COME CAMBIERÀ LO SCENARIO DEI SEGGI ELETTORALI QUANDO ENTRERÀ IN VIGORE LA MODIFICA COSTITUZIONALE;
LA VOTAZIOEN ALLA CAMERA DELL'8 OTTOBRE 2019

Passa alla Camera il taglio dei parlamentari. Alla Calabria toccano 13 deputati e 7 senatori

di SANTO STRATI – Ha vinto il populismo più bieco, quello che vuol far passare i parlamentari come fancazzisti e svogliati frequentatori del Palazzo: la riforma costituzionale che taglia 345 tra deputati (saranno 400 al posto di 630) e senatori 200 (al posto di 315) è stata votata quasi all’unanimità alla Camera con 553 sì, 14 no, 2 astenuti. Non è un bel regalo alla democrazia rappresentativa che vede ridursi solo il numero dei parlamentari, ma tiene in piedi una legge elettorale che è un bel pastrocchio. E a pagare saranno ovviamente le regioni più deboli: la Calabria dovrà fare a meno di dieci tra deputati (-7) e senatori (-3), da 30 passeranno in tutto a 20. Ancora peggio la situazione dei seggi all’estero: prima erano 12 deputati e 8 senatori, diventano rispettivamente 8 e 4. Con un risparmio risibile (0,06%, pari a poco meno di 100 milioni di euro) che apparentemente è la motivazione primaria ad avere spinto i Cinque Stelle a imporre il provvedimento, a fronte del rischio di tenuta del governo. Di sicuro non ha vinto Di Maio e la sua ideologia contro il Parlamento, ma, probabilmente, ha perso l’Italia che crede nella democrazia della rappresentanza parlamentare costituzionalmente garantita.  Il rischio dell’avanzare delle élites è fin troppo evidente: molti parlamentari non troveranno spazio (salvo i magici pescaggi premiali della piattaforma Rousseau), altri penseranno che sarà impossibile gestire in modo adeguato il “rapporto” col collegio. Troppo ampio, con una dispersione di forze e un dispendio di energie (e di risorse economiche) che solo pochi potranno permettersi: 1 deputato ogni 151.20 abitanti (oggi 96.006), 1 senatore ogni 302.420 abitanti (oggi 188.424). E se passerà la legge del voto ai sedicenni, il rapporto elettori-eletto sarà ancora più dilatato, allontanando ancor di più il popolo dalla politica, a svantaggio delle minoranze. Tutto questo grazie alla deriva antiparlamentare di Di Maio e partners che, probabilmente, serve soltanto a far da collante coi delusi del Movimento, nel momento in cui sono in tanti a rivedere le proprie convinzioni pentastellate.

Così i dem, con la lacrimuccia di rito, «prima non eravamo convinti – ha detto compunto Graziano Del Rio nella dichiarazione di voto – ora diciamo di sì perché sono state accolte le nostre ragioni», hanno votato compatti, turandosi il naso per compiacere l’alleato di governo, giustificando la scelta come primo passo per  «riforme e garanzie precise, frutto di un lavoro serio e di una sintesi efficace». Roberto Giachetti (Italia Viva) si è discolpato del voto favorevole del suo gruppo, annunciando che un minuto dopo l’approvazione sarebbe passato all’attacco di un provvedimento che così com’è certamente non va. E il segretario Nicola Zingaretti ha rincarato la dose con un entusiasmo inspiegabile: «Oggi abbiamo deciso di votarlo tenendo fede al primo impegno del programma di Governo». In poche parole, buoni tutti o salta il banco.

E i “vecchi” politici hanno dovuto incassare la mortificazione di vedere un provvedimento anti-casta spacciato per “riforma istituzionale improrogabile”, quando della vera riforma auspicata, quella per la governabilità, nemmeno s’intravede un minimo tratto. Anche il centro-destra, però, non si è tirato indietro: dopo il bel discorso del vicecapogruppo Roberto Occhiuto i forzisti si aspettavano una decisa opposizione e, invece, c’è stato un rassegnato “volemose bene” che in tanti non hanno mostrato di digerire. Per non parlare di Lega e della Meloni: dai loro banchi è venuta persino la rivendicazione di essere stati tra i primi a volere la riduzione dei parlamentari. Come se, al posto della Costituzione, si trattasse (copyright di Carlo Calenda) di “un regolamento di condominio”. Un voto sorprendente e inaspettato, ma non chiamatelo trasversale: agli storici il compito di capire cosa ci sta dietro questa improvviso colpo di follia (suicidio di massa?) che, di fatto, ha delegittimato, vergognosamente, tutto il lavoro dei parlamentari.

La nuova legge non va, (e non lo diciamo noi, ma fior di costituzionalisti), perché in assenza di una legge elettorale che chiarisca i contorni del proporzionale e del maggioritario, rischia di provocare seri disastri e di produrre nuove situazioni di ingovernabilità. La vera “porcata” (permetteteci il termine) è, però, un’altra: aver fatto passare un’idea becera di un Parlamento inutile e sovraffollato da una “casta” che persegue solo privilegi e guarentigie a danno del popolo. Anche la chiassosa e miserevole manifestazione in piazza Montecitorio di Luigi di Maio & Co. davanti al portone della Camera, dopo l’approvazione del provvedimento, (davanti a pochissimi “odiatori” della casta) ha fatto ripensare alla pagliacciata dell’affacciata al balcone di Palazzo Chigi di alcuni mesi fa. Siamo caduti nel ridicolo totale, ma il guaio è che nessuno lo fa più notare.

Ridurre il numero parlamentare non è, comunque, un’idea originale dei grillini: a più riprese, dopo la revisione costituzionale del 1963 che determinava il numero fisso dei parlamentari (e non più in rapporto alla popolazione), è stata in più occasioni portata avanti da destra e da sinistra, senza una vera specifica finalità. I grillini se ne sono riappropriati, nell’ambito della controffensiva anti-casta, il 12 luglio 2018 con l’audizione del ministro per i Rapporti con il Parlamento Riccardo Fraccaro (oggi sottosegretario della Presidenza del Consiglio) e con la nota di aggiornamento al Documento di economia e Finanza (DEF) del 2018. In esso si indicava, nel programma di riforme istituzionali da attuale, la necessità di intervento per ridurre il numero dei parlamentari. Il 10 ottobre dello scorso anno il Senato ha avviato l’esame di tre proposte di legge costituzionale di iniziativa parlamentare che si sono poi trasformate nella proposta di legge costituzionale 1585, quella che ieri ha ricevuto l’ultimo voto necessaria per la ratifica. L’assemblea del Senato – per la cronaca – in prima deliberazione aveva espresso il 7 febbraio 2019 (governo a maggioranza giallo-verde) 185 voti favorevoli, 54 contrari e 4 astenuti. La Camera, il 9 maggio ha licenziato il provvedimento con 310 sì, 107 no e 5 astenuti. Al Senato, in seconda deliberazione il 10 luglio (poco prima della crisi di governo) sono stati 180 favorevoli e 50 contrari.

Perché questa legge non convince i costituzionalisti che, con unanimi dissensi, hanno sottolineato l’inefficacia del provvedimento? Mancando una vera riforma elettorale propedeutica al taglio dei parlamentari si rischia di provocare insanabili guasti di natura istituzionale. Se, per ipotesi, la legislatura non arrivasse alla fine naturale, come si svolgerebbero le elezioni? Con l’attuale legge, che – abbiamo visto – sancisce in modo netto l’ingovernabilità? Gli unici a gioire sono i cosiddetti peones che vedono allontanarsi, in questo modo il rischio di fine anticipata della legislatura e soprattutto la salvaguardia del diritto al vitalizio, visto che eventuali iniziative contrarie alla legge avrebbero una tempistica lunga che farebbe scattare la rendita garantita: 4 anni, sei mesi e un giorno.

L’art. 138 della Costituzione, in casi come questo, ovvero di revisione costituzionale, prevede che entro tre mesi (ossia il 7 gennaio) è possibile proporre un referendum confermativo del provvedimento: a chiederlo devono essere 500mila elettori o un quinto dei componenti di una delle due Camere, o cinque consigli regionali. In questo caso il referendum non potrebbe tenersi prima di di maggio-giugno e, in caso di risultato positivo che conferma la legge, il Governo avrebbe diritto a 60 giorni (come prescrive la legge delega n. 51 del 2019) per ridisegnare i collegi elettorali. A conti fatti si arriva a settembre-ottobre e solo qualche parlamentare incosciente potrebbe decidere di fermare la legislatura e rinunciare al vitalizio.

Certo, in caso di referendum, vista l’impostazione anti-casta che è stata data al provvedimento difficilmente verrebbe meno la conferma. Quindi la legge costituzionale C 1585 volenti o nolenti ce la teniamo, alla faccia della rappresentanza parlamentare, mortificata e trattata poco onorabilmente dall’insana furia grillina. Il guasto non è la riduzione dei parlamentari (che in un contesto di seria riforma costituzionale ci potrebbe anche stare), è aver alimentato il falò della diffidenza e del risentimento (in pochissimi casi più che giustificato, diciamo la verità), nei confronti dei rappresentanti del popolo che legittimamente (sono stati eletti) siedono in Camera e Senato. Nessuno di loro è “abusivo” o può essere, in modo raccogliticcio, indicato al pubblico ludibrio, mescolando comportamenti serissimi e ammirevoli (ce ne sono!) a pochi emendabili atteggiamenti (di cui deve occuparsi la magistratura). Non è una difesa d’ufficio della “casta” ma l’esigenza di sottolineare il dovuto rispetto a organi costituzionali, eletti secondo le norme della nostra Carta. Non crediamo che per la stragrande maggioranza degli italiani, alle prese con ben altri problemi di natura economica e di futuro per i propri figli, la seduta di ieri abbia rappresentato – come ha pomposamente chiosato Luigi Di Maio – “una data storica”. È un giorno triste per la nostra Repubblica, la cui sovranità appartiene al popolo, come si legge nel dettato costituzionale, ma non ha assolutamente un animo populista né tanto meno sovranista. (s)