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Mons. Attilio Nostro è il segretario della Conferenza Episcopale Calabra

I 30 anni di sacerdozio di Mons. Attilio Nostro

di PINO NANOUn compleanno importante per la Chiesa di Calabria. Parliamo dei 30 anni di sacerdozio di Mons. Attilio Nostro, attuale Vescovo della Diocesi di Mileto Tropea.

Mons. Nostro, nato il 6 agosto 1966 a Palmi, entrato giovanissimo nel Pontificio Seminario Romano Maggiore, ha conseguito il Baccalaureato in Filosofia e Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana e la Licenza in Studi su Matrimonio e Famiglia presso la Pontificia Università Lateranense. È stato poi ordinato sacerdote il 2 maggio 1993 per la Diocesi di Roma.

30 anni di sacerdozio, dunque, al servizio della Chiesa. Iconica la pagina del Vangelo che mons. Nostro sceglie per la cerimonia di questo suo trentesimo compleanno con la Chiesa.

«Nella pagina di Vangelo che abbiamo appena ascoltato Gesù, nel Tempio per la festa della Dedicazione, aveva nel cuore i sentimenti che anche io ho in questo momento, anche se per ragioni diverse. Gesù perché voleva che tutti si orientassero al Padre, io perché, oltre a questo, devo vincere la tentazione della vanità e della superbia».

Il concetto di base a cui il Vescovo fa riferimento per raccontare i suoi 30 anni di vita ecclesiastica è quello della “serietà”.

Dice testualmente: «Ringrazio i nostri amati sindaci, il procuratore, il questore, i comandanti della Guardia di Finanza e della Polizia.  E soprattutto ringrazio Dio per le tante persone serie che sono intervenute, perché c’è bisogno di serietà in un momento come questo. E questa esigenza di serietà ci viene confermato dal rimprovero chiarissimo che Gesù rivolge alle persone che gli dicono “Fino a quando ci terrai nell’ incertezza? Se tu sei il Cristo dillo a noi apertamente”. “Ve l’ho detto, e non mi credete. Le opere che io compio nel nome del Padre mio, queste danno testimonianza di me».

Poi racconta un dettaglio privato della sua vita.

«Pochi giorni fa sono andato a Roma per unire in matrimonio una coppia i ragazzi che ho conosciuto quando avevano forse dodici anni, e mi hanno proposto una delle letture che noi sacerdoti leggiamo più frequentemente in questa occasione: l’inno alla carità della prima lettera ai Corinzi… Quando sono arrivato davanti a questi due sposi ho pensato: “Adesso cosa dico, questa lettura l’ho letta e spiegata centinaia di volte”. E invece sono stati loro a spiegarla a me. Ho capito lì, davanti a loro due, ai loro sguardi innamorati, cosa ci vuole dire san Paolo nell’inno alla carità. “Se non avessi la carità non sono nulla”».

La “carità”, dunque, come dote di riferimento continuo: «Nessuno – dice Mons. Nostro – deve essere idolatrato; questo è il rischio che correva anche Gesù con i suoi discepoli, che lo idolatrassero, che si facessero un’immagine falsa di Lui». 

La “carità”, come ideale di vita: «Scusate, ma chi di noi di fronte ad una offesa resta lì? Chi di noi non scappa, non fugge, o non accusa a sua volta? Gesù non scappa, perché desidera farci capire fino a che punto lui ci ami. Ed è anche quello che sta dicendo tra le righe San Paolo: voi siete convinti di avere a che fare con un apostolo? Forse addirittura con un super-apostolo? Ebbene, io non sono niente. Perché se Dio mi sottraesse l’amore con cui mi ha amato, io scomparirei dalla vostra vista, sarei totalmente inconsistente. Se c’è una qualche sostanza in me che voi potete apprezzare, dice san Paolo, è la carità che io ospito nel mio cuore e che appartiene a Dio».

La “carità”, dunque, come arma ideale per liberarsi “dai nostri scafandri, dalle nostre apparenze, dalle tante formalità”, ma accanto alla carità serve anche tanta verità.

«Allora ecco che questa celebrazione ci fornisce l’occasione per provare a dirci quale è la verità. La verità della nostra vita non è conquistare traguardi, diventare qualcuno o qualcosa, avere una funzione o un ruolo. Questo è sì importante, ma la cosa essenziale è se lo fai per amore. Qualsiasi cosa tu faccia, anche sgridare un bambino: se lo fai con amore, se lo fai per amore, questa cosa ha diritto ad esserci perché è quello che fa Dio».

30 anni di sacerdozio sono tanti, e anche sufficienti, per un bilancio della propria esistenza.

«Da ieri, nella preghiera, ho provato a ripercorrere questi trent’anni: non solo le pagine belle, facili, pubbliche, ma anche quelle un po’ più difficili, un po’ meno pubbliche, un po’ più private. E in tutte queste realtà mi sono accorto di una cosa bellissima: Il fatto che Dio non si è mai, mai, mai, mai allontanato da me. Anche quando i dubbi, quando le convinzioni, le presunzioni personali mi dicevano tutt’altro, alla fine mi sono sempre dovuto accorgere di quanto Dio voglia bene alle sue pecorelle, di quanto non le giudichi in base a quello che riescono a fare o a diventare. Ama tutti, dal più piccolo al più grande, allo stesso identico modo; anzi, ama di più i peccatori, ma non perché se lo meritino. Li ama perché non è una questione di merito ma di gratuità, e ci vuole più amore per amare un peccatore».

Il messaggio di don Attilio è chiaro, e va dritto al cuore: «Invito i nostri sacerdoti a fare questa stessa esperienza: quanto sarebbe bello ripercorrere la propria vita senza partire dai risultati conseguiti. Anche i fallimenti sono fondamentali; non solo per imparare a vivere ma soprattutto perché la croce stessa da un punto di vista umano, da un punto di vista strategico, da un punto di vista logico, è un fallimento. Ed è bellissimo il fatto che Gesù sulla croce si affidi e si arrenda al Padre dicendo: fai tu, io mi lascio amare, io mi lascio andare, io mi consegno a te».

Carità, verità, ma anche amore verso gli altri: «Perché è così che fa Dio.  Dio è il padre di tutti, e un papà non allontana i suoi figli, anzi li avvicina soprattutto quando sono sporchi, li avvicina soprattutto quando si sentono indegni, li avvicina soprattutto quando pensano di aver smarrito la strada di casa. È lì che il papà tira fuori il suo cuore. È lì che il papà tira fuori il suo amore. Che il Signore faccia fare a tutti noi questa esperienza meravigliosa di un cuore paterno, del   cuore di un pastore che non ci molla mai. Che sta sempre con noi. Che non sta lì a guardare successi e insuccessi, celebrazioni o non celebrazioni, ma che nel segreto del nostro cuore ci fa dire quello che Benedetto XVI ha avuto la lucidità e il coraggio di dire prima di morire: “ti amo Signore”».

Sullo sfondo, ma solo sullo sfondo, la foto sbiadita di un giovane sacerdote che viene benedetto da Papa Giovanni Paolo Secondo. Quasi irriconoscibile, ma il giovane sacerdote è proprio lui, don Attilio Nostro. (pn)