – come simbolica liberazione (almeno un po’) dal dramma dell’ancor persistente pandemia. È la forza del calcio e dell’azzurro: unire e compattare un Paese che invece, come il resto dell’anziana Europa, sembra essere sempre a un passo dallo sfinimento, sull’orlo del precipizio. È un bene che ciò avvenga, perché lo sport ha il potere di cambiare il mondo, di migliorare la società civile, di entrare nel cuore di ognuno. Il calcio, poi, offre la possibilità di trasmettere grandi valori, anche se non va dimenticato che purtroppo tante altre volte riflette anche le degenerazioni della società, dalla violenza al razzismo ad un consumismo che mortifica i valori e trasforma un gioco e i suoi valori in mercanzia. Per molti versi, infatti, la secolarizzazione ha ridotto anche la pratica sportiva a rito di massa laico, privo di creatività, interiorità e armonia, secondo quella tendenza che lo scrittore Karl Kraus tratteggiava in maniera pungente: «Lo sport è figlio della democrazia ma contribuisce all’istupidimento del singolo e della famiglia».
In tempi di vaccinazione (si spera universale, seppur soltanto per l’Occidente opulento) è necessario ricercare antidoti anche contro una simile deriva dell’anima, perché si esalti il senso concreto di quella sorta di esperanto dell’umanità che invece lo sport è nella sua autenticità. La leggera onda azzurra che sale nelle notti italiane, grazie al cammino della Nazionale di Roberto Mancini, può essere d’aiuto almeno per gli Europei. Magari alla fine arriverà un avversario più forte a spezzare il sogno in campo, ma fuori (e dentro ognuno di noi) resterà comunque la traccia di un’esperienza non solo virtuale, come ormai d’abitudine. Ad esempio quella della fede inconsapevolmente ricercata nelle ore della preghiera per il giocatore danese Christian Eriksen. Oppure, più semplicisticamente, nella generica invocazione di Dio ad ogni rigore da tirare o da parare, a seconda dei punti di vista e del colore delle maglie. Certo, l’Altissimo non è un ombrello da aprire a proprio piacimento di fronte ai problemi – piccoli o grandi – della quotidianità, ma neppure può negarsi che questo atteggiamento genuino sia un riflesso del cuore, sintomo di una infanzia spirituale, del sentirsi comunque legati al Padre al punto da volerlo al fianco anche in curva allo stadio.
Resta, al fondo di tutto, la finitudine dell’uomo e la realtà di un’esistenza che ha un senso solo se le cose conservano il loro significato originale. Come quando il calcio viene vissuto come un momento di svago in grado di aggregare e spingere a condividere valori veri e nobili.
+ Vincenzo Bertolone
Presidente Commissione Episcopale Calabra
Arcivescovo della DIocesi Catanzaro-Squillace

“Il tempo della svolta”: la riflessione domenicale dell’Arcivescovo mons. Vincenzo Bertolone

«La solidarietà del genere umano non è solo un segno bello e nobile, ma una necessità pressante, un essere o non essere, una questione di vita o di morte».
Così il filosofo Immanuel Kant. L’attualità della sua affermazione è incisa sulle tavole del presente: la pandemia, con i suoi tragici effetti, è stata (e continua a essere) durissima. Ha scavato ulteriormente solchi già profondi, accrescendo le disparità e colpito, in particolare, le donne, i giovani, i deboli e i più poveri. Ha imposto stravolgimenti radicali, facendo della casa una sorta di fortezza e delle mura domestiche lo spazio di ufficio e studio, asilo e scuola, palestra e chiesa, frantumando il sistema di conciliazione tra famiglia e lavoro. Quel che è peggio, se possibile, è che essa avrà effetti durevoli, per molti anni ancora, anche sotto l’aspetto psicologico. E con la sua coda potrebbe alimentare, ancor più, paure e rancori. Venirne fuori non è solo questione di efficienza ed efficacia di una campagna vaccinale comunque indispensabile e fondamentale. L’opportunità da cogliere è anche un’altra: ripartire coniugando sviluppo e riduzione dei divari.
La crisi scatenata dall’inarrestabile diffondersi del virus ha posto l’Italia (ed il resto del pianeta) di fronte alla realtà amara di un’epoca priva di discussione e confronto serio, lungimirante sul futuro, di una competizione politica basata sull’oggi e quasi mai sul domani, di un dibattito pubblico ridotto a slogan e comparsate, di un’informazione trasformata in caccia al click. E soprattutto, di un modello economico che ha lasciato dietro di sé precarietà e disuguaglianze. Le certezze già profondamente scosse dal terremoto finanziario del 2007 sono state definitivamente spazzate via dalla pandemia. Il rischio concreto, però, è che finita l’emergenza si ritorni allo status quo ante.
Restare inermi di fronte a tale eventualità sarebbe deleterio, visto che mai come in questo momento le condizioni sono favorevoli per correggere storture, colmare vuoti, in molti casi cambiare passo e prospettive, ad esempio al Sud, per provare a superare – una volta per tutte – lo storico e significativo distacco del Mezzogiorno rispetto alle regioni del Centronord ed all’Europa andando oltre la narrazione che si è imposta nel corso degli anni Novanta – secondo cui il Meridione è arretrato solo per colpe proprie e delle sue classi dirigenti incapaci di valorizzare le tante risorse sottomano – e che alla fine ha portato a privilegiare, investimenti sempre più corposi a vantaggio delle aree già ricche, in base alla teoria dello sgocciolamento: dare di più a chi ha già tanto avvantaggerà anche chi ha meno, perché il benessere gocciolerà via via dai più abbienti ai meno abbienti.
Nulla di più falso, nulla di più errato, come i fatti adesso tragicamente confermano. La svolta, allora: è necessaria, ma va costruita. Ragionando ora di nuovi modelli economici, certo, ma anche di un rinnovato impianto di relazioni interpersonali e sociali. Occorre far bene, e da subito. «Il tempo per la ricerca di soluzioni globali», osservava poche settimane fa papa Francesco, «sta scadendo, e l’attuale emergenza sanitaria ci obbliga a pensare agli esseri umani, a tutti, piuttosto che ai profitti di pochi»
+ Vincenzo Bertolone
Presidente Conferenza Episcopale Calabra
Arcivescovo della Diocesi di Catanzaro-Squillace