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Aspromonte. La terra degli ultimi

L’Aspromonte di Mimmo Calopresti, uno struggente racconto di Calabria al cinema

Piacerà e non poco, ma non solo ai calabresi, il bellissimo e struggente nuovo film di Mimmo Calopresti, Aspromonte la terra degli ultimi, da domani nei cinema di tutt’Italia. È film-verità di un fatto avvenuto realmente, quando la povera gente di Africo abbandonò il paese, devastato dall’alluvione del 1951, per scendere alla marina (Africo Nuovo). È un racconto magnifico, dove il regista di Polistena guida senza la minima incertezza una grande massa di figuranti, mescolati agli attori del film, straordinari interpreti a partire da Valeria Bruni Tedeschi (la maestrina milanese andata a insegnare nel posto più sperduto dell’Aspromonte) a Marcello Fonte (eccezionale “poeta” e, cantore e guida per i giovani del paese, che si costruisce una “casa per morire non per viverci”) a un eccellente Francesco Colella, un intenso Marco Leonardi e a un preciso Sergio Rubini (il temuto boss del paese). Il casting, come il film, è perfetto, tanto che a Calopresti vanno riconosciuti uno stile e una capacità caravaggesca nelle rappresentazione delle scene e nei personaggi. Non è folclore, ma vita vera, miseria e disperazione, che si respiravano davvero in alcuni paesini dell’Aspromonte tanto da ispirare un clamoroso servizio fotografico del rotocalco più importante di allora, Epoca, e suggerirono più tardi il bel libro di Corrado Stajano, il giornalista-scrittore che raccontò quell’esodo verso la marina, in quegli anni passato quasi inosservato.

La storia di Aspromonte La terra degli ultimi, è una metafora della calabresità che contraddistingue la nostra gente. La caparbietà di arrivare comunque alla meta, proprio quando tutti sono contro o tutti sono indifferenti. La meta, in questo caso, è una strada che avvicini il piccolo borgo alla strada principale, che possa dare via di scampo alla partoriente che non ha il medico in paese (e per questo muore tra mille sofferenze insieme con il la creatura che porta in grembo). Nessuno vuole costruirla, anzi quando gli africoti decidono che se la costruiranno da soli interviene il prefetto a bloccare i lavori e sequestrare zappe e picconi. È un’amara metafora delle tante incompiute della Calabria, ma non è un film di denuncia civile: troppo inascoltate – da sempre – le parole e le accuse contro l’indifferenza e l’ignavia dei nostri governanti. È un film che adempie al suo compito primario, intrattenere e affascinare il suo pubblico. Calopresti ci riesce in maniera esemplare: rapisce il suo spettatore e lo coinvolge quasi a fargli sentire gli odori della terra, costringendolo a scrutare il cielo e i campi abbandonati fino ad appropriarsene, a calpestare a piedi nudi – come hanno fatto realmente tutti gli attori – quelle pietre che caratterizzano i viottoli del paese. Il film è tutto in dialetto calabrese (con sottotitoli in italiano) ed è un sincero atto d’amore di un figlio devoto che ama perdutamente la sua terra, senza blandizie o carezze superflue, e la fa conoscere al mondo, con un che di genuina nostalgia: i calabresi non si devono vergognare della povertà e della miseria che sono le protagoniste assolute del film, la vergogna è semmai di tutti coloro che hanno permesso e mantenuto questo stato di ingiustizia sociale in tanti piccoli, piccolissimi paesi del profondo Sud.

Il racconto coinvolge e avvolge in un crescendo di emozioni che, com’è giusto, non fanno velo ai sentimenti. C’è la rabbia, la disperazione, la solitudine dell’abbandono, ma c’è anche in primo piano l’orgoglio dell’appartenenza, quel senso innato di calabresità che trasversalmente colpisce tutti quelli che se ne sono andati o continuano (purtroppo) ad andar via: pastori e letterati, maestri e pescatori, contadini e laureati. La diaspora calabrese, probabilmente, non finirà mai, per questo in ogni angolo del mondo troviamo sempre un conterraneo, che quasi sempre raggiunge posizioni di grande prestigio. I calabresi sono come gli africoti del film di Calopresti: non s’arrendono mai, per questo raggiungono la vetta più facilmente degli altri, in ogni campo.

Siamo certi che la magnifica suggestione di Aspromonte di Calopresti riuscirà a raccogliere consensi se non addirittura entusiasmi. Facile prevedere un’incetta di premi, che meritatamente, arriveranno. Il casting è straordinariamente perfetto, come in una mega-produzione d’oltreoceano: ognuno ha la faccia giusta, anche i bambini sono l’affresco (Caravaggio non avrebbe potuto fare di meglio) di una civiltà contadina e aspromontana che anche chi vive lontano da qui non riuscirebbe a immaginare in modo diverso. Marcello Fonte si rivela un grande attore, preciso nel ruolo, come i suoi comprimari. Valeria Bruni Tedeschi si ritaglia un personaggio che raccoglierà parecchie statuette come miglior attrice dell’anno, ma due ultime segnalazioni di merito vanno a Elisabetta Gregoraci, intensa e irriconoscibile (ma perfetta) compagna del boss, tenera mamma e insieme moglie fedifraga di uno “ribelli” del paese, e a Fulvio Lucisano (proprio lui, il grande produttore calabrese, che ha realizzato questo film) che si ritaglia un prezioso e fresco cameo di chiusura da cui traspare la famosa calabresità di si diceva prima.

Il film è tratto dal libro omonimo di Pietro Criaco (Rubbettino editore), sceneggiato dallo stesso Calopresti con Monica Zappelli. Criaco è un calabrese di Africo, Mimmo Calopresti è nato a Polistena, emigrato da giovanetto a Torino con il padre. Un grande sentire comune guida la storia, una grande storia calabrese, per farne un grande, straziante ma meraviglioso film. Commovente e prezioso, bellissimo, da non perdere assolutamente. (s)

La foto di copertina è di Fulvio Lucisano.

Il trailer del film Aspromonte La terra degli ultimidi Mimmo Calopresti, dal 21 novembre al cinema: