di FILIPPO VELTRI – «È il maiale di prosciutti di Calderoli, ne ha un allevamento…»: la battuta di Pierluigi Bersani, l’altra sera ad Otto e mezzo di Lilli Gruber, fotografa alla perfezione quello che è successo, e sta succedendo, dopo il voto di martedì al Senato sulla così detta autonomia differenziata.
Rivoluzioni in piazza annunciate (De Luca), vergogne nascoste malissimo (i 45 senatori del Sud, a cominciare da quelli calabresi, che hanno votato a favore del provvedimento e che si sono beccati i secchi rimproveri al fulmicotone dell’Arcivescovo di Cosenza), per ora un vincitore certo. Dall’ampolla con l’acqua del Po raccolta sul Monviso (1996) all’autonomia differenziata del 2024 infatti il passo – politicamente parlando – è assai più breve di quanto non facciano pensare i quasi trent’anni trascorsi. Allora alla regia c’era Roberto Calderoli, e così è anche oggi: il vincitore vero, l’unico dei bossiani a essere sopravvissuto a tutte le stagioni della Lega.
Oggi è lui il grande vecchio che ancora muove le fila dentro una Lega che non è più il Carroccio di Alberto da Giussano, ma un partito che ha cercato di diventare nazionalista, salvo poi essere travolto dai veri nazionalisti di Giorgia Meloni. A Calderoli della «Lega Salvini premier» non è mai fregato nulla.
Lui, l’ultimo giapponese come l’ha definito il Manifesto, porta avanti il programma di sempre, una revisione in chiave economica delle macro-regioni dell’ideologo Gianfranco Miglio. In sostanza: l’autonomia fiscale del Nord, dopo che la secessione è stata superata e affogata dalla storia. «Teniamoci i danè»: il concetto si è dipanato attraverso mille forme in questi tre decenni, dal Parlamento di Mantova fino alla devolution, con i quattro saggi del centrodestra, riuniti nell’agosto del 2003 nella baita di Lorenzago di Cadore, poi bocciata dal referendum costituzionale del 2006.
Venne poi il federalismo fiscale (2009), con i famosi decreti delegati che tennero prigioniero l’ultimo governo Berlusconi fino al 2011 e finì in un nulla di fatto. La crisi del 2011, l’arrivo del governo tecnico di Monti e dell’austerità (insieme al pareggio di bilancio in Costituzione) fecero infatti carta straccia del federalismo.
Nel frattempo l’ultimo dei giapponesi si è però fatto più furbo: per l’autonomia niente più riforme costituzionali, meglio una legge ordinaria, dall’apparenza più soft. Zaia lo ha sempre pungolato, forte del referendum del 2017 che vide l’autonomia stravincere in Veneto e Lombardia. Alla fine il core business dei leghisti doc, al netto delle scampagnate di Salvini con Marine Le Pen, è rimasto lo stesso.
Tornato al governo nel 2001, un Bossi assai più debole rispetto agli anni Novanta e più sottomesso a Berlusconi riuscì comunque a mettere in piedi, complici Tremonti e Aldo Brancher, quel meraviglioso teatrino dei 4 saggi di Lorenzago (Calderoli, Nania di An, Pastore di Fi e D’Onofrio dell’Udc). Calderoli si presentò in bermuda di jeans e camicia bianca, abbronzatissimo. Fu lui a tentare di incastrare le due riforme, litigando con Nania di An sulla clausola per l’interesse nazionale. Cossiga, in vacanza in Cadore, benedisse i saggi a suo modo: «Mi inchino di fronte a questo concentrato di cultura e conoscenza…».
La montagna partorì il topolino: competenza esclusiva delle Regioni in materia di sanità, scuola e polizia locale. Nel frattempo Calderoli era diventato ministro delle riforme, al posto di Bossi colpito dall’ictus nel 2004. Da allora ha cambiato mille spartiti per suonare sempre la stessa musica: quella dell’autonomia del Nord. Si è fatto più prudente, non grida più «Bergamo nazione tutto il resto è meridione», non porta maiali sui terreni destinati alle moschee (Bersani non dimentica però), non ha perso la pazienza della mediazione, anche con le opposizioni. Ma il filo, in fondo lo ha riconosciuto lui stesso in questi giorni in Senato, è sempre quello verde che parte dal Dio Po. «Il nostro vero obiettivo politico, dai tempi di mio nonno Guido…».
Ora l’ultimo miglio alla Camera e poi si vedrà, in attesa che dal Sud parta davvero una mobilitazione che fin qui però nessuno ha visto. (fv)