di FRANCESCA OREFICE – Non so se perché, probabilmente, il sentire femminile abbia qualcosa di comune, condiviso, molteplice ma sistemico come la geometria di un frattale – quella che misura la forma della natura che non è regolare -, qualcosa che va oltre il tempo e quello che la storia fa scorrere intorno, ma il racconto delle storie umane di cinque donne, diverse, fa sembrare che questo romanzo possa essere raccontato nel dopoguerra come oggi e sicuramente anche domani. Almeno da questo punto di vista, quello del sentire.
La vita trascorre nel racconto di una donna bambina, più donna che bambina, quelle che non c’è tempo per le cose dell’infanzia, per i giochi, per le cose che fanno tutte, a quell’età. Ed anche se sembra che l’urgenza dell’età adulta sia richiesta dalla necessità, dalla storia, dagli accadimenti, dalla miseria di una condizione subita, più credibile appare che la posizione umana delle protagoniste femminili del racconto sia un fatto che deriva dalla propria natura, una faccenda di indole, di come è disegnata la rete delle sensazioni femminili, dalla vicinanza al mondo dei libri, dalle parole, dalle possibilità e vedute concesse a chi di un mare che allestisce la scenografia della propria storia, riesce a chiedersi cosa esista dietro la retta dell’orizzonte e non solo della porzione di onde che si mostra a qualsiasi sguardo, anche distratto. ‘Perché il mare c’è sempre Anna, anche quando non si vede, il mare è infinito’.
Una natura tuttavia malefica come un presagio funesto: “un’altra femmina? Mamma mia, che guaio! Un’altra bocca da sfamare e per di più è femmina, le disgrazie non vengono mai da sole!’, così veniva acclamata la sentenza irrevocabile della nonna alla notizia della nascita della terza figlia, portata dalle prime due insieme a dolcetti di mandorle, unica deroga quasi festosa alle ristrettezze economiche, che non avrebbero addolcito nemmeno per un istante l’emanazione pubblica e definitiva, inappellabile, di una statuizione titolata dall’esperienza e dalla saggezza dell’età.
Una storia familiare, nel dopoguerra, prima del boom economico, difficile, caratterizzata da un continuo peregrinare, fisico e morale, conseguente ad una scelta di libertà dell’uomo di famiglia – un giornalista che non avrebbe potuto fare altro che quel mestiere – una decisione unilaterale, patriarcale, imposta, non richiesta, anche se in fin dei conti proposta con la tenerezza di chi non decide per gli altri, ma per il dovere, per la verità; ed alla verità si può dire solo sì o no. Soprattutto da parte di chi la deve scrivere, per mestiere.
Lui, uomo, generato da un atto di violenza tutto maschile, non avrebbe mai concesso che nessuna delle sue creature fosse toccata.
E una donna madre che porta sopra la testa – come un cesto di cose necessarie al sostentamento, cibo, vestiti, ghiaccio, corredi personali ricavati dagli scarti delle possibilità, – il peso della responsabilità della famiglia e delle necessità materiali di tutti ma che proprio con quella testa, pesante e affollata, colta, intellettuale, incessante, rendeva romantico e vivo l’immaginario della famiglia perché anche se la vita è invadente, oppressiva, troppe regole, troppi bisogni, troppi limiti, i libri potevano concedere un mondo immaginario con un copione da scrivere e la possibilità di diventare, per quelle piccole creature nate donne, spettatrici di se stesse.
Le parole lo sfondo magico del racconto, rituali, ritmiche, femmine, a volte traditrici di una verità da preservare, perché sincere – se scritte sanciscono una dichiarazione, una testimonianza, un testamento – adulte ma anche abbastanza docili da rimanere per tutto il racconto la litania materna e ancestrale di una ninna nanna che può concedere, per tutta la vita, il contatto con il mondo delle cose che ri-guardano l’infanzia, il posto dove l’essere femmina cerca e trova la propria origine, essenza, presenza, potenza.
Le stesse parole che avrebbero accompagnato la vita di Anna, perché le parole, anche quelle non dette, didascalie tralasciate alla necessità della verità, pesano la vita ma anche la morte, quella di un padre per una figlia amata più delle parole stesse che, tuttavia, soltanto, ne potevano contenere il senso: “come sei bella Anna, come sei bella”.
‘Non sapevo che non avrei mai ricevuto da nessuno parole così avide, totali, e che stavo vivendo la scena d’amore più grande della mia vita’. (for)
DA CHE PARET STA IL MARE
di Annarosa Macrì
ISBN 9788849837896
Rubbettino Editore