L'ANTICIPAZIONE DEL RAPPORTO SVIMEZ INDIVIDUA LE DIFFICOLTÀ DELLA REGIONE A TENERE IL PASSO CON IL PAESE;
CRESCE IL PIL CALABRESE, MA NON BASTA CON il PNRR POTREBBE ESSERE PIÙ ALTO

CRESCE IL PIL CALABRESE, MA NON BASTA
CON IL PNRR POTREBBE ESSERE PIÙ ALTO

di ANTONIETTA MARIA STRATI – C’è aria di stabilità in Calabria, che vedrà nel biennio 2023-2024 il suo Pil salire dello 0,9%. Un dato importante che è emerso dalle anticipazioni del Rapporto Svimez sull’economia e la società del Mezzogiorno presentato a Roma, ma che non deve far adagiare i politici sugli allori, in quanto si tratta di una crescita minima, inferiore perfino a quella stimata per il 2023, che è dell’1%.

I dati illustrati dal direttore della Svimez, Luca Bianchi, stimano una crescita del Pil italiano del 1,1% nel 2023, con una crescita nel Mezzogiorno (+0,9%) di soli tre decimi di punto percentuale in meno rispetto al Centro-Nord (+1,2%). Dovrebbe confermarsi, quindi, la capacità dell’economia meridionale di tenere il passo con il resto del Paese anche nell’anno in corso, in un contesto di “normalizzazione” della crescita nazionale dopo la ripartenza sostenuta del biennio scorso. Questa capacità potrebbe essere rafforzata, nel secondo semestre dell’anno, da un’efficace conclusione degli interventi relativi al periodo di programmazione 2014-2020 dei fondi europei della coesione.

Secondo l’Associazione, infatti, i fondi del Pnrr potrebbero dare un ulteriore contributo alla crescita del Pil, soprattutto nel Mezzogiorno: Nel 2023 si stima una crescita superiore di circa 5 decimi di punto rispetto alla previsione tendenziale (dallo 0,9 all’1,4%) e di circa 4 decimi nel Centro-Nord (dallo 1,2 all’1,6%). Negli anni successivi, il contributo aggiuntivo del Pnrr tenderebbe ad aumentare in entrambe le aree del Paese, ma con maggiore intensità al Sud, fino a chiudere sostanzialmente il divario di crescita tra Nord e Sud nel 2025.

«Va infine sottolineato – si legge – che quasi il 50% dell’impatto complessivo sula crescita del Pil in entrambe le aree dovrebbe realizzarsi negli anni finali del Piano, con effetti economici rilevanti anche nel 2027, l’anno successivo alla conclusione del Pnrr. Complessivamente, fino al 2027, l’impatto cumulato del Pnrr sul Pil italiano potrebbe raggiungere un valore pari a 5,1 punti percentuali: 8,5 al Sud e 4,1 nel Centro-Nord».

Tornando sui dati – escludendo i fondi del Pnrr – la Svimez sostiene che «nel 2023-2024 la crescita italiana dovrebbe attestarsi su valori rispettivamente del +1,4 e del +1,2%, con uno scarto di crescita sfavorevole al Mezzogiorno, ma dell’ordine di pochi decimi di punto. Un divario territoriale ben più contenuto di quello osservato nelle passate fasi di ripresa ciclica. In corrispondenza del picco registrato nel 2022, la dinamica crescente dei prezzi al consumo si è mostrata più sostenuta nel Mezzogiorno (+8,7% rispetto al +7,9% del Centro-Nord). Per il prossimo triennio la Svimez prevede un sentiero di rientro verso valori prossimi al 2% nel 2025, ma ancora segnato da rincari relativamente maggiori al Sud».

Secondo le stime della Svimez, nel 2023 i consumi delle famiglie dovrebbero crescere più lentamente nel Mezzogiorno (+1,1% contro +1,7% del Centro-Nord) – mantenendosi su tassi di crescita tra i cinque e i sette decimi di punto percentuale inferiori al Centro-Nord anche nel biennio successivo – a causa della più sostenuta dinamica dei prezzi. 2 Complessivamente, nel triennio di previsione, gli investimenti dovrebbero crescere in maniera più pronunciata nel Mezzogiorno, grazie ai ritmi di crescita del 2024-2025 stimati al di sopra della media delle regioni centro-settentrionali.

D’altra parte, la Svimez, stima una composizione dell’espansione degli investimenti disomogenea tra le due macroaree. Si valuta che nel Mezzogiorno cresceranno più velocemente gli investimenti in costruzioni, nel Centro-Nord quelli in macchinari, attrezzature e mezzi di trasporto (più direttamente orientati a sostenere la capacità produttiva).

L’Associazione, poi, lancia l’allarme: Un’ulteriore stretta monetaria  avrebbe effetti recessivi più intensi al Sud. Quella già attuata dalla Bce, infatti, «ha avuto un impatto cumulato negativo sulla dinamica del Pil nel triennio 2023-2025 di circa 6 e 5 decimi di punto rispettivamente nel Mezzogiorno e nel Centro-Nord», scrive la Svimez, ricordando che «la Bce ha indicato che le decisioni sui tassi ufficiali verranno adeguate in corso d’anno, volta per volta, alla congiuntura economico-finanziaria, in modo da conseguire l’obiettivo di medio termine del 2% di inflazione».

«La Svimez – si legge – valuta che un inasprimento dell’intonazione restrittiva della politica monetaria nel 2023 (un incremento di 50 punti base dei tassi ufficiali) avrebbe effetti depressivi più pronunciati nel Mezzogiorno rispetto al Centro-Nord, contribuendo ad ampliare la forbice nei tassi di crescita tra le due aree di due decimi di punto di Pil».

Bene, invece, la partecipazione attiva del Mezzogiorno per la ripartenza del Paese: «Nel 2022 l’economia italiana ha registrato un tasso di crescita di due decimi di punto superiore alla media europea (+3,7 contro +3,5%), confermandosi tra le più reattive economie europee nel post-Covid», si legge nel rapporto, confermando, dunque, che il Mezzogiorno è davvero la locomotiva della ripartenza dell’intero Paese.

«Il Mezzogiorno – riporta la Svimez – ha partecipato attivamente alla crescita nazionale anche nel 2022, registrando uno standard di crescita “europeo” (+3,5%). Complessivamente, nel biennio 2021-2022, l’economia del Mezzogiorno è cresciuta del 10,7% più che compensando la perdita del 2020 (-8,5%). Nel Centro-Nord, la crescita del 2021-2022 è stata leggermente superiore (+11%), ma ha fatto seguito a una maggiore flessione nel 2020 (-9,1%). Va tuttavia considerato che il Pil del Mezzogiorno, nonostante la ripresa sostenuta, rimane ancora di oltre sette punti al di sotto del livello del 2008, da quando ha preso le mosse una lunga stagione di ampliamento dei divari territoriali».

Un altro dato positivo arriva sull’occupazione, che cresce. «Il Mezzogiorno – scrive l’Associazione – ha fatto segnare nel periodo successivo allo shock del Covid una crescita occupazionale sostenuta, grazie alla quale è tornato su livelli di occupazione superiori a quelli osservati nel pre-pandemia (+22 mila occupati nella media del 2022 rispetto al 2019). Va tuttavia rilevato che i posti di lavoro, al Sud, rimangono ancora al di sotto di circa 300 mila unità rispetto ai livelli raggiunti nel 2008. Tra il primo trimestre del 2021 (durante il quale si è raggiunto il picco negativo dell’occupazione) e il primo trimestre del 2023 (l’ultimo per il quale sono disponibili i dati di interesse), l’occupazione è cresciuta a livello nazionale del +6,5% (+1,4 milioni di occupati) e del +7,7% nelle regioni del Mezzogiorno (+442 mila occupati) . Per la prima volta dopo molti anni, è cresciuta anche la componente a tempo indeterminato, soprattutto al Sud (+310 mila unità; +9% rispetto al +5,5% del Centro-Nord)».

La Svimez, poi, ha rilevato come «la crescita occupazionale si è concentrata nei settori delle costruzioni e dei servizi in tutto il Paese» e che «solo nel Centro-Nord l’industria in senso stretto ha contribuito alla ripresa dell’occupazione».

«Nel Mezzogiorno, la crescita dell’occupazione nel terziario è stata trainata in particolare dalle attività di alloggio e ristorazione che – si legge – con circa 100 mila addetti aggiuntivi, spiega circa un quarto della crescita complessiva. Al Sud sono cresciuti anche gli occupati nelle costruzioni, mentre si è rivelato modesto il contributo del settore industriale, soprattutto comparativamente alle perdite occupazionali sofferte dal settore negli anni passati».

Tuttavia, «la questione nazionale dei salari si aggrava soprattutto nel Mezzogiorno». Questo perché la dinamica inflattiva si è ripercossa in maniera significativa sui salari reali in Italia. I più recenti dati di fonte Ocse evidenziano una generalizzata erosione del potere d’acquisto dei salari rispetto al pre-pandemia.

«In tale contesto – si legge – i salari reali italiani hanno subito una contrazione ancor più pronunciata (-7,5% contro -2,2% della media Ocse). In Italia, la perdita di potere d’acquisto ha interessato soprattutto il Mezzogiorno (-8,4%) per effetto della più sostenuta dinamica dei prezzi. Questa dinamica si colloca all’interno di una tendenza di medio periodo particolarmente sfavorevole al Mezzogiorno. Le retribuzioni lorde reali mostrano una tendenza sostanzialmente stagnante nel Centro-Nord tra il 2008 e il 2019 e in significativo calo proprio al Sud. Nel 2022 le retribuzioni lorde in termini reali sono di tre punti più basse nel CentroNord rispetto al 2008; nel Mezzogiorno di ben dodici punti».

La Svimez, poi, ha rilevato come «nel Sud, il peso della componente del lavoro a termine rimane a livelli patologici, soprattutto se confrontato con il resto del Paese e le medie europee. La quota di occupati a termine sul totale dei dipendenti è pari al 22,9% al Sud contro il 14,7% del Centro-Nord. Soprattutto, nel Mezzogiorno si resta precari più a lungo: quasi un lavoratore meridionale a termine su quattro è occupato a termine da più di cinque anni, quasi il doppio rispetto al resto del Paese».

«Il tema del lavoro povero, aggravatosi per effetto della pressione inflazionistica ancora in corso – continua il rapporto – ha riportato al centro del dibattito politico la proposta di introduzione di un salario minimo legale. La Svimes ha elaborato una stima dei lavoratori che percepiscono una retribuzione oraria inferiore ai 9 euro lordi. La stima si basa sui microdati dell’indagine continua sulle forze di lavoro dell’Istat aggiornati al 2020, l’ultimo anno per il quale sono disponibili dati sulle retribuzioni disaggregati a livello territoriale. In base alle stime Svimez risultano circa 3 milioni di lavoratori al di sotto dei 9 euro in Italia, pari al 17,2% del totale dei lavoratori dipendenti (esclusa la Pubblica Amministrazione): circa 1 milione nel Mezzogiorno (pari al 25,1% degli occupati dipendenti) e circa 2 milioni nelle regioni del Centro-Nord (15,9% degli occupati dipendenti)».

Criticità, poi, sono state rilevate dal numero troppo elevato di “cervelli in fuga”: Tra il 2001 e il 2021 circa 460.000 laureati si sono trasferiti dal Mezzogiorno al Centro-Nord, per una perdita netta di circa 300.000 laureati nell’area.

Tra il 2001 e il 2021 la quota di emigrati meridionali con elevate competenze (in possesso di laurea o titolo di studio superiore) si è più che triplicata, da circa il 9 a oltre il 34%.

La Svimez stima che nel 2022, per la prima volta nella storia delle migrazioni interne italiane, la quota di laureati sul totale degli emigrati meridionali supererà quelle relative a titoli di studio inferiori. Dei 460.000 laureati che si sono trasferiti dal Mezzogiorno al Centro-Nord tra il 2001 e il 2021, si stima che circa 130.000 erano in possesso di una laurea Stem. Nel solo 2021 circa 9.000 laureati che hanno lasciato il Mezzogiorno (su un totale di 27.000) possedevano competenze Stem: un terzo dell’investimento meridionale in competenze scientifiche e tecnologiche si è “disperso” a favore dei sistemi produttivi diversi da quelli insediati al Sud.

Per la Svimez, poi, il Mezzogiorno ha un ruolo chiave nelle filiere strategiche, grazie a quelle imprese «posizionate sui vari segmenti delle catene del valore “strategiche”, che si contraddistinguono per performance economiche particolarmente soddisfacenti. Si tratta di imprese che soddisfano i requisiti della “Smart Specialization Strategy” (S3), condizione abilitante da rispettare a livello di Paese per l’accesso ai fondi FESR che finanziano progetti in ricerca e innovazione. Un terzo delle imprese meridionali con oltre 10 addetti (circa 90 mila su 265 mila imprese) sono S3 (dati Istat, 2018-2019)».

Le principali filiere di appartenenza interessano, in termini di quota di valore aggiunto sul totale delle imprese S3 meridionali, il comparto “energia e ambiente” (13%), l’agroalimentare (10%), la chimica verde e il “made in Italy” (con quote pari in entrambi i casi al 7%) e l’aerospazio (5,8%). Complessivamente, le imprese S3 meridionali assorbono circa il 44% degli addetti e il 53% del valore aggiunto dell’area; sono responsabili del 78% dell’export e rappresentano la maggioranza delle imprese che investono in R&S (76%), digitalizzazione (71%) e internazionalizzazione (83%), oltre ad essere più aperte a collaborazioni esterne: il 66% delle imprese che collaborano con le Università è S3. La produttività media di una S3 raggiunge i 43.834 euro, il 20% in più rispetto alla media dell’area. I valori più elevati si osservano nelle filiere dell’aerospazio (56.983 euro), fabbrica intelligente (54.613 euro) ed “energia e ambiente” (51.991 euro), ambiti di specializzazione particolarmente funzionali alla massimizzazione delle opportunità offerte dalle transizioni gemelle (digitalizzazione e transizione sostenibile).

Per l’Associazione, infine, diventa fondamentale «rimettere in gioco l’industria del Sud» e questo perché «il Mezzogiorno ricopre un ruolo di primaria importanza in alcuni ambiti tecnologici e produttivi. Tra le “punte di diamante” del Mezzogiorno, rientra l’esperienza 6 siciliana dell’Enel-3Sun specializzata nella produzione di pannelli fotovoltaici di ultima generazione, così come è da evidenziare il dinamismo dei distretti dell’aerospazio in Campania e Puglia, tra i comparti più tecnologicamente avanzati del manifatturiero».

«L’agroalimentare meridionale, settore dalla duplice matrice agricola e industriale, si è mostrato particolarmente attivo sotto il profilo dell’accesso ai mercati esteri: +81% l’export dell’agrifood del Sud tra il 2014 e il 2022, contro una media del +61% dell’export complessivo dell’area. Ampliare e integrare le filiere produttive strategiche a elevato contenuto di innovazione nel Mezzogiorno significa contrastare fattivamente la fuga di competenze, trattenendo e attirando lavoratori altamente qualificati per realizzare processi di innovazione, ammodernamento produttivo e internazionalizzazione.

Per questa via si creano posti di lavoro “di qualità” e a maggiore retribuzione. Questa operazione necessita di un quadro di policy sistemico, organico e prospettico volto a sostenere e qualificare l’offerta produttiva del Mezzogiorno anche mediante strumenti di politica industriale complementari e selettivi: Contratti di sviluppo (CdS), Zone Economiche Speciali (Zes), Fondi per l’internazionalizzazione, Accordi di Innovazione. I CdS, che finanziano grandi investimenti industriali nel Sud, appaiono uno strumento particolarmente attrattivo per le imprese: secondo i dati aggiornati di Invitalia, nel periodo 2012-22 sono state presentate domande per complessivi 27 miliardi e finanziati progetti per 4,5 miliardi di agevolazioni che hanno attivato un totale di 12,3 miliardi di investimenti. Mancherebbero all’appello 51,6 miliardi di investimenti potenzialmente attivabili nella misura in cui tutte le domande in fase di istruttoria venissero ammesse.

Anche lo strumento della Zes, concepito come “area di vantaggio” nella quale la riduzione dei costi di transazione genera effetti agglomerativi verticali (di filiera) e orizzontali (intrasettoriali), risulta un efficace strumento di politica industriale per sostenere i processi di industrializzazione e di cambiamento strutturale. Lo strumento prevede un pacchetto di agevolazioni fiscali, incentivi e misure di alleggerimento burocratico per le imprese insediate.

Nell’esperienza internazionale, l’efficacia dello strumento è stata agevolata dal contesto economico e istituzionale: forte commitment politico, amministrazioni efficienti, buona dotazione infrastrutturale, politiche sociali di accompagnamento, presenza di sistemi di innovazione locali, identificazione delle vocazioni industriali. (ams)