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Nicola Zingaretti

POLITICA / PD e Cinque Stelle, quale alleanza nel dopo Zingaretti

di FILIPPO VELTRI – Pd e 5 stelle possono essere un’alleanza più o meno stabile e soprattutto in termini elettorali? Confidare su qualche punto fermo, per abbozzare una strategia delle alleanze, rimane un azzardo in assenza di agganci più consistenti. Non perché le alleanze siano diventate un inciampo inessenziale, ma in quanto gli impegni presi non valgono molto, tutto è estremamente fluido. Non avendo una cultura politica resistente, cui riferire le possibili scelte, il M5S – ad esempio – sopravvive agli eventi nell’assoluta imprevedibilità dell’approdo dopo le diaspore. Ora si e’ affidato, ad esempio, all’ex premier Conte. Ma durerà? E su quale linea politica?

I cambiamenti di alleanze, programmi, identità sono stati così fulminei in due anni appena che le illimitate circolazioni delle maschere dell’antipolitica a ridosso di alleanze a geografia variabile non autorizzano infatti a pensare ad acquisizioni definitive e quindi all’adozione di assi di pensiero più saldi.

Nessuno dei due soggetti politici, peraltro, dispone di un pensiero che scavalchi le spicciole manovre congiunturali per andare avanti procedendo a tentoni. Il non-partito di Grillo-Conte esprime ai massimi livelli il tempo di una piccola politica ridotta a lodi furbeschi o alchimie strane spacciate per visione strategica. Nel M5S, ma anche nel Pd e in Leu diciamola tutta, si vive in una nostalgia del tempo perduto e per questo, in maniera alquanto impolitica, senza una valutazione dei processi reali e degli smacchi subiti, si invocano gracili punti di equilibrio, si prenotano i galloni da destinare alle risorse irrinunciabili.

Intanto, con le scissioni e le epurazioni, l’asse M5S-Pd perde numeri nelle aule parlamentari e, soprattutto al Senato, sfuma la forza di condizionamento entro il campo assai eterogeneo di governo. L’abortito disegno di un gruppo di consultazione interparlamentare rivela un fastidio, neppure tanto celato, a riconoscere il senso autentico del mandato che il Quirinale ha conferito a Draghi. L’ossessione di costruire nell’immediato una strategica coalizione è un punto di debolezza, non di realismo, che consegna una maggiore capacità di manovra a Salvini, cioè proprio al principale leader schiaffeggiato dal governo di tregua.

Nel Pd Zingaretti ha forzato la mano e le acque sono agitatissime soprattutto dopo la lettera di dimissioni protocollate e dunque irreversibili dello stesso Zingaretti da segretario del partito. Il partito che ai tempi di Walter Veltroni coltivava la superbia di una “vocazione maggioritaria” mai veramente possibile, con Zingaretti è diventato è il partner di minoranza di una coalizione di centrosinistra che piace molto più nei palazzi, dove è una necessità, che agli elettori. A questa traiettoria forse non c’erano alternative, chissà. Di sicuro Zingaretti ha sostenuto con uguale convinzione scelte opposte e incompatibili: mai con i Cinque stelle, solo con i Cinque stelle, critico con l’accentramento di poteri di Giuseppe Conte, mai senza Conte, mai governi allargati alla destra, nessuna alternativa ai governi allargati alla destra…

Dove la crisi è più evidente è però sul territorio e la Calabria ne è un clamoroso esempio. Ad ottobre si voterà qui ma anche a Roma, Milano, Napoli e Torino e il Pd non ha vere risorse interne in campo. Un partito che non sa esprimere un nome per Roma e non ne ha uno per la presidenza del Consiglio dimostra di avere problemi profondi di classe dirigente. Ma ne ha anche sui contenuti. Per cosa si batte il Pd?

Zingaretti ha scelto con Mario Draghi ministri solo uomini, pur predicando la parità di genere, perché questo richiedeva la spartizione delle correnti. Poi ha presidiato ministeri minori, almeno in questo contesto, come quello del Lavoro, lasciando al centrodestra o ai tecnici quelli più caratterizzanti: non c’è un ministro del Pd coinvolto nella transizione ecologica, perfino il rapporto con il Sud è lasciato a Forza Italia.

Per gli appassionati di questione istituzionali, la posizione del Pd è imperscrutabile sulla legge elettorale e ha perfino votato a favore di un referendum costituzionale che tagliava di un terzo il numero dei parlamentari, riforma voluta dai Cinque stelle che nessuno nel Pd condivideva davvero.

Zingaretti è un uomo senza nemici, nessuno ne parla male, tutti lo considerano una brava persona. Un po’ l’opposto di Matteo Renzi. Ma è possibile che il destino del Pd debba per forza oscillare tra questi due estremi?

Ancor prima delle dimissioni di Zingaretti uno come Gianni Cuperlo (certamente non un  renziano) aveva scritto cosi’: «sarà sgradevole dirlo, ma quel partito, il mio partito, oggi è fortissimo nel Palazzo e debole nel Paese. I motivi affondano nel tempo anche se uno domina sugli altri e coincide con la contraddizione della nostra parabola, non solo recente. Da quindici anni noi non vinciamo nelle urne… Quindici anni non sono pochi, segnano un ciclo. Con un però (a sinistra c’è sempre un però). Che di questi quindici anni traversati senza un successo chiaro nelle urne, noi ne abbiamo vissuti oltre undici al governo. Con operazioni diverse, si capisce. Si apra il percorso di un congresso, lo si affronti come una sfida costituente per una forza che ripensi se stessa e ricollochi la sua funzione nell’Italia dei prossimi anni».

In tempi di politica ultraleggera, l’opzione prioritaria – suggerisce un altro saggio come Michele Prospero, anch’egli tutt’altro che vicino ai liberisti – dovrebbe essere quella di riacquistare un minimo di pesantezza, di «ridisegnare le tappe per ritrovare una qualche capacità di insediamento organizzativo, di riscrivere le forme di un briciolo di cultura politica riconoscibile. La nostalgia per un minimo di politica strutturata dovrebbe avere la precedenza rispetto a mitologiche alleanze coltivate sulla base di un evanescente rimpianto di esperienze fallite e del traino immaginario di capi di sicuro dimenticabili».

Ma sarà possibile tutto ciò? L’asse Zingaretti-Conte reggerà dopo le dimissioni del segretario PD? O magari durerà lo spazio di un’elezione amministrativa (piccola o grande che sia e ad ottobre sarà grande) per poi sfumare in un nuovo indistinto percorso? E potrà essere Conte il perno di un’alleanza dopo che il professore ha scelto di essere la guida dei 5 Stelle? Il primo sondaggio sul nuovo Movimento 5 stelle guidato da Conte, effettuato  da Swg per il TgLa7, dà i grillini al 22 per cento (+6,2) e il Pd al 14,2 (-4,3). Ed è bastato questo sondaggio per terremotare il PD. Come a dire: siamo già ai materassi! (fv)