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Addio a Renzo Alzetti, tra i pionieri del Dipartimento di Fisica dell'Unical

Addio a Renzo Alzetta, tra i pionieri del Dipartimento di Fisica dell’Unical

di FRANCO BARTUCCIEra una figura molto riservata nell’esercizio della sua funzione professionale e sociale all’interno dell’Università della Calabria e con altrettanta riservatezza ha lasciato un mese fa questo mondo. Stiamo parlando del prof. Renzo Alzetta, originario di Trieste, docente di fisica teorica presso il dipartimento di fisica fin dagli albori della sua costituzione, a partire dal primo anno accademico 1972/1973, arrivando pure  in momenti difficili ad assumerne la responsabilità della direzione.

«Con Renzo Alzetta – ha scritto l’attuale direttore del Dipartimento di Fisica, prof. Riccardo Barberi – ci lascia uno dei pionieri del Dipartimento di Fisica e del nostro Ateneo, arrivato in Calabria agli inizi della grande avventura, che ha prodotto in 50 anni gli incredibili risultati sotto gli occhi di tutti. A questi risultati Renzo ha dato un grande contributo, formando fino al 2005, con le sue lezioni, diverse generazioni di fisici, molti dei quali sono oggi in servizio non solo nell’Università della Calabria, ma anche diffusi nel mondo internazionale della ricerca».

Persona di grande cultura a 360 gradi, cosa che gli permetteva di interagire in maniera efficace con tutti gli studiosi di varia formazione giunti in Calabria all’inizio delle attività dell’Università, uomo di grande generosità, che lo ha sempre spinto a mettersi a disposizione dei nuovi arrivati per favorirne l’inserimento nella comunità accademica calabrese. I più anziani ricordano ancora gli stivaloni con i quali si spostava nel campus quando, appena costruito il polifunzionale, bisognava affrontare il fango dei campi per raggiungere le aule.

In una situazione di crisi del dipartimento di Fisica ha dato, in spirito di servizio, la sua disponibilità a fare il direttore del dipartimento. Per tutto questo e molto altro i membri del dipartimento di Fisica lo ringraziano e ne ricordano la memoria”.

A tale ricordo si è pure accodato il prof. Piero Gagliardo, più volte direttore del Dipartimento di Ecologia, legato da una profonda amicizia e collaborazione in un’azione di volontariato educativo e formativo nel fare Scuola di Comunità. 

“«Quante occasioni – dice il prof. Gagliardo nel suo ricordo – passate insieme a raccontarci la vita, a parlare dei figli, delle mogli, dell’Unical, del tuo deciso attaccamento alla fede cristiana. Sì, perché negli ultimi anni ci trovavamo, insieme ad altri amici, a fare Scuola di Comunità, a leggere ed a commentare i testi di Don Giussani e di Don Carron. Come sono importanti per me e per te, anche ora, che sei vivo altrove, dove tutto diventa chiaro e il significato di una vita intera assumerà forma e concretezza in modo così leggero più di quanto la mia mente riesca ad immaginare ora».

«Sento la commozione del non esserti più vicino, ma da qualche mese ti eri dovuto trasferire altrove per le cure necessarie. Di te non mi dimentico, non dimentico il tuo sorriso quando ci si salutava, o il tuo sguardo quando cominciavi a porre sul tavolo una questione da discutere».

«Il mio cuore e il mio spirito non ti smarriscono nel nulla. È solo la mia memoria fisica che si perde con il passare degli anni. E quindi, in qualche modo continuiamo ad essere, tu di là, io ancora un po’ di qua. Certo, non ti serviranno più, ma il tuo cappellaccio e gli stivaloni, come dice Riccardo, portali ancora con te, insieme al sorriso dei tuoi allievi e dei tuoi amici».

La scomparsa del prof. Renzo Alzetta ha pure spinto il prof. Giancarlo Susinno, già Preside della Facoltà di Scienze Matematiche Fisiche e Naturali, a lasciare una sua testimonianza di grande stima ed affetto.

«Era molto tempo – ha scritto il prof. Susinno – che ci eravamo persi di vista e non avevamo notizie l’uno dell’altro, ma costante è rimasta in me la stima per la sua figura di uomo e di scienziato. Ammiravo il suo impegno di fisico teorico e consideravo formative e stimolanti le discussioni sulle sue originali idee teoriche, da lui condivise e costruite in collaborazione con grandi colleghi teorici. Amava e sapeva far amare la fisica ai suoi studenti, da tutti seguito ed apprezzato. Tanto ha dato alla nostra Università ed in particolare al dipartimento di Fisica, essendo stato tra i primi suoi realizzatori. È stato un grande amico, di quelli che, se anche non frequenti tutti i giorni, non dimentichi neanche per un giorno».

In morte di Renzo Alzetta, filosofo della Natura, così ha intitolato il suo ricordo personale, di un’amicizia lunga, durata oltre cinquant’anni, il prof. Franco Piperno, suo collega presso il dipartimento di Fisica  dell’Università della Calabria. È un ricordo testimonianza che si riporta integralmente a seguire in quanto non è altro che uno spaccato della vita e della storia della nostra Università nei suoi primi anni di partenza facendoci vivere anche un periodo molto brutto legato all’accusa di presenze terroristiche al suo interno ch’ebbero nel blitz degli uomini del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, nella nottata del 28 giugno 1979, i momenti più brutti e pesanti per effetto di una immagine positiva dell’Ateneo che andava a sbiadire in campo nazionale, creando non pochi problemi all’equilibrio sociale e culturale interno.

Un ricordo e una fotografia dell’Ateneo di Arcavacata e non solo che può interessare i primi novemila studenti passati dal campus universitario negli anni settanta e i primi degli anni ottanta, dando loro consapevolezza e memoria dei loro studi e rapporti sociali vissuti in quegli anni nelle strutture residenziali e dell’edificio polifunzionale con le sue prime baracche provvisorie. Basta leggere il testo ed ogni cosa acquisisce memoria ed immagine visiva. 

«Un mese fa, era metà di novembre, giorno più giorno meno, un po’ prima dell’alba – così esordisce il prof. Franco Piperno nel suo ricordo dell’amico e collega Renzo Alzetti – la campana ha suonato per il più caro tra i nostri fratelli fisici: un suono breve e discreto, e Renzo moriva, sereno nel sonno. Per la verità, il Nostro era un fisico nel significato inattuale, premoderno del termine, cioè un filosofo della natura. In una epoca nella quale le università, come i centri di ricerca, sono affollati da specialisti di scienze peregrine; dove la divisione del lavoro ha rotto definitivamente l’unità e l’autonomia della conoscenza, finendo con l’assumere, fuori tempo massimo, la forma della fabbrica fordista. Infatti, la tecno-scienza assegna alla scienza un ruolo servile, un mero mezzo per moltiplicare a dismisura i dispositivi tecnici secondo le scelte del complesso militare-industriale, che abbisogna  non di lavoro cognitivo ma  di Fach-Idiot, idioti specializzati che sanno tutto su  niente».

«In una epoca così fatta, da rasentare l’incubo, inciampare in un vero fisico, in Renzo Alzetta, è un evento certo possibile ma improbabile. Io l’ho conosciuto nella seconda metà degli anni ’60 del secolo appena trascorso, alla Scuola Internazionale di Fisica di Trieste, diretta allora dal fisico pachistano Salem, Nobel per la fisica. Renzo teneva,in quella  melanconica città di confine, un corso di fisica delle alte energie; ed io ero stato spedito lì da Frascati, in quanto borsista CNEN, per completare il perfezionamento – come usava dirsi – nella fisica della fusione nucleare».

«Ci riconoscemmo subito, quasi fossimo amici ancor prima d’incontrarci; così, terminati gli impegni triestini, andammo entrambi ad insegnare fisica generale al Politecnico di Milano. Erano gli anni del movimento dei giovani operai e studenti; e noi due ne facevamo parte; cercando di preservare quanto di culturalmente creativo si era depositato in quelle lotte e di arginarne gli aspetti settari e puramente ideologici».

Tuttavia Renzo non si trovava a suo agio al Politecnico, mal sopportava la mentalità ingegneristica che scoraggiava la critica dei saperi. Ecco allora che, dopo  un triennio di insegnamento a Milano, venne  a sapere dell’ apertura di una nuova università pubblica in Calabria, l’Unical, con sede ad Arcavacata, un rione di Rende dove da secoli si svolgeva una antica fiera equina.

«Il comitato organizzatore dell’Unical era presieduto dal prof. Beniamino Andreatta; e questa circostanza sembrava garantire di per sé che non si trattava di un ennesimo insediamento accademico ma piuttosto di esperimento non banale di innovazione tanto delle strutture didattiche quanto di quelle di ricerca. Così, Renzo decise di abbandonare Milano e trasferirsi a Cosenza».

«La scelta di andare a vivere e lavorare nel Mezzogiorno, comportava l’affievolimento della nostra amicizia non più alimentata dalla presenza; inoltre, ogni volta che mi capitava di pensare a Renzo, avvertivo un certo disagio, modesto ma inequivocabile, come davanti un evento sgradevole e imprevedibile – e questo con ragione perché io calabrese ero letteralmente fuggito dal Sud, da quella aura inerte dove sembrava che non potesse accadere più nulla; avevo studiato a Pisa e poi a  Roma, e trovato una occupazione definitiva nel Settentrione – mentre Renzo aveva percorso quel cammino all’inverso».

«Poi, quando il Nostro era ormai da oltre tre anni all’Unical, in occasione del Capodanno del 1975, mi capitò di far visita ai parenti, a Catanzaro, mia città natale; e in quella occasione decisi di rivedere  Renzo che abitava nel campus universitario Unical di Rende, vicino Cosenza, a poche decine di chilometri da Catanzaro. Non ero mai stato a Rende e per la verità neanche a Cosenza. Renzo mi condusse nella città vecchia o, per meglio dire, antica».

«Una ragnatela di vicoli stretti per costringere gli eventuali invasori, prima barbari poi saraceni, a muoversi in fila indiana pochi per volta; i cerchi ancora visibili nelle midolla dei secolari ulivi abbattuti; gli edifici diroccati, le mura sbrecciate; qualche rospo uscito dalle fogne. Dopo questo atto di registrazione del luogo e sottomissione ad esso, il mio amico mi condusse  nel campus universitario, dove avevano sede le attività didattiche e i dipartimenti – questi ultimi introdotti per la prima volta nell’ordinamento accademico italiano – ospitati per lo più in baracche di legno e in prefabbricati.
Il tutto si estendeva per un intervallo temporale di oltre duemila anni».

«Renzo sembrava muoversi in un paesaggio a lui familiare: calabrese per scelta, aveva trasformato la sorte in destino. Per parte mia, rimasi  affascinato dalla vitalità di quelle rovine che pure sembravano custodire nel proprio seno una sorta di magia,quasi una  promessa di “vita nova” . È comunque, fin da subito più modestamente mi permettevano di rappacificarmi con il “Genius Loci” della mia adolescenza. Così nel gennaio di quello stesso anno chiesi e ottenni il trasferimento dal Politecnico di Milano all’Unical di Arcavacata; ricongiungendomi in questo modo al mio amico.
Renzo continuava ad Arcavacata le sue ricerche in fisica delle alte energie; e collaborava in questo campo con il prof. Preparata e il suo gruppo, tutti noti a livello internazionale per quel loro  proporre paradigmi, dirò così audaci, ai problemi irrisolti della fisica quantistica».

Il Nostro per altro non aveva mai ridimensionato il suo interesse rivolto a quel campo d’indagine, di grande portata per il senso comune, al quale dava il nome di “epistemologia” – mentre io mi ostinavo, e ancor mi ostino, a chiamare ” filosofia della natura”. Così Renzo e io, del Dipartimento di fisica, negli anni tra il ’75 e il ’79, organizzammo insieme a Mario Alcaro, del Dipartimento di filosofia, una ventina di seminari su alcune parole-chiave, parole  che strutturano, per lo più inconsapevolmente, la mentalità contemporanea».

In particolare, per il Convegno Internazionale sulla Funzione Sociale delle Scienze della Natura – convegno che si tenne all’Unical nel settembre del 1977(anno mirabile quanti altri mai)– al quale presero parte tra gli altri Sohn-Rethel, Levi-Leblond, Alquati, Fabbri, Cini; per quel convegno, il Nostro mise su un dibattito dal titolo: “Evoluzione della specie, morte dell’individuo e secondo principio della termodinamica».

Per inciso, i materiali di quel dibattito, vale a dire la relazione di Renzo, gli interventi e le domande dei partecipanti nonché le conclusioni; tutto questo, considerato a mo’ di prova penalmente rilevante, venne sequestrato qualche mese dopo dalla polizia politica (in occasione del blitz degli uomini del generale Dalla Chiesa nel campus universitario), grazie alle leggi liberticide varate in quegli anni dai governi dell’arco costituzionale.

Quella documentazione non venne mai più restituita né all’Università, né agli organizzatori, né agli intervenuti; e io, per ricostruire quell’evento, mi sono avvalso dei miei appunti, così come delle conversazioni frequenti su quegli argomenti con Renzo.

La discussione, in quel l’autunno del ’77, si era aperta sull’interrogazione: perché noi invecchiamo per poi morire? Di primo acchito la risposta sembra ovvia: tutto attorno a noi si deteriora:l’auto accusa l’età, i muri di casa presentano evidenti fratture, le strade si riempiono di buche e così via.

Ogni cosa è soggetta ad una sorta di ultima degradazione dell’ordine imposta dalla Termodinamica – degradazione che il senso comune constata facilmente, a livello macroscopico, senza ricorrere all’aiuto costosa degli specialisti – i cosiddetti scienziati –che usano un linguaggio cifrato e si servono di  costose apparecchiature. Questa degradazione si risolve in un aumento spontaneo del disordine; e giammai in una diminuzione spontanea di esso.

Non c’è quindi nessuna ragione per ritenere che l’individuo possa essere esentato dalla morte. E tuttavia la specie umana ne è preservata. La nostra specie, infatti, si alimenta dell’ordine generato dalla fotosintesi ed evolve verso stati di maggiore ordine.

Ma perché allora l’individuo non può usufruire di questo bengodi miracoloso nel quale è immersa la specie? L’individuo, salvo incidenti ambientali fatali, tutto sommato piuttosto rari, ha una collocazione fortunata in natura: si nutre dell’ordine fabbricato gratuitamente dai vegetali.

Attraverso la fotosintesi, la pianta forma la molecola di glucosio; questa viene mangiata dal vitello che usa l’ordine del glucosio per formare una molecola  proteica. L’animale uomo mangia la carne del vitello; e usa l’ordine impresso alla proteina per formare una altra molecola proteica tutta sua. Lo scarto viene espulso dal nostro corpo in uno stato di  disordine.

La domanda pertinente è: perché non è possibile consumare tutto l’ordine ambientale necessario per mantenere l’ordine del nostro corpo, cioè  per prolungare la nostra vita indefinitamente? Infatti, non v’è prescrizione alcuna nel secondo principio della termodinamica che richieda la morte dell’individuo. Detto in altri termini, nella morte dell’individuo v’è la sopravvivenza della specie. La morte infatti è vitale per l’evoluzione della specie – talmente vitale che possiamo affermare ogni morte essere l’occasione per una inedita forma di vita.

Una volta che l’individuo si è riprodotto un certo numero di volte, producendo una progenie che può essere a lui o a lei superiore, una volta che questo è accaduto la specie trarrà un maggior vantaggio dalla procreazione di questa progenie superiore piuttosto che dall’ulteriore procreazione del parente inferiore – sicché il parente deve morire.
Val la pena sottolineare che qui è messa al lavoro il ” principio dell’evoluzione” e non il “secondo principio della termodinamica”.

I processi adattavi-evolutivi hanno determinato una durata temporalmente finita della vita, allo stesso modo di come hanno assicurato l’evoluzione dell’occhio, o del fegato o dei testicoli, insomma di tutti gli elementi del nostro corpo che concorrono all’adattamento della specie.

Vi sarà pure una ragione se, lungo milioni e milioni di anni, la pressione evolutiva onnipossente non ha trovato un rimedio alla morte dell’individuo – infatti, la salvezza dell’individuo sarebbe stata fatale per la specie.

Questa, a grandi linee, la relazione di Renzo al seminario sulla morte  tenuto nel settembre del ’77 al Dipartimento di Fisica dell’Università della Calabria, in occasione del Convegno Internazionale sulla funzione sociale della scienza della natura.

«La morte – ha concluso il prof. Franco Piperno –  non ha ghermito Renzo, si è annunciata da lontano – e come scrive il poeta, l’ha preso da amica, come l’estrema delle sue abitudini».

Il prof. Franco Piperno nel ricordare il prof. Renzo Alzetta, fatto straordinario, ha portato alla luce con il suo racconto una vicenda, come il sequestro del libro Evoluzione della specie, morte dell’individuo e secondo principio della termodinamica, spesso oggetto di citazioni in occasione di grandi eventi culturali e storici, da parte dei Rettori Pietro Bucci e Giuseppe Frega, promossi dalla stessa università ,senza entrare nei contenuti, che in questo momento, invece, sono stati portati a conoscenza della collettività.

Ciò ci colpisce in quanto l’intero servizio giornalistico di informazione e comunicazione scritto per ricordare la figura del prof. Renzo Alzetta ci fa acquisire una certa consapevolezza che sfocia nella dimensione profondamente umana dei rapporti tra esseri umani, che contestualmente finisce per dare alla stessa Università il senso umano di una convivenza sociale e civile molto alta da tutelare e promuovere nel tempo.

Sentimenti e valori tutti da condividere con i figli: Sara, Matteo e Francesco, che certamente condivideranno ed apprezzeranno questo ricordo scritto con il cuore in omaggio del loro genitore. (fb)