Il viaggio come ricerca di sé in Omero e Pirandello e… nei naufraghi del nostro tempo

di ANNA MARIA VENTURATerribili e inquietanti i tempi che stiamo vivendo. Mutamenti climatici ormai in atto stanno modificando i modelli meteorologici e sconvolgendo il normale equilibrio della natura. Questo comporta molti rischi per gli esseri umani e per tutte le altre forme di vita sulla Terra. Una guerra nel cuore dell’Europa per giorni e notti, senza fine, continua a seminare stragi e violenza sovrumana. Il terribile terremoto che ha colpito la Siria e la Turchia ha causato migliaia di vittime e la distruzione di un’area vasta e popolosa. Le immagini di questa tragedia sono sotto i nostri occhi in questi giorni e mostrano la sofferenza di popolazioni già colpite da 12 anni di guerra. Non possiamo rimanere indifferenti.

La sofferenza ci attanaglia e fa crescere le nostre incertezze e fragilità. Ci sentiamo impotenti e paradossalmente affiora il bisogno di cercare un altrove, dove placare le ansie che derivano da un presente infuocato. Ed ecco affiorare il desiderio del viaggio, come ricerca di un luogo altro e come ricerca di un “sé” che si teme di perdere nella contingenza del martoriato presente.

In verità, il viaggio attraverso i paesi del mondo è per l’uomo sempre anche un viaggio simbolico: ovunque vada è la propria interiorità che sta esplorando, è solo viaggiando che darà voce ad una parte di sé che chiede di venir fuori. Colui che viaggia ha a bordo solo se stesso: portiamo con noi solo la casa della nostra anima, come fa una tartaruga con la sua corazza, perché da se stessi non si può fuggire.

Viaggiare significa, allora, sconfinare nell’insolito, nel non conosciuto, perdere i punti di riferimento, uscire dal tempo e dallo spazio della quotidianità, alla ricerca di un infinito.

Gli antichi Greci avevano dato un nome e un volto alle essenze archetipiche del viaggiare umano: Ulisse, Demetra, Perseo, Giasone, Ercole portano ancora oggi, dopo quasi tre millenni, alcuni semi di riconoscibilità all’orecchio della nostra psiche. Non c’è mito, tra questi, che non trovi pertanto in noi risonanza: il suo inesauribile contenuto spinge al viaggio, che è partenza, purificazione, disorientamento, oscurità, incontro con lo sconosciuto, enigma, passione, trasformazione, nonché conoscenza ed oblio.

Dunque, il viaggio chiede di spogliarsi, di lasciare la zavorra che fu prima ritenuta necessaria, di abbandonare certezze presunte tali, di arricchirci di ignoto, di nutrirci di passione, di farci raggiungere dagli dei sotto mentite spoglie anch’essi provvidi nel donare e nel sottrarre. Conducendoci tra rovine ed eccellenze, tra spazi sconfinati e miniature pregiate, tra incontri ed abbandoni, il viaggio testimonia da dove e verso cosa l’esistenza è guidata: nel risuonare dei nostri modi e ritmi di viaggiare potremo scoprire elementi alleati ed ostili, recuperare come quid prezioso anche ciò che appare insignificante, un gesto, una parola, un incontro… Ciò alimenterà il nostro immaginario, espanderà un poco la nostra coscienza mitica, feconderà ulteriormente l’humanitas di cui siamo profondi debitori verso la Psiche poetica dei Greci.

La metafora del viaggio come ricerca di sé e conoscenza richiama immediatamente  la figura dell’eroe classico Ulisse, protagonista  dell’Odissea di Omero. Quando Ulisse intraprese il viaggio che lo avrebbe dovuto riportare a casa, al termine della guerra di Troia, di sicuro non avrebbe mai immaginato a quali peripezie sarebbe andato incontro.

A tutti, infatti, sono note le avventure che l’eroe greco, assente da Itaca da oltre dieci anni, ha dovuto affrontare, non solo per ritornare nella sua patria, ma anche per riprendere possesso del proprio regno, ormai, in balia della rapacità dei Proci.

E a questo fine potrebbero essere volte le mille prove che Ulisse deve superare affinché possa approdare in quel porto sicuro che, più che un luogo fisico, è un’enclave affettiva dove cardini sono: la moglie Penelope, pressata dalla corte affinché prenda in sposa uno dei Proci e dia, dopo dieci anni, un nuovo re ad Itaca, ma anche il figlio Telemaco, il quale, pur avendo un ricordo sbiadito del genitore, partito per la guerra quando lui era solo un fanciullo, serba sempre intatta la speranza di ritrovare quel padre, ormai, assente da troppi anni.

Possiamo definire Il poema dell’Odissea il più significativo modello della narrazione di viaggio, che sia peregrinazione, tensione verso l’ignoto ed, insieme, consapevolezza di sé. Attraverso straordinarie avventure, l’eroe diviene esperto del mondo, dei valori e dei vizi umani ed acquista virtù e conoscenza. Raggiunge regioni remote. Percorre strade inesplorate, incontra civiltà sconosciute, combatte creature mostruose e sopravvive ad arcani prodigi. Il suo itinerario disegna l’avventura, ma traccia anche un percorso conoscitivo, la conoscenza di sé.

I viaggi di Ulisse, anche se imposti dalla persecuzione di Nettuno, includono una componente di sfida intellettuale, di audace sete d’esperienza, di desiderio di conoscere. Le difficoltà sono affrontate per avere una conferma della propria dignità; esse mettono alla prova, esaltandole, le virtù dell’eroe, la sua intelligenza e la capacità di superare gli ostacoli. Nel viaggio, l’eroe resta sempre uguale a se stesso le esperienze lo arricchiscono, ma non lo cambiano; acquista consapevolezza di sé.

Ulisse si può considerare come il viaggiatore per eccellenza, il simbolo stesso dell’andare per mare e per terra in un peregrinare che è punizione, ma è anche esaltazione di sé.

Un viaggio (Nostos) lungo e non privo di pericoli divenuto, in seguito, vero e proprio emblema dell’approdo, simbolo di una partenza e di un ritorno più che fisici mentali.

Da questo punto di vista, il viaggio, viene inteso come metafora del vivere, come punto di convergenza di diverse correnti della vita e soprattutto come predisposizione mentale al conoscere e allo scoprire, assaporando di volta in volta la bellezza dell’esperienza. 

Non è un caso, infatti, che il viaggio di Ulisse si compia per mare, elemento impervio e misterioso ma anche fonte di vita e di riflessione, così come non è assolutamente per mero gusto del fantastico che i pericoli incontrati dall’eroe, lungo la sua traversata, siano soprattutto di natura fantastica.

La presenza del meraviglioso, infatti, sta a simboleggiare proprio il conoscere ciò che si riteneva inesistente ed estraneo, ed è proprio questa “ossessione” di Ulisse per la sperimentazione e per la conoscenza che porterà Dante Alighieri, nella Divina Commedia, a “punirlo”, inserendolo nel girone infernale dei consiglieri di frode.

In una sorta di excursus sulle vicende post-ritorno il poeta, infatti, racconta di come Ulisse e i suoi compagni, dopo un periodo relativamente breve di stabilità decisero di partire alla volta delle colonne d’Ercole ( Stretto di Gibilterra) dove, secondo la mitologia, sarebbe terminato il mondo sino ad allora conosciuto.

 Quando Dante, attraverso Virgilio, l’unico in grado di parlare la lingua d’Ulisse, chiede all’eroe il perché di questa impresa che sapeva essere altamente pericolosa e gli rammenta che, ad Itaca, possedeva già tutto ciò di cui aveva bisogno, Ulisse, in modo emblematico risponde:

“Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza” (Divina Commedia vv. 118-120).

Rimarca in questo modo quello che, secondo uno dei più affascinanti eroi classici , è l’unico scopo della vita: il conoscere per non abbrutirsi, per non restare bloccati a quello stato primitivo fatto di solo istinto.

Un viaggiare, quello di Ulisse, che nella storia è servito da ispirazione, inteso, quindi, non in senso geografico ma soprattutto spirituale e filosofico. Un peregrinare alla ricerca di ciò che la vita può riservare, di ciò che di nuovo l’esperienza e il mondo possono insegnare e che diviene vero e proprio emblema della conoscenza intesa nella più alta delle accezioni.

Il tema del viaggio caratterizza anche la narrativa pirandelliana. In questa ci sono alcuni personaggi, i cosiddetti “viaggiatori immaginari’’, che proiettano sulle rotte di un viaggio una loro dimensione diversa. Luigi Pirandello dedicò gran parte della sua ricerca letteraria alla questione dell’identità umana più profonda del personaggio. Le sue storie, infatti, raccontate nei romanzi, nelle novelle e nel teatro, non si limitano mai a descrivere una situazione o un passaggio storico, sociale, culturale, ma sempre scavano nella profondità dell’uomo che vive tale situazione, che affronta tale passaggio.

L’importanza di riuscire a raccontare quel che si muove dentro l’uomo, oltre quanto una maschera nasconde e verso ciò che il volto rivela, viene sintetizzata dallo scrittore d’Agrigento nella premessa ai Sei personaggi in cerca d’autore del 1925, laddove Pirandello si annovera tra gli scrittori che sentono un più profondo bisogno spirituale, per cui non ammettono figure, vicende, paesaggi che non si imbevano, per così dire, di un particolare senso della vita.

La ricerca sull’identità umana del personaggio, dunque, si costruisce attraverso una dialettica se vogliamo dissacrante: il personaggio, infatti, come un eterno viaggiatore, nella sua ricerca di quell’io perduto tra le forme grottesche che la società gli impone, come maschere sul volto, maschere ogni volta diverse, in base alle circostanze in cui si trova a vivere, sotto le quali si sente soffocare come in una «marsina stretta», è costretto a una dialettica costante che metta in crisi quell’accordo logicamente ordinato, ossia i falsi idoli o, per dirla pirandellianamente, quelle forme o convenzioni imposte dalla società. 

I personaggi pirandelliani sono continuamente tormentati, se non agitati dal conflitto interiore che si anima tra quel che sentono dentro e quanto, invece, la società impone loro. Tanto che, nel tentativo di illudere queste dinamiche sociali, vissute come opprimenti e castranti, si attiva tra le pagine una dialettica vivacissima, la quale trascina il personaggio verso una progressiva e radicale trasformazione. E, alla fine, quella lotta tra il «piccolo me e il gran me» che lo coinvolge quotidianamente, riga dopo riga, alla quale lui non si sottrae mai mettendovi in gioco tutto se stesso, lo trasforma in definitiva in un piccolo eroe moderno, alla ricerca di un’identità diversa, inedita e insieme originaria.

La ricerca di un’identità più autentica, spontanea, più corrispondente a quell’io ideale che tutti abbiamo dentro e che si rischia di perdere tra le maglie soffocanti delle relazioni quotidiane, torna con l’energia di un fiume carsico tra le pagine dello scrittore siciliano, fiume che scorre in ogni uomo e che sostanzia la nostra natura di esseri umani: «un flusso continuo, dice lo scrittore, che noi cerchiamo di arrestare, di fissare in forme stabili e determinate, dentro e fuori di noi ,soprattutto  dentro  noi stessi, in ciò che noi chiamiamo anima e che è la vita in noi, il flusso continuo, indistinto, sotto gli argini, oltre i limiti che noi imponiamo, componendoci una coscienza, costruendoci una personalità»

Il personaggio pirandelliano si presenta allora come un eroe coraggioso, intrepido, poiché non si rassegna ad un destino di mediocrità disegnato dal ruolo che la società gli impone affinché tutto rimanga uguale; ma, allo stesso tempo, vive questa sua rivolta con profondo tormento, a volte terrorizzato dall’idea che questo nuovo io, questi «palpiti di luce» che lui sente vibrargli dentro appena si sposta dall’accordo ordinato delle cose, siano solo momenti fugaci, illusori, pronti a polverizzarsi al prossimo giro di volta o che, peggio ancora, separandosi da quelle relazioni entro le quali si vedeva soffocare, rischi poi di non ritrovarsi, scoprendo che sotto quelle maschere di lui non è rimasto più niente.

  Tutto ciò si evince da novelle come Il viaggio”, “La carriola”, “Il treno ha  fischiato” e  romanzi come  “Il fu Mattia Pascal “, “Uno nessuno centomila”, “Sei personaggi in cerca d’autore”, dove si descrivono gli itinerari reali o immaginari  di uomini e donne in fuga dal presente e dalla quotidianità alla ricerca di una nuova  e più autentica  identità. 

Il protagonista della novella “La carriola”, di ritorno da Genova per un viaggio di lavoro, si ritrova a vivere  sensazioni di intenso lirismo nell’ammirare il paesaggio che gli si apre fuori dal finestrino del treno sul quale sta viaggiando:

“Lo spirito mi s’era quasi alienato dai sensi, in una lontananza infinita, ove avvertiva appena, chi sa come, con una delizia che non gli pareva sua, il brulichio d’una vita diversa, non sua, ma che avrebbe potuto esser sua, non qua, non ora, ma là, in quell’infinita lontananza; d’una vita remota, che forse era stata sua, non sapeva come né quando; di cui gli alitava il ricordo indistinto non d’atti, non d’aspetti, ma quasi di desideri prima svaniti che sorti; con una pena di non essere, angosciosa, vana e pur dura, quella stessa dei fiori, forse, che non han potuto sbocciare; il brulichio, insomma, di una vita che era da vivere, là lontano lontano, donde accennava con palpiti e guizzi di luce; e non era nata; nella quale esso, lo spirito, allora sì, ah, tutto intero e pieno si sarebbe ritrovato.”

Leggendo queste parole, torna alla memoria l’eco de L’infinito di Leopardi: l’espressione «lo spirito mi s’era quasi alienato dai sensi» sembra riassumere il senso più profondo del verso leopardiano «io nel pensier mi fingo», ossia lo spazio, limitato visivamente da quanto l’occhio riesce a vedere, appare al protagonista infinito, in virtù dell’immaginazione che lo porta a illudere i limiti del panorama che gli si apre di fronte, tanto che alla sua vista si concedono «interminati spazi» e, in quell’illusione, il suo pensiero si finge, cioè fa sua quell’infinità, moltiplicando a dismisura le sue possibilità immaginative.

Il protagonista della novella presa in considerazione illude i limiti della natura che si trova ad esplorare, immaginando quegli spazi come se fossero sterminati, attraverso un processo chiaramente illusorio che lo porta ad alienare sullo spazio tutto quel che sente dentro. Pirandello, dunque, ricrea sullo sguardo del suo personaggio il senso dell’infinito che sprigiona mirando l’“oltre”, ossia lo spazio che si apre dietro i limiti di quanto l’occhio fisicamente riesce a vedere.

Lo scrittore d’Agrigento, così facendo, mette alla prova il protagonista de “La carriola”, così come altri protagonisti di novelle e romanzi, personaggi comuni, quotidiani, ossia «la gente più scontenta del mondo» , stimolandoli a cercare tutto quel che «il guardo esclude»  . Non solo li allontana dal loro contesto, ma li costringe a curiosare su quell’oltre, su quell’altrove indefinito, che affascina e immediatamente spaventa. Ed è l’attrazione verso questo altrove indefinito, verso lo sconosciuto, il vero motore della dialettica che muove il flusso continuo, il fiume carsico, fulcro del pensiero pirandelliano. Detto in altri termini, il coraggio di chi lotta contro il congegno ordinato delle cose viene supportato da un processo di pura fantasia, poiché la possibilità di rendere la propria vita diversa si basa su una certezza illusoria che esista una diversità, di cui non si conoscono connotati e forme, pur avendo la certezza che tutto ciò da qualche parte ci aspetta.

Per questo i personaggi pirandelliani sono tormentati, perché sanno che oltre i limiti, di là dalle forme e dai falsi idoli, esiste un’altra realtà. Loro sanno che la loro vita potrebbe essere diversa, ma lo sanno fino a quando possono ancora immaginarla diversa, ossia fino a quando è rimasta in loro ancora un po’ di quella fantasia, di quella magia, il lanternino che è acceso in tutti noi da bambini, che ci consente di formulare un’immagine su quel che è stato e che, nostro malgrado, non è più, essendo la fantasia «un’ attività dell’uomo per la quale egli fa di ciò che non è, che non è più, che è scomparso, che si è allontanato, un qualcosa che è una immagine non materiale, una memoria» .

Luigi Pirandello nella sua vita di scrittore cercò in vari momenti di inseguire la fantasia e di rappresentarla, ricerca che nutrì l’intera sua carriera. Se la fantasia si spegne, l’uomo impazzisce. Se ce ne è ancora troppo poca, è più facile adagiarsi alla mediocrità. Se invece si ha la forza di lottare contro i falsi idoli, i concetti, vuol dire che di fantasia ce ne è ancora tanta, vuole dire che è ancora viva quell’ «immagine non materiale, una memoria».

 Pirandello usa l’infinito più che come concetto astratto, come aggettivo per descrivere la lontananza. Scrive: «l’infinita lontananza». Quegli spazi, infatti, non sono solo sterminati, ma sono soprattutto lontani, irraggiungibili, lanciati in un vuoto che subito crea angoscia. Allo stesso tempo potremmo azzardare una seconda interpretazione di questa lontananza, ossia riferita a quel che si lascia, giacché la bellezza di ogni viaggio non è tanto quel che si va a cercare, quanto piuttosto l’angustia di tutto quel che si butta alle spalle e, se gli occhi possono tingersi di tale suprema visione di infinito, è perché si sono liberati dalle maglie soffocanti, dalla marsina che stringeva la vita di un tempo.

Ne “La carriola”, Pirandello descrive non solo il senso di infinita lontananza che apre il cuore dell’impiegato di ritorno da Genova, ma ne sottolinea anche la difficoltà per quello di mettere da parte gli impegni, la routine, i doveri, il lavoro, per lasciarsi andare alle proprie sensazioni.

Pirandello, dunque, riconosce la possibilità a tutti gli esseri umani di poter realizzare questa pienezza, quest’esperienza creativa, questa sensazione che è pari a quella dei poeti, quella che si prova andando a curiosare oltre la “ siepe “, come “ viaggiatori immaginari”, ossia come coloro che compiono un viaggio, o magari no,  fino ad acquistare una nuova consapevolezza di sé, il senso della loro identità più profonda, fino a quel momento per loro sconosciuta. Questa identità, diversa da quel che si era, nascosta dalle maschere che la società impone e invisibile per la maggior parte delle persone, si può ricreare solo se quel personaggio sia disposto a spostarsi, nello specifico ad allontanarsi dal nucleo dove questa oppressione ha avuto origine. Perciò, la ricerca di sé trova una metafora perfetta nel viaggio. Viaggio immaginato su una linea che tende verso l’infinito oltre i falsi idoli, in definitiva oltre i limiti del razionale.

 Il personaggio Mattia Pascal ò quello che, più di ogni altro, permette di cogliere analogie e differenze con l’Ulisse omerico.

Mattia Pascal , attraverso il suo viaggio, purtroppo, non riesce a realizzare quella conquista di sé, che per lui consisteva nella completa libertà da regole e convenzioni , anzi ,durante il viaggio,  matura in lui la convinzione di tutta la sua inconsistenza di persona, che è più simile ad un’ombra, e passando attraverso identità fittizie diverse, ritorna al punto di partenza, con la sorpresa però di una situazione totalmente mutata al suo ritorno. Nella sua assenza Mattia Pascal ha dato infatti modo alle persone del suo paese di capacitarsi della sua assenza e di continuare a vivere. Non può più, quindi, ritornare allo stadio iniziale, ed è per questo che Pirandello premette Fu al nome della sua creazione letteraria.  Anche il viaggio di Ulisse, ad una superficiale interpretazione, potrebbe rappresentare la condizione dell’uomo come estraneo da sé e dal suo mondo. Infatti al ritorno dal suo viaggio anch’egli trova una dimensione totalmente diversa da come ricordava. Itaca è caduta nella trascuratezza e i Proci sperperando le sue ricchezze insidiano la moglie Penelope. Ma Ulisse recupererà il suo ruolo e il suo titolo, da perfetto eroe ellenico mai dubbioso della sua identità e sicuro di sé, Mattia Pascal, invece, non riuscirà e reinserirsi in quelle convenzioni che, seppur opprimendolo, gli consentivano di esistere.

 E noi, naufraghi del nostro tempo, in mari procellosi, ce la faremo a trovare un approdo? A riappropriarci del nostro mondo? Mai come in questo drammatico frangente storico si corre il terribile rischio di rinchiudersi nella propria vita, nella propria esistenza, nel proprio microcosmo verso un futuro da monade, dove ciascuno pensa a sé, dove ognuno si “anestetizza” rispetto al resto del mondo. Solo aderendo ad una visione inclusiva dell’umanità che porta con sé, sempre e comunque, i germogli di una prossima primavera, i vari volti del dolore potranno ricomporsi in un autentico rapporto di pace, solidarietà e fratellanza fra gli uomini di ogni parte del mondo, in modo da elaborare sempre e insieme ipotesi percorribili di risposta agli interrogativi “brucianti” della vita attuale.  (amv)

REGGIO – Incontro con la Storia: Bettino Craxi

Questo pomeriggio, a Reggio, alle 17.30, allo Spazio Open, l’evento Incontro con la Storia: Bettino Craxi, organizzato dall’Associazione Culturale Anassilaos in collaborazione con lo Spazio Open.

Intervengono il prof. Antonino Romeo, storico, e il prof. Giovanni Milana, segretario del Partito Socialista Italiana, Federazione di Reggio Calabria. (rrc)