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La missione visionaria e identitaria e digitale di Calabria.Live

di MAURO ALVISI – Prevale oggi ancora una visione schiacciata e semplicistica del rapporto che gli italiani residenti o emigrati, con le loro frammentate e peculiari appartenenze regionali, localistiche, mantengono o intrattengono con i mezzi di comunicazione classici e digitali. I quali, a vario titolo editoriale o radicale del progetto d’informazione, tentano una narrazione identitaria del Paese o di parti rilevanti dello stesso quanto più distante dagli stereotipi arcaici, tipici di una iconografia, di una memetica neorealista, che il cinema italiano ha portato nel mondo con grande e diffuso merito, contribuendo a sedimentare caratteri narrativi che si sono installati nell’immaginario collettivo, finendo per costituirne dei veri e propri recinti espressivi dell’identità di una nazione, di fatto costituita di evidenti diversità popolari.

Da tempo si è aperto il problema della costruzione dell’identità e delle appartenenze, delle radici e dei marcatori territoriali connotativi di intere generazioni di “nativi mediterranei“ come io definisco coloro che spesso vivono in una sorta di “riserva culturale coatta“, la gente del mezzogiorno italiano, (Alvisi-Mortelliti Meditans 2025), così come a loro volta gli indiani d’America nelle loro.

Il bisogno autentico di intercettare e dare voce ad una nuova narrazione indipendente, libera e profonda, mai scontata, dei tratti identitari e identificanti di uno stile di vita, dentro a nuove cornici di senso collettivo.

È uno scenario cangiante, in repentina evoluzione e altrettanto rapida trasformazione, che può essere raccontato solo mediante un’osservazione quotidiana, che ne diventa osservatorio.

È quasi una nuova odissea, priva di un’Itaca a cui tornare, muoversi nel racconto di territori, spesso terre di mezzo del mezzogiorno, come Sicilia, Calabria, Puglia, Basilicata, Campania, Abruzzo e Molise, sballottati in una continua tempesta mediatica degli eventi. Tra evidente e cogente crisi del modello globalizzante, messa in discussione di una società multi etnica e multiculturale che rischia di insediarsi, disintegrando i valori autoctoni pregnanti della storia e della tradizione di un territorio. Con risposte che spesso sono convulse, difese impulsive e non ragionate a sufficienza, prive di una pianificazione strategica delle nuove convivenze, che invece che integrare e includere finiscono per disintegrare ed escludere. Termini come rinserramento territoriale sono indecifrabili dalla gente comune e ho il sospetto che lo siano anche per chi il territorio ha il compito di governarlo e gestirlo politicamente.

Sostituiteli con desertificazione dei borghi e delle aree interne e fragili del mezzogiorno, e anche qui non è che abbiamo poi progredito di molto. Per questo diventa irrinunciabile la funzione di raccordo e racconto mediatico dei territori nativi, spesso territori lenti, distanti dall’alta velocità delle decisioni oltre che del collegamento ferroviario. Abbandonarli a se stessi o alle ricorsive litanie dei telegiornali del servizio pubblico nazionale e regionale, o di incursioni, spesso disforiche e lesive, di servizi speciali degli ormai esigui (ed esangui nella metafora della loro decrescente readership) quotidiani nazionali, che non fanno che accentuare a tutta pagina la colpa di una latitudine povera, significa condannarli all’annunciato e irreversibile declino.

Gli ultimi rapporti del Censis invitano a focalizzare meglio l’attenzione sul senso di abbandono, vulnerabilità e risentimento di quei nativi mediterranei che non trovano e non si ritrovano in una narrazione identitaria, coerente e volta al loro proprio, ormai ineludibile e necessario, riscatto reputazionale.

Il cambiamento dell’informazione e della comunicazione identitaria dei territori è qualcosa che la politica, le istituzioni centrali e periferiche dello stato, gli intellettuali, gli studiosi massimamente impegnati a dibattere sui cd divari territoriali, stanno trascurando, più nell’ignavia che nell’ignoranza del tema.

Lo spazio per la personalizzazione dell’impiego dei media e dei new media digitali, senza la cui esistenza, basata sul necessario sostegno pubblico e privato, si cadrebbe nella voragine della disintermediazione del vissuto popolare con la conseguente polarizzazione dell’informazione, va restringendosi di pari passo con la improba sostenibilità imprenditoriale, di tenere in piedi iniziative qualitative d’informazione, in verità puntualmente e largamente lette, quanto puntualmente e largamente disertate dagli stakeholder del territorio.

Una miopia suicida anche in termini di spessore democratico del villaggio mediatico. Occorre prendere coscienza del ruolo giocato da iniziative editoriali di fortissimo impegno imprenditoriale, come quelle del quotidiano digitale Calabria LivŒ, che da anni incessantemente racconta quotidianamente una terra straordinaria ai suoi abitanti, ai calabresi e agli italiani residenti o espatriati per cercare fortuna. Una comunità di lettori cresciuta nel tempo fino a superare il mezzo milione di persone. Dati che l’editore, il giornalista reggino Santo Strati, ha deciso da poco di portare a certificazione scientifica internazionale, ormai nelle sue fasi finali accertative, o come piace agli inglesi patent pending.

Si è aperta una nuova frontiera per il mondo dell’informazione identitaria e reputazionale dei territori. Una frontiera che andrebbe decisamente varcata. Ci troverete i migliori sforzi editoriali di veri visionari e missionari del territorio come lo stesso Strati.

Gente incorruttibile, che non appartiene ad alcuna militanza di convenienza e scambio elettorale del consenso. Gente al servizio del proprio popolo. Nativi intelligenti, di cui il Mezzogiorno è pieno e che il Mezzogiorno schiva riempendosi la bocca di banali giustificazioni.

Se facciamo ciò che abbiamo sempre fatto avremo ciò che abbiamo sempre avuto.

(Jim Rohn, massimo filosofo della motivazione 1930-2009)

(mal)