Le erbe e le piante di San Francesco di Paola di Carmine Lupia e Giancarlo Statti

di FRANCO BARTUCCI – Giancarlo Statti, professore Ordinario di Biologia farmaceutica presso il Dipartimento di Farmacia Scienze della Salute e della Nutrizione dell’Università della Calabria, con Carmine Lupia, etnobotanico e direttore dei Conservatori etnobotanici di Castelluccio Superiore (Potenza) e Sersale (Catanzaro), sono gli autori del libro “Le erbe di San Francesco di Paola”, edito da Rubettino, con il contributo della Fondazione Vos.

Il libro si pregia poi della prefazione di Claudia Crima Toma, docente della Facoltà di Farmacia dell’Università di “Vasile Goldes” di Arad in Romania; nonché di una breve presentazione di Padre Gregorio Colatorti, Generale dell’Ordine dei Minimi, che riconosce ai due autori, Statti e Lupia, il merito di avere aperto una breccia nel muro che impedisce di vedere con chiarezza l’infinito paesaggio, come la siepe leopardiana, che sta al di là dell’immagine che di Francesco ci è stata trasmessa da una certa agiografia e «ci conduce a fare un passo in avanti – ci precisa il Padre Generale – affinché possiamo restituire alla storia di oggi una testimonianza che, forse, è una delle più utili con cui confrontarsi per ritrovare i valori fondamentali della nostra società e che, inoltre, ci invita alla riflessione sul rapporto tra la bellezza della natura e l’azione di Dio in essa, tra l’intelletto umano e la sapienza di Dio».

Il libro è composto  da 127 pagine, delle quali le prime sedici contengono un’accurata Prefazione, seguita da due pagine dell’introduzione a firma della prof.ssa Claudia – Crina Toma, nella quale dei due autori dice: «Di aver saputo focalizzare la loro attenzione dell’uso molto diffuso, nell’Italia Meridionale, della medicina monastica, una sorta di naturale prosecuzione della cultura ellenica e latina dell’uso monastico delle piante contaminata da esperienze e nuove conoscenze che giungevano dal mondo arabo, come dai monaci basiliani e i mercanti che percorrevano la via della seta».

Proseguendo nella sua introduzione è entrata ad illustrare la figura di San Francesco e della sua dedizione alla cura degli ammalati attraverso la fitoterapia.

«Negli anni a cavallo tra il 1400 e il 1500, in Calabria tra le figure di più grande spessore culturale e morale spicca quella di San Francesco di Paola, divenuto poi patrono della stessa Regione. San Francesco fu assiso agli altari per il suo potere taumaturgo, che riguardò soprattutto l’assistenza agli infermi, per i quali operò guarigioni prodigiose a favore di paralitici, di lebbrosi, di ciechi e di indemoniati. Egli, però, si distinse anche per la sua abilità di fine erborista e nutrizionista, sfruttando quello che oggi chiameremmo fisioterapia. Questo gli fruttò la chiamata al capezzale del re di Francia Luigi XI, gravemente ammalato. San Francesco fu una vera personalità monastica del Medioevo italiano; si ritirò per tre anni in una grotta da giovane dove rimase in meditazione, nutrendosi solo di erbe che in seguito analizzò e utilizzò come piante medicinali».

Nel concludere la sua introduzione la prof.ssa Claudia Crima Toma ha tenuto a sottolineare che: «Lo scopo ultimo del libro è anche quello di evidenziare l’uso di piante officinali tipiche della tradizione botanica calabrese sia patrimonio culturale proprio della Calabria, tradizione via via quasi totalmente dimenticata, ma che, proprio alla luce della validazione scientifica delle piante usate dal Santo, vuole permettersi di rilanciare un settore di nicchia, ma di particolare interesse. Trovo questo libro scientifico – ha concluso – non solo un manoscritto di rara bellezza che unisce aspetti di storia locale con quelli di fitoterapia empirica, ma anche una prova vivente che parla dei tesori delle Calabrie che devono essere lasciati ai posteri».

Il libro prosegue poi con sei pagine che sintetizzano la vita di San Francesco di Paola con riferimenti alla collocazione dei popoli antichi e al medioevo, affermando alla fine che «nel XV secolo l’opera di San Francesco di Paola non può ridursi solo ai miracoli, che restano comunque alla base della sua assunzione agli altari, ma riscoprire la figura di San Francesco come filosofo e come uomo di scienze e medico, guariva gli ammalati con le erbe e riusciva dove i medici fallivano».

Il libro si caratterizza poi per la pubblicazione, in 93 pagine, di schede analitiche e scientifiche sulle erbe e piante utilizzate da San Francesco e che fanno parte del percorso processuale della sua canonizzazione. Di schede ne abbiamo contate 43, in cui c’è il richiamo etnobotanico alle parti dell’uso delle stesse al tempo del Santo, completate con i riferimenti scientifici attuali per dare una sorta di convalida scientifica all’uso empirico fatto dal Santo. Dalla B di bambacia fino alla Z di zenzero passando per cannella, garofano, ginestra, ortica, salvia e tante altre.

Quello delle erbe usate sia per curare che per celare il miracolo, è sicuramente tra gli aspetti più importanti, e ultimamente è un argomento che sta attirando l’attenzione degli studiosi di diverse figure di santi e monaci medievali. Interessa, soprattutto perché è un campo in cui fede, ragione e scienza si incontrano in un territorio comune di ricerca che può essere interessante per il futuro sia della fede che della scienza. (fb)                        

“Eleonora – il coraggio di vivere” di Santina Santambrogio

Promette di catturare il cuore dei lettori con una storia toccante e avvincente Eleonora – il coraggio di vivere, il romanzo scritto dalla studentessa reggina Santina Santambrogio.

Edito da Laruffa, il libro racconta, appunto, di Eleonora, che vive una vita che appare perfetta all’esterno ma che, in realtà, cela profonde difficoltà. Nonostante le mille preoccupazioni che la attanagliano, un padre emotivamente distante e la mancanza di una figura materna, la protagonista non si fa sopraffare e, dimostrando una grande forza interiore straordinaria, riesce a completare gli studi e si afferma nel mondo del lavoro.

Una storia, quella scritta dalla diciassettenne, che dimostra come le difficoltà possono essere trasformate in opportunità di crescita, di come ogni sfida, affrontata con determinazione, può essere una lezione per migliorarsi e tirare fuori le potenzialità nascoste. Una narrazione ricca d’ispirazione e commovente, che accompagna il lettore verso il percorso di vita che la protagonista affronta con coraggio, toccando i temi della resilienza, dell’amicizia e dell’amore.

Un vero e proprio inno a inseguire i propri sogni, a perseverare anche le cose vadano come si vuole, ad affrontare le difficoltà con un pizzico di follia. Questo è “Eleonora – il coraggio di vivere”.

Santina Santambrogio frequenta il liceo Convitto T. Campanella di Reggio Calabria e, contemporaneamente, ama partecipare alla vita comunitaria e destreggiarsi in nuovi ambienti per soddisfare la sua “sete di conoscenza”, come lei stessa definisce questa sua attitudine. Nonostante la giovane età e la sua prima esperienza come scrittrice, la sua capacità di creare personaggi complessi e una trama coinvolgente si è rivelata sorprendente. La passione per la scrittura l’ha portata a dar vita a questo romanzo durante le pause di studio, mostrando una dedizione e una creatività fuori dal comune.

Il libro è disponibile in libreria e nelle principali piattaforme online.

 

“Liberata” di Domenico Dara

di ELISA CHIRIANOPotrebbe chiamarsi Malinconica Macrì, oppure Disabituata, Impietrita, Illuminata, Destinata, Ingannata, Catena, Avvilita, Innata, Irrequieta Macrì. Potrebbe avere uno o cento nomi, racchiuderli e contenerli tutti. Invece si chiama Liberata, Liberata Macrì, perché sua madre non avrebbe potuto darle altro nome, se non questo, e non certo per una sorta di augurio per una buona vita, all’insegna dell’indipendenza o in onore di una santa abbastanza portentosa. La verità è ben diversa e ha a che fare con i princìpi dell’inadeguatezza e dell’indifferenza. Del resto, noi «diventiamo sempre ciò che siamo, a prescindere dalla terra in cui siamo stati abbandonati» e un nome può trasformarsi in destino e destinazione, perché una storia è tanto più vera quanto più autenticamente narrata o perfettamente immaginata. Liberata Macrì è la figura centrale del nuovo e attesissimo romanzo di Domenico Dara, disponibile in tutte le librerie da oggi, 27 agosto.

Un nome e una garanzia, si potrebbe dire, e questo vale sia per l’autore che per la protagonista. Domenico Dara sorprende ancora una volta. È sempre unico e sempre diverso, eppure il lettore attento e la lettrice avvezza al gusto dolce-amaro stil sempre nuovo dariano riusciranno a cogliere proprio in questo rinnovarsi-rigenerandosi la specificità dell’arte dello scrittore calabrese. Leggere i romanzi di Domenico Dara è un dono che facciamo a noi stessi, alla vita vera e immaginata, a ciò che è – anche se non si vede – ma che spesso diventa la misura del mondo, perché invisibile non vuol dire inesistente. Per ogni evento accaduto ce ne sono migliaia accaduti non accadendo, che non incidono sui fatti degli uomini. A volte «il miracolo è quello che non accade»: di questo è convinta Liberata, dattilografa a tempo perso, audace nella fantasia ma timorosa ed esitante nella realtà. Sogna a occhi aperti, attraverso le pagine dei fotoromanzi, che colleziona e custodisce con cura, soprattutto se il protagonista è Franco Gasparri, l’attore che ama con completa devozione. Cerca di trovare similitudini tra la sua vita e quelle delle storie fotografate sul set, frammenti di vita delineati e sovrapponibili agli scatti d’autore, incorniciati nelle riviste, che puntualmente acquista nell’edicola dell’amico Glauco. Sembrano tarocchi, allineati e pronti a immaginare il futuro. Liberata crede a tutto ciò che non si vede, «al destino già scritto, all’anima che vive dopo la morte, al malocchio che colpisce, all’invidia che affama, a certi pensieri che spostano oggetti, alle voci dei defunti, ai sogni che si avverano, al potere misterioso della luna, alle vite che non sono accadute ma che lo stesso ci perseguitano».

Crede nelle coincidenze – che si vedono, certo – ma che sono il risultato sensibile di un processo invisibile, di un intreccio nascosto di destini, trame, punti. Ha fiducia cieca nel domani ed è convinta che raccogliendo indizi, anche attraverso le istantanee della sua polaroid, un giorno tutto si incastrerà perfettamente, svelando la verità anticipata da segni premonitori, oppure già fotografata nelle pagine di un fotoromanzo. Tutto è prevedibile e tutto fila liscio nei fotoromanzi! Gli incastri funzionano, le storie iniziano e finiscono, e nulla resta in sospeso. Incline alla solitudine, a differenza dell’esuberante amica Giuditta, Liberata vede cambiare la propria esistenza quando conosce Luvio, il nuovo operaio dell’officina meccanica del padre. In un attimo si sente proiettata dentro uno dei suoi fotoromanzi, eroina di una storia d’amore da sogno. Ma gli amori reali possono aspirare alla perfezione delle storie raccontate? E la magia dell’invisibile non rischia di sgretolarsi nell’impatto con la realtà del mondo?  

Domenico Dara gioca con le parole. Le cuce addosso ai suoi personaggi e ai lettori consegna mondi interiori e universi paralleli e misteriosi. Traccia viaggi semantici, percorrendo un senso e anche quello opposto, tra significanti, significati e direzioni. Mentre la storia si dipana o si aggroviglia, ecco partire un’altra via, quella lastricata di basoli e intarsi di pietre, che la tradizione letteraria ha costruito nel tempo e che echeggia nelle pagine delle sue opere. Il resto lo fa l’arte e la cura del dettaglio, la voglia di narrare storie minute, che indagano esistenze, marginali e nascoste, di persone comuni, che abitano i luoghi semplici. Tra realtà narrazione, sogno, visione e tempo dell’immaginazione mette in campo le vite piccole, perché ci pensa la Storia a raccontare i vincitori. La scrittura deve illuminare le zone lasciate nell’ombra, i personaggi di periferia, che abitano il sud del mondo, eppure hanno la forza dell’epopea storica e il vigore del dramma antico, nell’incedere quotidiano di esistenze che si incontrano e si intrecciano. Sono vite dai contorni poliedrici che spesso procedono in direzione ostinata e contraria, in cui la verità non è mai quella che sembra e magari indossa la parvenza di sentieri tracciati dal destino, letto da una cartomante. Dara infila il dito nelle crepe, accarezza gli strappi osserva i particolari e, attraverso la scrittura, riempie i vuoti lasciati dalle mancanze che condizionano la nostra vita.  

In anni di profondo cambiamento, segnati dalla violenza nelle piazze e dalla strategia del terrore – ma anche dalle conquiste che rendono le donne più autonome e consapevoli del proprio posto nel mondo –, Liberata vive una metamorfosi, proprio come quegli insetti collezionati dal padre che dimostrano, sempre e comunque, come per divenire adulti si debba sacrificare e perdere una parte di sé. È un microcosmo in cui agiscono persone e fatti. C’è Agata, che sminuisce le persona disprezzandone le abitudini, gli oggetti e le parole, ed è sempre impegnata con il sagrestano a organizzare la processione per la festa di Sant’Antonio; c’è Oreste, meccanico di professione e entomologo per passione; c’è il sagrestano Beccaria che, anche se è astemio, vede Dio ogni tanto; c’è una cartomante che legge i tarocchi; c’è un forestiero che segue Liberata nell’ombra; c’è Glauco con la sua edicola al centro della piazza; c’è Radio Alternativa 71, la radio dalla parte dell’umanità, che trasmette notizie di passi lenti e incisivi verso la conquiste di libertà e di democrazia; c’è il giallo del mistero e il rosa dell’amore, che arriva inaspettatamente; c’è soprattutto il paese  dove ciascuno nasconde un segreto, più o meno oscuro. Poco importa se si tratti di Girifalco o di un altro borgo di Calabria. C’è tutto un mondo qui, specifico e universale al contempo. Il luogo diventa archetipo e topos, territorio ma anche argomento.

Domenico Dara ripercorre le pagine di una microstoria, attingendo a un baule di ricordi, anche domestici e familiari. Rende omaggio alla foto-narrazione, che fece epoca soprattutto negli anni Cinquanta e proseguì con successo nel periodo seguente, affascinando intere generazioni. Contenitori di storie ma anche strumento di alfabetizzazione per un Paese uscito con le ossa rotte da un aspro conflitto bellico. Domenico Dara accende nostalgie in chi (e in un tempo non molto lontano) aveva un appuntamento fisso -settimanale o quotidiano- con l’edicola, che era chiostro e chiosco, per acquistare una rivista, un giornale o un fotoromanzo e magari per ristorarsi un po’.

Liberata è pronta per spiccare il volo, per rivelarsi ai lettori e alle lettrici erranti, per raccontarci che in fondo, anche ciò che è invisibile, in un preciso momento assume il volto dell’eternità. Liberata è tutto questo e molto altro ancora. (ec)

 

Montesanto vecchio detto Madonneja di Giuseppe Cinquegrana

Luoghi che si spopolano, paesi abbandonati, territori che con le loro case dirute con sui muri icone votive ricordano i segni una fede antica verso la Madonna per lo più. Ancora lo scroscio di qualche ruscello che, a volte, forma piccole cascate riporta alla memoria l’antico borgo che fu casale di Rocca Angitola incastonato tra Polia, San Nicola, Monterosso, Capistrano, Filogaso e Maierato.

Siamo nella Montesanto vecchia, detta Madonneja, di cui gli anziani ricordano e raccontano di cunicoli segreti che collegano più mondi, di grotte di eremiti, di riti e processioni nel giorno dell’Assunta e di antiche usanze gastronomiche. Siamo in una di quelle terre ricca di microstorie che vanno dalla magia alle maestranze dei carbonai e di numerosi figuli la cui produzione di gozze, tianeji e pignate  venivano portate a dorso di mulo ai mercati vicini durante la festa del santo patrono. Qui la bontà dell’uva zibibbo, liveja e vinciguerra, dei melograni e fichi a melanzana è ancora segnata da qualche tralcio di vite imprigionato da rovi che ormai hanno presso il sopravvento. 

La motta di Montesanto appartenne a Don Rodrigo Gomez de Silva Principe di Eboli e Conte di Mileto.  Leggende di tesori che verranno rivelati dalla Vergine dell’Assunta riecheggiano ancora nelle narrazioni di alcuni contadini che non hanno mai, nonostante tutto, abbandonato questo territorio oggi facente parte del comune di Maierato, come il signor Vincenzo Curigliano che, in questo saggio, è stato la nostra guida per arriva sull’antico promontorio a forma conica che appare come la visione dei cerchi danteschi. Qui tutto aspetta di essere interrogato per meglio comprendere chi viveva, come lavorava, con chi commerciava, chi era il signore della contea e Vincenzo indicandoci luoghi e antichi spazi ci fa notare persino i muri dell’antico municipio e ci indica, con il legno della sua scure, le terre ancora oggi di proprietà dei nobili di Monterosso, altri di Vallelonga ed altri ancora di San Nicola di Crissa.

Uno spazio diremmo oggi melting pot di un mondo antico che ha ospitato culture multiple e che, nel tempo, a causa dei terremoti, specialmente quello del 1659 e del 1783, la gente fuggi verso il pianoro dove imponente sorgeva il Convento dei Carmelitani da dove si diffuse il culto in tutta la Calabria, e qui ricostruire la Montesanto nuova; altri emigrarono verso le Americhe non fecero più ritorno. È un po’ quel rivedere le sorti dell’antica Castelmonardo i cui abitanti trasferitosi sul Piano della Gorna fondarono la nobile Filadelfia.

Un nutrito repertorio fotografico impreziosisce l’opera dell’antropologo Pino Cinquegrana che, in diverse spedizioni in compagnia di Vincenzo Curigliano ha osservato, studiato sul posto, ipotizzato e confrontato con altri luoghi abbandonati questo spazio che se adeguatamente rivalutato saprebbe dare risposte naturalistici di grande respiro rilanciando il territorio verso nuovi orizzonti turistico-ambientali. 

Secondo la tradizione locale, il legame tra Montesanto nuovo e Montesanto vecchio è segnato da una galleria segreta che unisce le due terre, ovvero dal querceto di Montesanto nuovo con l’uscita  sotto il gigantesco olmo di Montesanto vecchio ed è qui che la Vergine dell’Assunta indicò in sogno, ad alcuni contadini del luogo, dove fossero nascosti antichi tesori… (rrm)

“Evasioni d’amore” di Santo Gioffrè

di ELISA CHIRIANOCinque racconti che si leggono come un romanzo corale, perché il collante è il Sud, la sua storia e il legame ancestrale con gli uomini e le donne che lo hanno abitato o che lo abitano ancora, in un abbraccio a volte struggente, a volte risorgivo. Cinque racconti, così diversi, eppure incastrati come le tessere policrome di un mosaico e modellati uno per uno come le ceramiche di Seminara (RC), che esprimono un passato che, grazie a loro, continua a esistere. Cinque racconti che veicolano una tradizione fitta di misteri, che si tramanda nei secoli e che ancora oggi fa vibrare l‘anima, ma anche pagine di vite ricucite e di Storia ritrovata.

Santo Gioffrè attraversa il labirinto dei propri ricordi e scatta istantanee a cui dà voce. Esistenze segnate dalla fatica, dal desiderio del riscatto e dalla forza tenace dell’amore si intrecciano a memorie, paure ancestrali nella terra del Sud Italia, mentre infuria la guerra che svuota le case e frantuma le speranze. L’autore ci regala un paesaggio eterogeneo ed enigmatico: l’animo umano con i suoi abissi e le increspature, tra i sussulti di una quotidianità errante. Riesce a portarci in atmosfere antiche e spesso aspre con precisione e cura del dettaglio, delineando l’affresco di un’umanità che merita di essere narrata.  La Storia si intreccia alla vita intima, tra aneddoti, scelte e fragilità, passato e presente, tradizione e modernità. Alla fine, resta la parola, l’oggetto estremo su cui fare convergere le tensioni dell’impotenza. Essa si pone come il tramite diretto tra l’uomo e la realtà. Raccontare è ricucire le diverse dimensioni di sé, ma anche intrecciare l’autobiografia con la Storia, perché l’unicità è partecipazione a un tutto che è variegato, plurale, collettivo. Raccontare è dare senso a ciò che accade, legando singolare e universale, per comprendere, valutare, agire. Le storie cambiano il mondo e lo fanno nella maniera più forte e nella forma più intima, in modo silenzioso, depositandosi nel luogo più profondo e protetto della nostra anima e da lì, lentamente, cambiandoci per sempre. Il racconto permette di sentire la compiutezza di un momento. Procede per sottrazione, eppure sortisce l’effetto della moltiplicazione, genera un effetto di significazione su più livelli, che coesistono e si incontrano per poi percorrere anche strade completamente differenti. Scrivere è scegliere tra quanto di più raro c’è nell’universo e di più caro c’è nel nostro animo. 

Un libro di memoria, dunque, per far memoria ricordando, perché, come sosteneva Platone, ogni sapere è reminiscenza. Ma “Evasioni d’amore” è anche un romanzo storico, genere letterario difficile e molto amato da Santo Gioffrè, che si dimostra attento alla ricerca delle fonti e allo studio fedele dei documenti. La fantasia è complementare, arricchisce e rende affascinanti le vicende, ma deve essere bene incasellata nelle fasi storiche e non può oltrepassarle, altrimenti non sarebbe credibile. Proprio questo passaggio rappresenta la difficoltà maggiore dello scrivere romanzi storici. I punti vuoti vengono riempiti dalla finzione letteraria, che vuol dire restare fedele ai fatti, attenersi ad essi.  Ciò che è invenzione, quindi, sembra talmente vero da rendere autentica la narrazione.  

Evasioni d’amore è un’opera corale con persone-personaggi che si alternano, dando vita a un’esperienza tragica, a volte nostalgica, a volte sottilmente ironica, come un quadro d’autore. Si avvicendano figure scomposte come frattali fatti a mille piani e altrettante sfaccettature, fra un indefinito sé e un indefinito altro, che stanno in bilico tra due infiniti: il nulla e il tutto. Del resto, annota l’autore, «siamo scomposti nelle parti, mangiati dalla terra da cui veniamo, anneriti da antri e camini sotterranei nei quali i dolori che ci aggrediscono e dai quali vogliamo riemergere ci fanno smarrire».

Un modo concreto, plastico, in cui ciò che ha valore universale diventa vero per ciascuno, attraverso immagini legate alla vita, che aiutano a leggerla in una prospettiva più ampia. Vite come canne al vento, in balìa degli eventi e degli accadimenti, fragili in natura, ma anche alla ricerca del senso dell’esistenza e condannate a non trovarlo. Il lettore incontrerà il dramma della guerra ingiusta e feroce; donne con la fame d’aria per i mariti al fronte; figli che non tornano a casa e, se tornano, non trovano i fratelli e i genitori; paesi che si svuotano e agrari che ingaggiano i primi mafiosi; le malattie endemiche, la tubercolosi, la spagnola, la povertà; il furto delle sacre vacche e la ricostruzione della storia della Calabria dalla fine dell’ottocento al 1950 con curiosità e aneddoti su cui accendere dibattiti e confronti; il tragico amore che legò il musicista Giovanbattista Pergolesi alla nobile Anna Maria Spinelli, figlia del Principe di Cariati e Duca di Seminara, Scipione III Spinelli; la storia dell’amicizia tra Santo Gioffrè e Lucio Dalla e pagine autobiografiche che commuovono. L’autore racconta la sua infanzia; descrive luoghi, persone e situazioni, come la depressione post partum di sua madre, che «Passava da uno stato di relazioni normali ad un repentino e drammatico abbassamento del tono dell’umore. Io la vedevo raggomitolarsi e stringersi in un angolo. Notavo – scrive Gioffrè – i suoi bellissimi occhi spegnersi e il suo sguardo perso. Guardava il silenzio e ascoltava il buio […] Ma le sue periodiche crisi  mi accompagnano ancora e per sempre». Negli anni tra il 1955-57, fu ricoverata presso la casa di cura neurologica Villa Nuccia. In quel periodo, nello stesso luogo, si trovava il poeta Lorenzo Calogero

Evasioni d’amore è un libro da leggere – rileggendolo – per riflettere anche sul senso della scrittura e sul rapporto con la memoria; per riscoprire un’umanità che agisce in sordina, per sentire la compiutezza di un momento che dà importanza a delle vite altrimenti invisibili.

Cinque racconti delicati e fragili, ma anche forti e potenti, che fanno virare l’anima verso un passato che ritorna prepotentemente con la sua richiesta di riscatto e di giustizia. Sono canti necessari, anche se sovente dolorosi. Sono scatti in bianco e nero, con effetti chiaroscurali, immortalati da una penna che graffia l’anima e scalfisce equilibri precari. (ec)

Dimenticami dopodomani di Andrea Di Consoli

di ELISA CHIRIANODimenticami dopodomani (Rubbettino, 2024) è un libro che abbraccia i silenzi, i corpi e le fragilità. Esplora la vita indagando l’esistenza. Come un fiume carsico, incede lentamente tra gli oblii, i silenzi e le dimenticanze. All’improvviso prende forza e vigore, perché pulsa di passione e di coraggio. Irrompe nella storia e va anche oltre gli argini: non può stare nei confini angusti di un genere letterario. Appartiene alla prosa e alla poesia. Non importa sapere dove finisca una e inizi l’altra: sono compenetranti e si alimentano di reciprocità. Ogni racconto è velato di poesia e ogni poesia è venata di racconto. Affascina questa scelta stilistica, che sa di sperimentazione e di sconfinamenti: vuole andare oltre ciò che la tradizione ha consolidato e contemporaneamente desidera attingere a essa.

Qui la parola non indossa orpelli, non si infarcisce di ornamenti esteriori. Incide e lascia il segno, senza condizioni, senza se e senza ma. Narra e conquista, scava e crea, dissolve e sradica. È poesia eretica, eroica ed erotica. È scelta, coraggio, passione. Sperimenta lingua e linguaggio, in cerca di una voce, unica e speciale, per esprimere l’inesprimibile, per dare senso a una direzione sempre ostinata e contraria, per dire che «La poesia serve a ridare dignità nelle sere ferite, perché può sempre arrivare qualcuno che ti indica una cosa pura. Fosse anche sporca, ma così pura e indifesa da crederci ancora, come un bambino».  

«Ho scritto questo libro tra la fine del 2022 e i primi mesi del 2024” annota Andrea Di Consoli (scrittore, critico letterario, editorialista e autore radiotelevisivo) –. Pensavo di aver chiuso con la poesia o, comunque, con i miei racconti in forma di poesia, infatti non scrivevo versi da più di dieci anni. Poi, durante la pandemia, mi ha cercato con insistenza Mario Desiati. Era appena tornato dalla Germania. Aveva riletto La navigazione del Po e mi diceva che dovevo tornare a scrivere».

Il vincitore del Premio Strega 2022 firma l’Introduzione a questo libro, che prende vita dalla fine, da un Mi manchi”, verso conclusivo di una delle ultime storie raccolte nel volume. Poi, come cerchi concentrici, tutto assume un aspetto specifico e una forma propria, quella di un racconto-romanzo di strabordante poesia.

«Andrea Di Consoli – scrive Mario Desiati – ha dato ennesima prova della sua vocazione di “irregolare”, assai distante dalle mode correnti e da furbizie editoriali. Ha composto un canzoniere realistico e struggente, di grande forza espressiva, rappresentativo della sua generazione. Un libro a cuore aperto, diretto, senza orfismi, reticenze e non detti. Duro e dolcissimo allo stesso tempo».

Dimenticami dopodomani è un viaggio nel sé per scoprire l’altro (di sé e da sé), mentre la parola si fa carne e spirito. E intanto il lettore si abbarbica a pagine fluttuanti, in un equilibrio precario, in cui perdersi vorrà dire ritrovarsi, per poi perdersi ancora. È un libro generoso, ma anche scomodo. Si apre al lettore donandosi visceralmente, mettendosi a nudo, senza false ipocrisie o infingimenti. Percorre vite, ai margini della vita. Incontra padri e figli, fughe e ancoraggi, prossimità e alterità, abbandoni, ansie e ipocondria. Mette a fuoco la quotidianità, raccoglie il reale con le mani a conca, non per trattenerlo, ma per osservarlo mentre inesorabilmente scorre via. 

«All’inizio la vita – scrive Di Consoli – è come un fascio di rami ben legati, poi la corda si sfilaccia, e i rami si tengono insieme per inerzia». Con il tempo la compattezza diminuisce e aumenta il disordine. Giunge così il momento di verificare il funzionamento dei nessi e di preoccuparsi della manutenzione dei dettagli. E può anche succedere di provare nostalgia per certi giorni disperati del passato: schegge di inquietudini in un viaggio interiore tra ricordi e volti, tratteggiati con l’arte del chiaroscuro. L’ombra affianca luce, per meglio definirla e riconoscerla, per riannodare qualche filo e riagganciare i fogli scompaginati dell’esistenza, così come fa la morte, fedelissima compagna del viaggio terreno. In fondo noi siamo niente e siamo tutto.

Abbiamo troppa fiducia nella durata di cose, che nel tempo non restano. Gli oggetti perdono la loro funzione, si consumano e, impercettibilmente, vanno a morire da qualche parte. Ciò che sopravvive gonfia di nostalgia chi si illude di avere confidenza con l’eternità e ricorda ben poco rispetto a quello che ha perduto. Siamo esseri frantumati e possiamo solo agganciare frammenti di infinito, come certi raggi di sole, che fendono per qualche istante il cielo grigio d’autunno. La nostra storia è un infinito di finitudine; è un alternarsi di pieni e di vuoti, di silenzio e chiacchiere, di illusioni e menzogne. Sentiamo forte il bisogno di ancorarci, di credere nel per sempre, in ciò che è eterno eppure “il mondo è pieno di ragazzi che ridono e piangono nelle costruzioni fallimentari, nel non finito eterno lasciato in eredità dagli adulti”. La morte non è un accidente. L’accidente è la vita! Può sembrare assurdo immaginare la felicità nella disperazione, eppure il contatto con la morte rende tutto più necessario: gli abbracci più intensi, più urgenti le parole, più viva la fraternità di sapersi nella stessa corrente.

«I sentimenti più nobili – aggiunge DI Consoli – li crea proprio la morte. La chiamano tristezza, disperazione, depressione. Io, invece, la chiamo felicità, anche se nessuno si capacita di questa cosa».

Dimenticami dopodomani è la verità di un padre che non sa dire al proprio figlio il perché della vita, che spesso ci ostiniamo a prendere per il verso sbagliato. È un viaggio a Fuorigrotta, una sosta in un hotel a Cassino, un battesimo fatto da solo nel fiume Giordano e con il silenzio di Dio. È un incontro con l’arte, mentre mangi un supplì, comprato con gli ultimi spiccioli rimasti in tasca. È il ritorno del meridionale del Nord in un paese che ora gli è estraneo e ostile. È il viaggio di un ragazzo a Catanzaro, in un camioncino afoso nel crepuscolo calabrese dell’estate del 1990, mentre tutto intorno è un tripudio di manifesti per il concerto di Tina Turner. È il senso della paura, perché fa male tutto ciò che dura, come il radicamento e il non saper dimenticare. La verità è che non siamo forti abbastanza per “scancellare”, per scavalcare un cancello, andare oltre e salvarci. 

Dimenticami dopodomani è la storia di un eroismo che si riduce alle piccole cose, a un dire semplice, diretto, senza palcoscenico e senza fondale. È il percorso di un italiano di mezza età «che ha un bilancio esistenziale medio, perennemente in perdita, niente che possa essere ricordato nei libri di storia. Neanche i fallimenti sono stati memorabili». Un uomo che ha, come tutti, nostalgie, rimpianti e molti ricordi, di cui non sa che farsene. Ha sempre avuto paura di essere deluso, ma anche di deludere, di stancare.  Non ha mai avuto fiducia nella gente ma anche in se stesso, eppure sente un bisogno estremo di stare nel tempo con gli altri, con chi, quando meno te lo aspetti, sa accendere un fuoco nella notte e dare un senso a questa avventura, perché “proteggere” è l’infinito presente del verbo “amare”. (ec)

Vita precaria di Daniela Rabia

È nelle libreria calabresi Vita da precaria per i tipi di Pellegrini, l’ultima opera di Daniela Rabia, scrittrice catanzarese, ormai nota al pubblico locale e non solo. Vincitrice di diversi premi letterari e organizzatrice di rassegne letterarie, l’autrice spiega il testo così nella quarta di copertina del suo ultimo libro: «Vita da precaria è un contributo doveroso che sentivo di dare alla mia vita e a quella di tanti colleghi del “Programma stage” della Regione Calabria, un gruppo di persone che ha lavorato con contratti precari e rinnovi per ben quindici anni. In questo lasso di tempo sono successe tante cose».

«A me è capitato di cercare un senso esistenziale e trovarlo nella lettura e nella scrittura. Ho pubblicato con quest’ultimo tredici libri tra raccolte poetiche, romanzi, collaborazioni a raccolte di racconti, saggi e guide cineturistiche. Ho capito che uno svantaggio può diventare un punto di forza ma anche che “lo straordinario delle cose non ha il gusto o il bello dell’ordinario delle cose stesse che funzionano così semplicemente senza scomodare desideri, sogni, miracoli annunciati».

«Eppure – ha continuato l’autrice – se le nostre vite richiedono di appellarci alla tenacia, alla lotta, alla resilienza estrema dobbiamo farlo perché in gioco c’è una posta altissima: vivere dignitosamente nella nostra amata terra di Calabria. “Che poi la Costituzione giuridicamente lega la dignità al lavoro ma ad andare più a fondo la dignità si lega a se stessa e chi è dignitoso lo è con o senza lavoro.Certo col lavoro è tutta un’altra storia da scrivere”. Un volume da leggere per divertirsi e riflettere. (rl)

Il processo alle streghe di Luigi Greco Tavassi

di ARIEL SAMUEL LEVIN – Luigi Greco Tavassi, avvocato penalista e autore di numerose pubblicazioni, ha fornito un importante volume, Il processo alle streghe (Malleus maleficarum vs cautio criminalis). Il suo grande merito è stato quello di affrontare un tema difficile, che è stato peraltro spesso oggetto di discussioni superficiali, basandosi solidamente sui documenti.

L’autore utilizza come punto di riferimento, per l’inizio della propria ricerca, un testo celebre che ha avuto un’importanza basilare nell’inquietante vicenda dei processi alle streghe, il Malleus maleficarum (Il martello delle streghe). Esso fu redatto dai domenicani H.I. Kramer e J. Sprenger e con ogni probabilità venne pubblicato per la prima volta nel 1486. Due anni prima, appena dopo essere stato eletto al trono di Pietro, Innocenzo VIII li aveva nominati inquisitori delegati a combattere la stregoneria.

Il clima dell’epoca era quello di sospetto ossessivo, di timore che alcune dottrine o credenze potessero indebolire la fede e indurre la popolazione a venerare alcune divinità pagane. La circolazione del libri venne allora sottoposta a censura: ciò che era contrario ai principi della Chiesa doveva essere distrutto. Fu dunque nell’ambito di questa situazione generale che maturò la stagione più violenta e determinata della cosiddetta caccia alle streghe.

L’autore, dopo avere offerto un’introduzione generale alla vicenda che ebbe come protagonisti H.I. Kramer e J. Sprenger, nella seconda parte del libro focalizza la propria attenzione sul contenuto della sezione procedurale e giuridica del Malleus maleficarum, che consta di ben trentacinque punti. Con la sua competenza di esperto di diritto Luigi Greco Tavassi presenta con chiarezza il tipo di accuse per cui si poteva venire incriminati, la procedura giudiziaria che doveva essere seguita e l’eventuale pena da infliggere al reo riconosciuto.

Il terzo capitolo del libro ci fa ritornare indietro nel tempo, offrendo un esame di alcuni documenti di grande importanza che descrivono quale fosse stata la procedura prevista nei confronti degli eretici da parte dell’inquisizione nell’età medievale. Viene così verificato che potevano essere impiegate le minacce – tra cui quella particolarmente terribile del rogo – l’imprigionamento preventivo e la tortura, in modo da costringere l’imputato a confessare. Le pene che venivano normalmente comminate erano estreme. Come sottolinea opportunamente il Greco Tavassi, a quell’epoca non esisteva ancora la possibilità per un imputato di avvalersi di un’assistenza legale.

Nella quarta parte del libro giungiamo al cuore della tematica: le streghe. Il Malleus maleficarumesaltò la centralità della donna assegnando ad essa un ruolo fondamentale nella particolare inclinazione alla stregoneria” (107). Tutta la vicenda prendeva le mosse da una serie di dicerie e di superstizioni, in una parola era frutto dell’ignoranza. Nel 1699 un vescovo polacco mise in luce il fatto che gli inquisitori riuscissero a estorcere confessioni di colpe in realtà inesistenti, prostrando l’imputato con la tortura. Si vociferava di sabba ovvero di donne che volavano a cavallo di scope, di cerimonie sataniche orrende a cui partecipava un animale che rappresentava il demonio.

È merito dell’autore avere evidenziato che, se da un lato, nella maggioranza dei casi, le donne che venivano sospettate non erano nel fiore degli anni, ma anzi abbastanza vecchie, dall’altro invece, alcuni dipinti  hanno rappresentato delle streghe giovani e abbastanza avvenenti.

Nel capitolo V del libro, torniamo indietro nel tempo, a un esame di un più antico testo, peraltro assai interessante: il manuale dell’inquisitore Bernardo Gui, la cui attività s’incentrò sull’individuazione e sull’incriminazione di alcuni gruppi di eretici. In questo caso l’interesse dello studioso non riguarda solo le modalità della procedura giudiziaria, ma anche la descrizione delle credenze che venivano attribuite ai membri di questi gruppi.

Nel capitolo VI, invece, ritorniamo al sedicesimo secolo e all’inizio del successivo, con un esame di alcune opere straordinariamente interessanti, quei manuali di stregoneria in cui gli autori cercarono di individuare vari elementi del fenomeno, compiendo per così dire una sua sistematizzazione. Questi autori trattarono dalla questione da varie angolature, peraltro complementari, e compilarono dei manuali che avevano lo scopo di dimostrare la falsità della magia, aggiungendo alcune valutazioni sul tipo di testimonianze che era lecito prendere in esame allo scopo di incriminare una strega o un eretico, e così via. La gran parte di questi scrittori furono essi stessi degli inquisitori.

Non mancarono altri che invece, coraggiosamente, nelle proprie opere denunciarono l’atteggiamento repressivo e violento dei metodi inquisitori. Scrittori come Friedrich Von Spee non hanno, solo per noi, il merito di illustrarci il livello di ferocia e di irrazionalità che contraddistingueva le azioni dei persecutori, ma – e lo vediamo bene nella sua famosa Cautio Criminalis riflettevano acutamente sulle eventuali colpe che venivano commesse e sui principi che avrebbero dovuto regolare in modo equo le procedure giudiziarie.

I capitoli successivi del libro in esame, infine, sono ricchissimi e documentano eventi e processi di stregoneria o contro gli eretici che ebbero luogo in realtà diverse: anche in queste pagine l’autore rimane fermo nella propria solida impostazione metodologica, che contraddistingue tutta l’opera e che, come si è detto, è basata su di un esame ravvicinato delle fonti documentarie, ma risulta anche ulteriormente arricchita dall’apparato iconografico che la correda. (asl)

IL PROCESSO ALLE STREGHE
di Luigi Greco Tavassi
Herald Editore

L’autore, avvocato penalista, è nato a Crotone e vive e lavora a Roma. È specializzato in Diritto Penale e Criminologia. Ha pubblicato numerosi saggi storici e giuridici, tra cui nel 2005 La vendita di bambini, la prostituzione e la pronografia minorile (Legge 11 marzo 2002 n. 46, edito da CE.DI.S.

[Il Prof. Ariel Samuel Lewin è Ordinario di Storia Romana presso la Facoltà di Lettere e Filosofia della Università degli Studi della Basilicata, Settore scientifico disciplinare L-ANT 03 (Storia Romana)].

“Diario di Lettura e di Letteratura” di Luigi Tassoni

di ELISA CHIRIANOBisogna esser grati a chi scrivendo ci concede di toccare, in modo intimo e profondo, angoli del pensiero, fotogrammi che catturano l’attimo e che si definiscono nel loro divenire. Un diario contiene la narrazione di sé, attinge alla quotidianità, all’ascolto vigile, alla ricerca personale e si arricchisce grazie all’incontro con l’altro. È vita scritta e scrittura della vita; è un promemoria, un modo per auscultare la voce interiore, fatta di tono, ritmo e intensità, e al contempo è uno strumento potente per raggiungere molteplici verità.

È una chiamata all’esserci attraverso connessioni, incidenze, avvenimenti ed eventi che accadono, superando la superficialità delle apparenze e creando legami spazio-temporali. Un diario mette in circolo storie che appartengono a un universo che non ha confini (e non li vuole), che esiste se la parola lo dice e la parola è corpo, carne, vita. È scheggia di brace e luce di astro; nutre sogni e spalanca nostalgie; avanza e infiamma, facendosi memoria o attesa e, intanto, sfugge a noi stessi, che bramiamo l’inesistente. La parola si fa desiderio e il desiderio entra nel corpo-parola, sazia storie e intesse pagine, brulica di vita e passione, avvolge e attanaglia.

A volte essa si impone come un taglio sul foglio, simile a quello che Fontana lascia sulla tela: un segno netto per sancire la volontà di sconfinare, di guardare dietro e aprire la possibilità di una nuova percezione delle cose. Si nutre di studio, ricerca e anche di silenzio, che collega cose lontane, si oppone alla realtà rumorosa, fatta di ferite e di lotta, conduce al senso ritrovato e a volte scardina o collega storie lontane. Si orienta tra retorica e semiotica, perché, come scriveva Umberto Eco, il signore dei segni, “è solo nel silenzio che funziona l’unico e veramente potente mezzo di informazione, che è il mormorio” (Costruire il nemico altri scritti occasionali p.215). 

Diario di lettura e di letteratura, Rubbettino Editore, è un invito ad andare oltre la pagina, lasciandosi guidare appunto dalla parola, che incede tra segni e suoni, significanti e significati, ritmo, riflessione, narrazione, poesia e dialogo. È un atto di fiducia e di amore verso la scrittura, verso il piacere di sfogliare le prime pagine di un romanzo, di un libro di poesie, di un saggio sul bancone di una affollata libreria. È un viaggio nella memoria, da alimentare e tenere viva e accesa, per non dimenticare, per cucire, frammento dopo frammento, anche i nostri naufragi, così come le felicità effimere. Non può avere la durata di un giorno in quanto è chiamata a lasciare traccia del nostro esserci, affinché la vita, grazie ai libri, possa dilatarsi. C’è un verso che ritorna negli scritti di Milo De Angelis «A memoria, dunque, a memoria ci siamo tutti»: non è nostalgia, non vuol dire guardare indietro per sentirsi perduti, la memoria è un essere ed esserci qui ed ora, con la consapevolezza dell’esistenza e della nudità di luoghi amati, della realtà del dolore, delle incidenze dei percorsi quotidiani.

Diario di lettura e di letteratura è un mosaico d’autore in cui vivono cinquantacinque articoli, scritti tra il 1984 e il 2021. Qui il tempo trova il suo spazio, in una prospettiva diacronica e sincronica, attraverso quattro tappe di un viaggio in cui la mèta è il percorso, tra Leonardo Sciascia, che odia la menzogna dei fatti e il silenzio delle idee, e una lettera a Natalia Ginzburg. Seguendo Luigi Tassoni, sulla scia di Italo Calvino (e dei suoi granchi), impariamo a vedere ogni sezione del libro non come un incipit, ma come già storia e narrazione a sé stante. E se la parte si definisce nel tutto, anche il tutto può essere contenuto nella parte, nel frammento che, come scrive Leonardo Sinisgalli, non vuole essere una fortezza costruita con gli stuzzicadenti, ma è un pensiero che si declina a tratti, un disegno che traccia una porzione. Esso consente in effetti un gioco tra le parti, un modo per tenere ben saldo il legame tra chi scrive e ciò che è scritto. Con il saggista, il critico letterario e il semiologo scopriamo tanta bellezza nella sconfinata proposta letteraria del passato e del presente; intravediamo qualche stilla d’infiniti abissi; ci imbattiamo anche in un’importante e inevitabile stroncatura.

Diario di lettura e di letteratura è un libro vitale e, come evidenzia Daniele Benati, si legge come un racconto. Come un prisma dalle molteplici facce, è poliedrico. È un omaggio a ciò che dà sapore al sapere: alla filosofia, al cinema, alla pittura. L’arte incontra se stessa e le mille parti di sé, in una sorta di dichiarazione d’amore per tutto ciò che accende curiosità, desiderio di sosta, studio, riflessione, disvelamento e divulgazione. Può succedere, quindi, di incrociare, tra le pagine, un classico contemporaneo, come Eugenio Montale (che si muove nel solco della tradizione, ma con una proposta profondamente critica con i suoi eterni dubbi sulla fragilità e la precarietà della nostra condizione), oppure si può naufragare nel mare delle infinite domande che si im-pongono sulla scena, in modo apparentemente spontaneo. Qui scopriamo il lettore attento e curioso, il semiologo dei linguaggi creativi e della comunicazione, lo scrittore acuto, ma anche lo studente che, grazie all’incoraggiamento della sua maestra, Eleonora Ansani, inizia ad annotare su un quaderno con la copertina nera alcuni pensieri che le letture accendono la mente.

Nel corso degli anni i quaderni sono diventati centinaia, perché “una cosa è pensare, un’altra è ragionare scrivendo”. Anche i maestri si sono moltiplicati, così come gli incontri e le amicizie. Il lettore potrà ammirare in chiave diversa e originale le meraviglie e i segreti di Mattia Preti o le tele di Andrea Cefaly; superare con Saverio Strati i confini del mondo; entrare nell’universo dei più piccoli in modo giocoso e con proposte attraenti di narrativa impegnata e affascinante, che non rifugge dall’uso in tasca di un amuleto, perché la paura va attraversata e mai messa da parte o derisa.

Il lettore potrà anche nascondersi negli spazi aperti di Trieste, andare dietro le quinte di un film di Fellini e scoprire che il suo cinema vive in stretta familiarità con il percorso creativo della versificazione. La poesia resta quel ticchettio necessario, diventa un’esplorazione sul vissuto, sulla storia, sul pensiero, sulla psiche, sulla parola, e sull’invenzione. Nell’epoca dei flussi veloci della cibernetica, dell’intelligenza artificiale è una sorta di oasi, uno spazio in cui poter sperimentare a oltranza il senso del tempo presente, al di là della superficie delle cose. Essa sarà sempre necessaria rispetto al povero mutismo del mondo. E così l’attento lettore potrà conversare con Milo De Angelis; seguire Andrea Zanzotto nelle sue sperimentazioni linguistiche, illuminate da neologismi, balbettamenti, disegnini, di spazio reinventato da lingue diverse; entrare con pazienza e passione nei dialetti italiani; auscultare la poesia nel modo meno convenzionale che conosciamo; cogliere il debito di riconoscenza nei confronti dei versi di Achille Curcio, che ha forgiato un proprio dialetto, muovendosi in un’area linguisticamente ricca nella parte jonica della Calabria e che grazie allo spazio del suo speciale fonoritmo, ha creato il luogo del dicibile, il tempo in cui tutte le cose possono essere dette. Diario di lettura e di letteratura non è quindi solo un diario e non racconta solo di lettura e letteratura.

È una dichiarazione d’amore verso la parola, un invito rivolto al lettore ad avere coraggio, farsi avanti e non aspettare, fidandosi di critici attenti e scrupolosi che sappiano osare e scardinare luoghi comuni e situazioni di comodo; è la fiducia riposta nel piacere della lettura di qualità; è il desiderio di lasciarsi sedurre dalla Bellezza come pensiero, linguaggio, percorso e anche impegno. Leggo, dunque sono! (ec)

 

Un saggio di Michele Drosi su “Civiltà Socialista”

di BRUNO GEMELLIIl quarto numero della rivista Civiltà socialista (febbraio 2024, 200 pagine) – rivista politica diretta da Fabrizio Cicchitto – ha ospitato un contributo dello storico calabrese Michele Drosi che è andato a ripescare il pensiero di Thomas Piketty, economista francese, professore di economia presso la École des hautes études en sciences sociales, presidente associato presso la Ecole d’économie de Paris – Paris School of Economics. Un pensiero originale che non è sfuggito a Drosi, impegnato in tutto il ventaglio del riformismo-gradualismo di origine socialista. Infatti Drosi, dirigente regionale del Partito democratico, rappresenta la continuità tra le origini socialiste di Turati e Nenni e le evoluzioni craxiane dell’ultimo, tragico,  periodo.

Piketty s’è guadagnato la sua fetta di notorietà diventando famoso per i suoi studi sulle disuguaglianze economiche e dello sviluppo delle nazioni; infatti ha fondato e coordinato il World Inequality Database. È autore di 18 opere, la più notevole delle quali è “Il capitale nel 21º secolo” (2013), venduta in più di 2,5 milioni di copie in tutto il mondo e adattata in un documentario, così come il suo seguito “Capitale e ideologia” (2019).

Per tornare al commento di Drosi sulla rivista di Cicchitto, nell’incipit del suo pezzo esordisce: «Thomas Piketty nel suo nuovo libro “Capitale e Ideologie” (La nave di Teseo, 2020) sostiene che bisogna andare oltre il dogma della proprietà privata e del libero scambio e bisogna dare più potere ai lavoratori nelle imprese. Solo così ci sarà una società più ricca e più eguale. Per fare tutto ciò è necessario superare il capitalismo, guardando al ventesimo secolo e chiedendosi quali sono le idee che hanno funzionato meglio, quelle che hanno fatto crescere la ricchezza e hanno ridotto le disuguaglianze, che secondo Piketty sono tre: la giustizia educativa, più diritti ai lavoratori e la progressività fiscale per redistribuire ricchezza e benessere». Da qui, continua Drosi, «la giustizia educativa è il fattore principale con cui si può ridurre l’ingiustizia sociale e aumentare la produttività economica, nel senso che chi oggi frequenta le università, dovrebbe pretendere una formazione migliore, adeguata ai suoi bisogni, mentre spesso questo non accade. Per quel che riguarda l’esigenza di garantire più diritti ai lavoratori e una maggiore progressività fiscale, è necessario andare oltre alle relazioni di pura proprietà privata. Nel secondo dopoguerra c’erano Paesi come la Svezia e la Germania, nei quali i lavoratori e le loro rappresentanze avevano più del 50% dei voti nei consigli di amministrazione di alcune grandi imprese, indipendentemente dalle quote che possedevano. E in più, detenevano pure il 10% o il 20% delle azioni dell’impresa. Questo, rileva Piketty, è un altro modo di intendere la proprietà, che è già esistito, e che ha mostrato ottimi risultati nella pianificazione delle strategie a lungo termine delle imprese. Insomma, per avere più prosperità economica c’è bisogno di una economia più inclusiva. Questa, per Piketty, è la via giusta per superare il capitalismo. E nel suo libro propone “un nuovo socialismo partecipativo”, che si basa sulla decentralizzazione e sulla distribuzione della proprietà e del potere decisionale. E, quindi, una società scalabile attraverso la formazione, nella quale tutti partecipano alle decisioni e nella quale le rendite di posizione come le ereditate finanziano beni pubblici attraverso alla progressiva redistribuzione fiscale. È questo, in buona sostanza, un socialismo che si fonda su una proprietà di grandezza relativa, conclude Piketty, un nuovo socialismo, che magari a molti non piace come definizione, ma che è l’unica via disponibile per poter parlare di superamento del capitalismo».

Per molti il socialismo italiano è finito con Nenni, De Martino e Lombardi. Poi è arrivato Craxi. Tutta un’altra storia, ma, per Michele Drosi, il filo rosso continua. Anche perché, quando nacque la rivista (novembre 2022), in una masseria del leccese, il direttore ne spiegò il titolo: «È provocatorio, perché evoca in primo luogo l’aggettivo socialista in una situazione in cui il Partito socialista è stato eliminato con un’operazione eversiva nel ’92/’94». Le difficoltà attuali e storiche del Pd (che è nato nel 2007) risiedono, forse, nel fatto che è nato con due gambe, quella comunista e quella democristiana; le sono mancate quella socialista e quella laico-liberale.

Nel suo saggio Drosi dimostra di avere quattro gambe. (bg)