di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – Cara, Repubblica a scriverti sono io, una tua popolana repubblicana.
Vorrei tanto ti sentissi libera, mia amata Repubblica, e non come quelle donne che si spogliano nude per ricordare che sono libere di utilizzare il proprio corpo come credono; non come quegli uomini che ammazzano le donne per essere liberi di averne una nessuna e centomila. Ma libera di amare come i bambini e farsi amare, di carezzare il proprio popolo e farsi dare carezze. Libera di accondiscendere o dissentire. Libera di intonare il tuo inno, a prescindere dalle partiture musicali scritte dai partiti politici, nei luoghi montani, o lungo i lidi del mare. Libera ovunque sventola la tua bandiera e anche altrove. Oltre il vento che la fa sventolare.
Ti sogno da sempre impegnata per la polis, ma non compiacente della politica, invece i poteri che dovrebbero essere e restare indipendenti al tuo interno, si sono riunificati nella partitocrazia. I partiti fanno le leggi, le fanno eseguire, le fanno giudicare. Quando c’è questo, la democrazia non c’è più”. Sempre i partiti spadroneggiano in tutte le tue regioni, si fanno la guerra, non fanno mai l’amore, e disdegnano finanche il tuo valore. Si è forse dissolta la Costituzione?
Tu sei la Repubblica, né una monarchia né un regno, perché non parli per per te stessa e anche per me? Non racconti come sei nata, come sei arrivata fino a qui, e come vorresti proseguisse il tuo viaggio? A una sposa, nel suo giorno, è concesso di dire ciò che vuole, anche: amatemi come io vi amo.
Sono nata in Calabria, eppure sei tu la mia repubblica, l’Italia. Il paese per cui tanto la mia gente ha dato e ancora dà. Che le generazioni da cui discendo, hanno contribuito a costruire. Le stesse che ti hanno votata e che oggi, da chissà dove, vorrebbero vedermi felice alla tua sequela. Ma la mia Calabria, che spesso ti ritrovi come un fazzoletto steso ad asciugarsi al sole, soffre e perché non ti riscopre in lei compiaciuta. Ma non ti chiedi mai il perché, se nessuna acqua l’ha mai bagnata, sta lì ad asciugarsi le ossa? O anche solo quella che gli altri le chiamano pelle d’asino?
Si può davvero stare appesi alla corda di un paese per asciugarsi il volto dalle le proprie lacrime, cara Repubblica? Vorrei sentirti cantare A Mano a Amano, mentre Il cielo è sempre più blu, su quel Ramo del lago di Como che volge a Mezzogiorno e contemporaneamente dove non è bella la vita dei pastori in Aspromonte. Stesse canzoni con la stessa enfasi, così che il pathos repubblicano possa spandersi ovunque, e ovunque tutti possano riconoscerti, e festeggiare il 2 giugno in nome della Repubblica.
Oggi è la tua festa. Esisti allora. Esisti davvero. Altrimenti non ti festeggeremmo. E c’è chi t’ama e ti rispetta, altrimenti non riconoscerebbe la festa.
Allora a te, mia cara. A chi rende omaggio alla Repubblica con la mano riposta sopra il cuore; a chi lo fa assaggiando le ciliegie dalla prima scocca benedicendola assieme a Dio; a chi si appresta al primo giorno di mare per starsene a fior d’acqua, a chi a tavola, al sapore del basilico e della menta, stringe patti, accordi o chiude contratti in nome del paese.
A chi è in visita a un museo che ricordi la patria, o nel bel mezzo di una piazza a godersi l’inno intonato da una fanfara. A chi legge la pagina di un romanzo o una poesia italiana; a chi si gode la famiglia come massima madre costituente; a chi siede vista mare o sopra un ceppo di montagna ripassando a memoria gli articoli della Costituzione; a chi girovaga per il proprio paese, o è in cammino per il paese altrui in omaggio alla storia. A chi parte per la città e a chi ritorna a casa; a chi l’Italia la ha nel cuore e a chi ha a cuore l’Italia e la sua Repubblica.
Alla mia terra, alla Prima Italia.
Ti abbraccio, mia cara, e ricorda che quella che hai appena sentito è la voce del tuo Sud, dell’Italia. (gsc)