SOLO 17MILA HANNO RICHIESTO IL CONTRIBUTO A FONDO PERDUTO RISERVATO A CHI NON HA PENDENZE FISCALI ;
Serrande abbassate: quanti esercizi non riapriranno?

La Calabria non “riapre” le imprese più deboli
In migliaia hanno rinunciato ai 2.000 € di aiuti

di SANTO STRATI – Quanto si temeva si è regolarmente realizzato: al bando “Riapri Calabria” che concede 2.000 euro alle aziende calabresi costrette all’inattività per due mesi a causa del lockdown, sono arrivate meno domande del previsto. Ci sono 40 milioni di euro per almeno 20mila aziende: hanno presentato la domanda col click-day solo 16.980 imprenditori (e si erano registrati 17.520). Mancano all’appello 3.020 aziende, le più deboli, le più in difficoltà. Quelle che non hanno potuto sottoscrivere l’autocertificazione di non avere pendenze con l’Erario (imposte e tasse arretrate) o con gli istituti previdenziali (i contributi per i dipendenti). E quanti altri imprenditori non hanno nemmeno tentato di fare due conti per estrarre la percentuale di perdita che li avrebbe qualificati per l’aiuto regionale? Aiuto modesto, ma utile e importante in questo deserto di iniziative finanziare a favore di chi ha dovuto interrompere l’attività, continuando a pagare i costi fissi dell’impresa: affitti, utenze, anticipazioni di cassa integrazione e quant’altro.

Da questo punto di vista l’aiuto regionale di “Riapri Calabria”, pur offrendo una boccata d’ossigeno (fino a 2000 euro a fondo perduto, cioè da non restituire) a svariate migliaia di aziende, ha fallito l’obiettivo principale, quello di venire incontro agli imprenditori con maggiori problemi. Come si ricorderà, all’inizio era stato previsto l’obbligo di presentare il cosiddetto Durc (documento unico di regolarità contabile) che viene rilasciato dall’Inps alle aziende per certificare che versano regolarmente i contributi sociali e non hanno debito con lo Stato. La mezza rivolta degli imprenditori e il suggerimento di molti commercialisti ha fatto abolire tale obbligo, sostituito però da un’autocertificazione, con evidenti rischi penali in caso di dichiarazione mendace, che molte aziende non hanno potuto sottoscrivere. Quanti imprenditori in difficoltà – e non solo per l’emergenza covid – hanno preferito qualche volta pagare gli stipendi ai dipendenti e rinviare (sottolineiamo rinviare non evadere) i versamenti dovuti per tasse e previdenza? Il 2019 non è stato un anno brillante per le imprese, i fatturati hanno registrato, in alcuni casi, vistosi cali per minore disponibilità di spesa dei consumatori, i pagamenti della Pubblica Amministrazione più volte promessi, pur in presenza di larghissimi ritardi, non sono arrivati e così diversi imprenditori hanno dovuto fare i conti con la mancanza di liquidità. Non supportata in alcun modo dagli istituti di credito in condizioni “normali” e ancora oggi mal gestita nonostante la garanzia totale da parte dello Stato.

Il Covid, con la sua terribile scia di poveri morti cui è stato persino negato un funerale, ha provocato altresì un’altrettanto disastrosa epidemia sociale nell’economia reale del Paese. Alla mancanza di liquidità è stato risposto con interventi complicati e resi ancor più inattuabili dall’incapacità delle banche di intuire la gravità della situazione. Ma a quale genio delle finanzia e dell’economia è potuto venire in mente di far gestire alle banche il famoso decreto da molti ribattezzato di “illiquidità”? Come si è potuto pensare di affidare a chi ha affossato l’economia reale del Paese con la negazione del credito, soprattutto nel Mezzogiorno e in particolar modo in Calabria, ad aziende sane, che garantivano posti di lavoro e imposte per lo Stato?

Il dramma del credito negato in Calabria ha spalancato, molto spesso – come ha denunciato più volte il procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri – le porte all’usura mafiosa. Di fronte alla minaccia di catastrofe finanziaria, di fronte all’indifferenza degli istituti di credito, facile cadere in mano agli usurai, ancora più facile cadere preda all’usura della ‘ndrangheta che mira a impossessarsi di attività produttive, negozi, esercizi pubblici, i cui titolari alla fine non riescono a pagare gli interessi stratosferici richiesti. L’alternativa è chiudere, perdere tutto, visto che le banche sono assenti e il “compare che si offre a dare una mano” in realtà ha già messo gli occhi sull’azienda per conto proprio o del capobastone di turno.

Le banche hanno una gravissima responsabilità nella crisi economica pre-Covid: da tempo hanno smesso di esercitare il mandato che la società imponeva loro, cioè raccogliere risparmio e dare prestito alle imprese, preferendo la più facile via della finanza creativa. Zero rischi (apparentemente, ma la cronaca ci ha raccontato un’altra verità) al posto di stare appresso a “quattro morti di fame di imprenditori” in cerca di spiccioli per investire in produzione e lavoro.

Figurarsi nel post-covid cosa sono state capaci di inventarsi le banche pur di non dare denaro agli imprenditori. Forti di un decreto che andava buttato nel cestino e completamente riscritto, hanno accampato mille impedimenti, a loro dire imposti dalla legge bancaria, per dire no a prestiti che non sarebbero mai potuti finire nella categoria del NPL (non performing loans), ovvero dei crediti inesigibili, visto che c’è la garanzia totale – ripetiamo totale – dello Stato. E questo per i prestiti fino a 25mila euro (nella misura percentuale del 25% del fatturato dell’anno precedente). I numeri parlano da soli: il decreto è dell’8 aprile – sono già passati due mesi – ed è stato evidenziato che solo 1 prestito su due (fino a 25mila euro) e uno quattro (per i prestiti fino a 800mila euro) arriva alle imprese che lo hanno richiesto. Tanto per spiegarci meglio, su 559.139 domande presentate per il “mini” prestito fino a 25mila euro, sono state accolte 290.114. È andata peggio per le imprese che volevano investire nella produzione, richiedendo prestiti garantiti al 90% dallo Stato: accolte o erogate 11.663 domande a fronte di 48.252 richieste (poco più del 24%).

Gli istituti di credito hanno giustificato il ritardo perché il personale era ancora in smart working (neanche dovessero contare a mano i quattrini) e poi perché andava rispettata la procedura prevista dalla legge bancaria: presentazione della domanda, accoglimento, erogazione. Questo potrebbe andar bene in condizioni “normali” non nell’emergenza in cui eravamo e da cui non siamo ancora usciti. Per non parlare poi dei prestiti “importanti” sui quali – nonostante la quasi piena garanzia fornita dallo Stato, qualche banca ha ritenuto di avviare la classica procedura di finanziamento: una montagna di documenti, bilanci certificati, situazioni patrimoniali, business plan, dichiarazioni e autocertificazioni, ecc. ecc. per poi mandare la richiesta al vaglio della sede centrale, cui spetta l’ultima parola. Per farla breve se avete mandato qualche volta al diavolo il responsabile della vostra filiale, questi può permettersi il lusso di respingere la vostra domanda, adducendo qualsiasi pretesto utile per il comitato di credito della banca stessa. Ma allora, a cosa serve la garanzia statale se qualche istituto è arrivato persino a chiedere la fidejussione dei soci a ulteriore garanzia del prestito? In base a quale maledetto criterio imbecille si pensa di far ripartire il Paese se si blocca l’economia reale, quella dei piccoli imprenditori, dei commercianti, degli artigiani, dei ristoratori, quella che versa regolarmente il 16 di ogni mese l’F24 con tasse e contributi e permette allo Stato di pagare stipendi ai burocrati cialtroni che stanno mandando all’aria il Paese?

Il discorso è lungo, fermiamoci alla Calabria. A conti fatti avanzano quasi 5 milioni di euro dal fondo dei 40 previsto per il bando “Riapri” (sempre che vengano accolte tutte le 16.980 richieste): cosa si farà con quei soldi “avanzati”? L’assessore al regionale al Lavoro Fausto Orsomarso ha detto che saranno inglobati nel secondo bando, quello che prevede il sostegno all’occupazione, finanziando un terzo dei contributi dovuti se si mantiene stabile l’occupazione pre-covid.

Andava sicuramente fatto qualcosa di diverso, troppe categorie sono state escluse, pur essendo rimaste inattive nel periodo del lockdown. Occorre che la Regione s’inventi qualcosa per le categorie più a rischio d’usura.

La richiesta dell’autocertificazione dell’assenza di irregolarità amministrative non ha premiato i più virtuosi, ma le aziende più ricche, quelle che non hanno avuto difficoltà a versare tasse e contributi. Le altre, le più deboli, non certo gestite da “evasori fiscali”, sono rimaste a bocca asciutta. Con due opzioni: chiudere e mandare a casa i dipendenti, o cedere ai prestiti “facili” della ‘ndrangheta.

Senza bisogno di consultare la palla di cristallo, facile prevedere che un gran numero di saracinesche resteranno abbassate. E la bomba sociale della disoccupazione ,che già in Calabria era a livelli insopportabili scoppierà, in autunno, se non prima. A settembre ci saranno le elezioni in buona parte d’Italia (e a Reggio) dove non mancherà la solita abbondanza di promesse, ma questa volta nessuno starà ad ascoltarle… (s)