«Anche il principe più assoluto deve fare affidamento su resoconti e informazioni ed è dipendente dai suoi consiglieri. Davanti a ogni camera del potere si ha accesso all’orecchio del potente, un corridoio verso la sua anima. Un’anticamera che, nel regime demo-burocratico moderno, la tecno-democrazia, è popolata da tecnici che talvolta eseguono meramente e talaltra desiderano oppure esercitano direttamente il potere».
Nel suo Dialogo sul potere, scritto nel 1954, Carl Schmitt descrive una realtà che non ha perso di consistenza ai giorni nostri e che anzi è stata posta in risalto dalle questioni, generali e particolari, della pandemia. Proprio quest’ultima ha anzi accelerato il processo di tecnocratizzazione, dimostrando al tempo stesso i limiti della scienza e della tecnica quando sono richieste risposte di tipo politico, a tutela di tutti gli interessi in gioco.
Il virus si è fatto beffa di un mondo dominato dall’ansia di fornire le risposte giuste per ogni evenienza, della perenne tentazione di avere sempre tutto sotto controllo. Si è continuato a pensare che quel qualcosa di male non stesse capitando a noi, e che di sicuro tutto sarebbe stato risolto nel giro di un mese. Invece, non è così, ed in genere non lo è mai. Anche oggi che non si respira l’aria di morte della primavera scorsa, si vive l’ansia legata ai vaccini, a un traguardo che sembrava a portata e invece si allontana. Ciò è il sintomo di una società a disagio nel prendere le dure decisioni di cui v’è bisogno, riflesso delle debolezze della politica che, abbandonati gli ideali e le visioni di lungo respiro, anche religiose, si è ridotta in gran parte a mera comunicazione e propaganda. E con la politica sospesa o in ritirata, si è assistito ad una ulteriore deresponsabilizzazione di essa a vantaggio degli apparati non-politici, tecnici, scientifici, burocratici, spesso anche finanziari, che hanno finito con il determinare sempre più la vita dei cittadini senza neppure il rischio di dover essere sottoposti al controllo ed al giudizio dell’elettorato, nella logica di quel paradigma tecnocratico che, se assolutizzato, produce quegli effetti così descritti da Papa Francesco nella Laudato sì: «La tecnologia che, legata alla finanza, pretende di essere l’unica soluzione dei problemi, di fatto non è in grado di vedere il mistero delle molteplici relazioni che esistono tra le cose, e per questo a volte risolve un problema creandone altri».
Leggere questi fenomeni, studiarli, comprenderli, non vuol dire sminuire l’apporto di competenze o capacità che sono irrinunciabili e caratteristica ineliminabile nell’assetto istituzionale dello Stato moderno. Neppure significa essere disfattisti o scettici: al contrario, è una spinta a confidare nell’ingegno umano e sapere che – come la storia insegna – siamo sempre stati capaci di venire a capo dei problemi che ci si sono posti di fronte, ogni qual volta la mente ha dialogato col cuore e la scienza è andata a braccetto con la fede. Solo da questa apertura potrà ricominciare a fiorire la nostra umanità e realizzarla completamente, per conservare il diritto di essere chiamati uomini ed esserlo davvero.
+ Vincenzo Bertolone
Presidente Conferenza Episcopale Calabra
Archivescovo della Diocesi di Catanzaro-Squillace