L'INCHIESTA GIUDIZIARIA COORDINATA DAL PROCURATORE GRATTERI TRA DISORIENTAMENTO E GOGNA MEDIATICA;
Nicola Gratteri

Non è giustizia ad orologeria, ma i calabresi (e gli accusati) vogliono processi rapidissimi

di SANTO STRATI – Sarebbe troppo facile parlare anche stavolta di “giustizia ad orologeria”, visto il clamore che l’inchiesta coordinata dal procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri sta suscitando tra i calabresi e non solo, a poche settimane dal voto europeo e a pochi mesi dal rinnovo del Consiglio regionale. No, non siamo tra coloro che pensano che ci siano provvedimenti giudiziari che vogliono veder confliggere, ad ogni costo, il potere politico e quello giudiziario: chi ha sbagliato, chi commette reati (ancor più se ai danni della collettività) va severamente perseguito e punito, però gli accusati e gli indagati hanno il diritto di difendersi nei processi, in tempi che evitino la gogna mediatica che regolarmente si scatena al primo avviso di garanzia. Siamo per il garantismo, contro il giustizialismo attraverso i media, e non possiamo non sottolineare la gogna mediatica che si è avviata, senza vergogna, nei confronti del presidente Oliverio, del sindaco di Cosenza Mario Occhiuto e di tutti gli altri coinvolti nell’inchiesta Passepartout, tutto ciò è decisamente inaccettabile. La pubblica accusa dovrà portare le sue ragioni in tribunale, così come gli indagati potranno esporre gli argomenti a difesa, ma i tempi della giustizia italiana – lo sappiamo tutti – sono biblici. In questo caso, il tempo non è galantuomo: si finisce nel tritacarne dei sospetti, delle insinuazioni, delle accuse circostanziate e spaventose – se supportate da riscontri inoppugnabili – ma, nel caso risulti estraneo o innocente l’imputato avrà perso non solo la dignità che nessuna riabilitazione successiva potrà ridargli, ma, qualche volta, vedrà sfumare anche l’intera vita spesa nel rispetto di una legge che non rispetta gli inquisiti.

I calabresi devono essere grati a Gratteri e agli altri magistrati che cercano di scoprire le infide manipolazioni che potrebbero stare dietro a interessi personali di politici, dirigenti e funzionari, ma hanno diritto di sapere, di capire e di ascoltare una sentenza, quale che essa sia, in tempi rapidi, anzi rapidissimi. Non ci interessa, in questa sede né in questo giornale, riportare intercettazioni, dichiarazioni, sussurri e grida, minacce di arresto e trionfali dichiarazioni contro le censurabili condotte degli inquisiti. Interessa spiegare che non si può continuare nel becero giustizialismo che, regolarmente, avvantaggia solo qualcuno, per fini elettorali o di carriera. La Calabria ha bisogno di giustizia, più delle altre regioni, ma chiede un giudizio rapido su cui confrontarsi e dal quale formarsi un’opinione, una valutazione su persone ed eventi. I giornali e i media televisivi o web vivono di sensazionalismo, ma non si può continuare accettare che le condanne arrivino attraverso articoli e servizi: i processi non si fanno sulla stampa, la verità deve venire da una corte di tribunale. E questo vale non solo per la Calabria, ma per l’intero Paese, sia ben chiaro.

Nel caso specifico, a sei mesi dal rinnovo del Consiglio regionale, i calabresi si trovano il governatore uscente (Oliverio) pluri-indagato (con una richiesta di arresto, per fortuna, non accolta) accusato di corruzione (?) e un candidato a presidente (Occhiuto) che peraltro è parte lesa, accusato di essere stato corrotto (?) per avere fatto gli interessi della città. Che gli elettori siano disorientati e smarriti è il meno che si possa constatare. Per questo, raccogliendo il sentimento di tutta la Calabria chiediamo di vedere subito a processo coloro che saranno rinviati a giudizio. Un avviso di completamento indagini (partite nel 2016, sono trascorsi quasi tre anni!) o un avviso di garanzia non devono e non possono buttare nel fango chi lavora per la propria terra. Sarà il tribunale a stabilire se e chi ha sbagliato, chi è delinquente e chi è una persona perbene, ma, ripetiamo, vogliamo e abbiamo il diritto di saperlo subito, non tra un paio d’anni, com’è inevitabile che finisca, dati i tempi dei processi. (s)