di FRANCO CALABRÓ
Cannitello è un borgo marinaro incantevole, con piccole case affacciate direttamente sullo Stretto di Messina. Oggi offre un bel lungomare da cui si possono osservare le isole Eolie e, con particolari condizioni atmoferiche, il fenomeno della Fata Morgana, quella sorta di miraggio che fa apparire la costa messinese sollevata sulle acque. Un fenomeno di rifrazione ottica, tramandato dai normanni, che avrebbe preso il nome dalla fata celtica che creava visioni fantastiche ai marinai per attrarli in un abbraccio mortale.
Secondo la tradizione popolare di Cannitello, la Fata Morgana apparve a un re barbaro che guidava l’invasione nelle coste calabresi e che, vedendo la vicina Messina specchiarsi nelle acque, voleva raggiungerla pur non disponendo di imbarcazioni. La leggenda racconta che la Fata Morgana fece apparire l’isola vicinissima e il re si tuffò convinto di raggiungerla a nuoto. Invece affogò e l’invasione barbarica ebbe fine.
Domina sulla spiaggia di Cannitello il Pilone del vecchio elettrodotto che si erge per 224 metri sulla collina di Santa Trada e che ha il suo gemello sulla costa opposta a Torre Faro.
A Santa Trada quello che era una fortezza costruita da Gioacchino Murat nel 1810 oggi è diventato un complesso alberghiero molto bello che offre panorami inimitabili.
Della presenza di Murat a Villa San Giovanni rimane un cannone della batteria che il re di Napoli aveva fatto installare nei quattro mesi di accampamento.
Queste acque sono ricche di storia: punto strategico della cosiddetta Colonna Reggina nel periodo della Magna Graecia, nel 36 a.C. fu anche teatro della battaglia navale tra Ottaviano e Sesto Pompeo che avrebbe garantito al futuro imperatore Augusto il dominio sul mare.
Nel mare di Porticello sono stati rinvenuti preziosi reperti greci, oggi presenti nel Museo Archeologico di Reggio Calabria tra cui la testa del Filosofo e la cosiddetta Testa di Basilea (V Sec. a.C.). Quest’ultima è detta così perché era stata acquisita dal museo di quella città da un trafugamento illegale ma poi venne restituita al Museo Archeologico di Reggio.
Certamente, non tutto è come vorresti che fosse e ti piange il cuore quando vedi la magnifica darsena turistica in costruzione ormai ferma da anni, che avrebbe portato barche di lusso, ricchezza, possibilità di far conoscere al mondo intero queste bellezze. Cannitello diventa un puntino sulla carta geografica e pensi a quanti questo spettacolo quotidiano dello Stretto che cambia di colore se lo perdono. L’uomo ha fatto più danni dei conquistatori e dei pirati saraceni che costringevano gli abitanti d’allora a rifugiarsi sulle montagne e a vivere con la paura, scrutando dalle torri d’avvistamento ogni cosa si muovesse nell’acqua.
Quello per Cannitello, come tutti i grandi amori, non è stato il classico colpo di fulmine, ma è partito da lontano, esattamente intorno al 2001 quando, su consiglio di un amico, instancabile passeggiatore, cominciai a frequentarne il lungomare. Poi divenne un’abitudine quasi quotidiana, mi piaceva respirarne l’aria frizzante del mattino, le ore languide del tramonto, tra le luci di Messina riflesse nelle acque dello Stretto.
Quando mi sono trasferito a Roma è stata la cosa che più mi è mancata e ho cercato invano il surrogato nei luoghi estivi dei romani da Ostia a Fiumicino, da Nettuno a Sabaudia, fino all’Argentario, tutti posti bellissimi, come ad esempio il Circeo, ma c’era un qualcosa che solo a Cannitello mi faceva trovare il giusto equilibrio tra i sentimenti. E un giorno sono tornato: dopo un viaggio in auto di sette ore, uscii direttamente a Villa, uno di quei giorni che non è più inverno ma non è ancora primavera e ricordo che mi fermai lungo la vecchia statale, e ancora una volta mi si parò davanti agli occhi uno spettacolo incomparabile, mare d’un azzurro che neppure il più grande artista riuscirebbe a ripetere, la scia dei traghetti che, giorno e notte, solcano lo Stretto, avanti e indietro, con il loro carico di sogni della gioventù, di speranze in un futuro diverso, quanta vita è passata. La mia ormai non era più la classica infatuazione, era amore vero, e mi misi a cercare una casa.
Da qualche anno, nei miei ritorni calabresi, purtroppo sempre meno frequenti, ho scelto di vivere tra la strada, la ferrovia, che come un brutto serpente d’acciaio taglia in due il paese, e il mare: da un lato il lungomare, con lo sguardo lo segui fino al porto di Villa, dall’altro il sovrastare della rocca di Santa Trada, col forte dal quale partivano le cannonate contro le navi che portavano le camicie rosse garibaldine alla conquista dell’Italia.
Ci sono momenti, nelle prime ore del mattino, mentre tutto intorno è silenzio e qualche barca di pescatori fa ritorno dopo una notte a tirar su le reti, questo mare sembra stanco di sciabordare tra una costa e l’altra, senza fermarsi mai, ora lento, ora con onde più veloci, questo tratto che da anni si tenta di congiungere col ponte dei sogni racconta tante storie. Da qui sono passate le navi fenicie, quelle greche, le romane cariche di soldati o di schiavi portati dalle colonie di un impero dove il sole non tramontava mai. Mi piace, a Porticello, nel villaggio dei pescatori, osservare qualche anziano che ripara le reti o intreccia, con un’arte antica, i rami di vimine da cui nascono le nasse, terribili trappole per gamberi e polipi. I racconti, tramandati da padre in figlio e dai nonni ai nipoti, mischiano, tra il serio e l’inverosimile, la leggenda e la realtà. E si parla di mostri marini, della “caccia” al pesce spada, mentre sulla feluca, un uomo arrampicato sull’albero maestro, è pronto a dare il segnale al compagno armato di fiocina. Quando il maschio, col fianco squarciato, si dibatte negli spasimi della morte, la femmina che fino a qualche minuto prima con lui divideva la danza dell’amore, emette dei suoni che ricordano le litanie delle donne di Bagnara, quando si piange la perdita d’una persona cara.
Quanta vita, quanta storia, tra gli spruzzi di schiuma di un veloce motoscafo, il rombo cupo delle macchine che spingono gigantesche navi porta container, migliaia di tonnellate, arrivano qui da ogni parte del mondo, uno spettacolo che si ripete ad ogni ora, il mito di Ulisse rivive in tutti coloro che hanno avuto la grazia divina di vivere qui, dove i primi contrafforti dell’Aspromonte incombono e, quando arriva la neve, puoi sciare guardando, quasi a poterlo toccare, il mare, la costa viola, Chianalea e, appunto, Cannitello, col suo particolare fascino che ha fatto innamorare non solo me, che mi sento ormai parte di un luogo che ti fa fare pace con te stesso, nella quiete invernale e anche nella gioiosa confusione estiva, quando gli emigrati tornano e s’incontrano sulla spiaggia con i parenti e gli amici che qui sono rimasti. Loro sono andati altrove per cercare lavoro e fortuna e magari l’hanno trovata, ma leggi nei loro sguardi, quando s’avvicina la partenza, la tristezza del rimpianto, e io mi sento anche come uno di loro.
L’AUTORE
Franco Calabrò è giornalista professionista, scrittore e autore del libro “Il Mestieraccio” (Media&Books, 2017). Reatino di nascita da padre calabrese, ha trascorso gran parte della sua vita professionale in Calabria. Vive a Roma.
Il brano è tratto dal libro “Scopri Villa” di Santo Strati (Media&Books)