28
di PINO NANO – “Per la comunità scientifica osservare i buchi neri potrebbe portare a scoprire fenomeni che oggi sono impossibili da prevedere.
Osservare i buchi neri significa infatti poter guardare direttamente che cosa accade quando la materia si trova in condizioni estreme.
Vuol dire anche fare un passo in avanti importante nella comprensione dei segreti del cosmo e avere “un nuovo strumento di indagine per esplorare la gravità nel suo limite estremo”…
Il tema è assolutamente affascinante, oggi parliamo del grande buco nero al centro della nostra galassia, la Via Lattea, conosciuto come Sagittario A*. Gli scienziati di tutto il mondo non hanno più dubbi, la foto che ormai ha fatto il giro del mondo è la prima prova visiva diretta della presenza di questo enorme buco nero. L’immagine è stata realizzata dall’Event Horizon Telescope (Eht), un array che collega otto osservatori radioastronomici in tutto il mondo che poi formano un unico telescopio virtuale delle dimensioni della Terra.
“Il progetto -spiega l’astronomo italiano Rocco Lico- prende il nome dall’orizzonte degli eventi, il confine di un buco nero oltre il quale nulla può sfuggire, nemmeno la luce. Questa immagine cattura la luce distorta dalla potente gravità del buco nero, che ha una massa pari a quattro milioni di volte quella del Sole. Ma quello che si vede in questa in immagine non è il buco nero stesso, che per definizione non possiamo vedere perché non emette luce. Cerchiamo di capire un po’ meglio cosa rappresenta questa regione centrale scura circondata da una struttura brillante a forma di anello. Quando la luce passa nel raggio d’azione della forte gravità esercitata dal buco nero, la sua traiettoria viene fortemente distorta. I raggi di luce che si avvicinano troppo all’orizzonte degli eventi ci finisco dentro e spariscono per sempre dentro quella parte scura centrale che chiamiamo ‘ombra del buco nero’. Invece, i raggi di luce che non si avvicinano troppo dopo aver fatto qualche giro attorno all’orizzonte degli eventi riescono a sfuggire e creano l’emissione a forma di anello che vediamo in questa immagine ottenuta con Eht, che chiamiamo anello di fotoni”.
Vi chiederete, ma cosa c’entra la Calabria con i buchi neri della Via Lattea?
Bene, uno degli scienziati che in questi anni si è occupato di questo progetto e che ha partecipato in prima persona a questa ricerca internazionale che oggi ha prodotto risultati inimmaginabili, è proprio uno di noi, Rocco Lico, un ex ragazzo di Calabria, nato e cresciuto a Mileto, siamo alle porte di Vibo e a due passi da Nicotera e Tropea. Un ricercatore che ha studiato al liceo scientifico ‘Giuseppe Berto’ di Vibo Valentia e che poi, dopo una laurea brillantissima all’Università di Bologna ha preso le ali ed è finito nei più grandi centri di ricerca di astrofisica del mondo.
«Questa immagine del Grande Buco Nero – confessa lo scienziato – già rappresenta un risultato storico e fornisce la prima evidenza visuale diretta dell’esistenza stessa di Sagittario A*, finora soltanto postulata. Questi nuovi risultati confermano con estrema precisione alcuni aspetti chiave della Teoria della Relatività di Einstein e aggiungono un’informazione fondamentale alla conoscenza della fisica dei buchi neri».
– Ma come ci arriva lei a questo progetto?
«Per questo lavoro ho dato il mio contributo sia nel processo di calibrazione dei dati sia nel processo di analisi, svolgendo un ruolo attivo in particolare nel gruppo di lavoro che si occupa delle tecniche di ricostruzione delle immagini, prendendo parte a tutte le fasi del processo di imaging”.
– Me lo spiega in termini più semplici per favore?
«Ci provo. Da un lato ho co-guidato un team che si è occupato della calibrazione strumentale dei telescopi, in cui abbiamo sviluppato nuove metriche di valutazione delle immagini, che ci hanno aiutato a caratterizzare le fluttuazioni strumentali nei dati e a districarle dalla variabilità intrinseca di Sagittario A*. Dall’altra parte, ho co-guidato il team che ha prodotto decine di milioni di immagini con diversi algoritmi, usando vari cluster di calcolo in Europa (IAA, MPIfR) e USA (Google cloud computing), che ci hanno permesso di ricostruire l’immagine finale che abbiamo poi pubblicato».
Per i suoi contributi a questi risultati, Rocco Lico ha ricevuto dalla collaborazione EHT uno dei premi più prestigiosi del 2022, quello destinato ai “Giovani ricercatori dell’Anno”, con una motivazione a dir poco solenne: “All’astrofisico Rocco Lico per i suoi significativi contributi e la leadership nei processi di analisi delle immagini e di calibrazione dei dati di Sagittario A*. Questo lavoro ha contribuito a identificare e separare la variabilità intrinseca di SgrA* dalle fluttuazioni strumentali” .
Vi dirò di più. Per l’annuncio di questi risultati, il 12 maggio 2022, Rocco Lico è stato relatore ufficiale alle conferenze stampa di Madrid e di Roma, e successivamente è stato uno dei sei membri del panel di esperti, selezionato dallo European Southern Observatory (ESO), per una sessione in diretta di domande e risposte per la stampa di tutto il mondo. E all’interno del progetto internazionale di cui parliamo, in collaborazione con EHT, Rocco Lico coordina oggi il gruppo di lavoro sui nuclei galattici attivi. Contemporaneamente è anche co-leader del team che si occupa dell’analisi dei dati per la calibrazione dei telescopi e del team che si occupa di produrre milioni di immagini per mezzo di supercomputer.
La materia di cui ci occupiamo è complessa, ma la sua è davvero una storia di straordinaria eccellenza tutta italiana, che vi racconto dopo aver atteso per mesi una sua risposta, alle prese lui in giro per il mondo con i suoi lavori di ricerca, le conferenze e le sue prove sul campo, perché la vita di un astrofisico – mi dice – è fatta di mille prove sul campo e di mille verifiche concrete con il mondo reale della ricerca.
– Rocco, lei è giovanissimo, posso chiamarla Rocco? Proviamo a darci del tu?
«Certamente, con immenso piacere».
– Allora, per favore mi spieghi in maniera semplice cosa sono i “buchi neri super massivi” che tu e il team di cui fai parte state analizzando?
«I buchi neri super massivi (SMBH), come noi li chiamiamo in gergo scientifico, sono quei buchi neri con masse dell’ordine di milioni o miliardi di volte la massa del Sole e svolgono un ruolo fondamentale nell’evoluzione cosmica delle galassie che li ospitano. Fondamentalmente, ogni galassia massiccia nell’universo ospita un SMBH al suo centro, inclusa la nostra galassia, la Via Lattea, che ospita un SMBH da 4.3 milioni di masse solari, noto come Sagittarius A*».
– Ma perché è importante conoscere la loro struttura e la loro dimensione? Come riuscite a farlo?
«Studiare le proprietà di questi oggetti è importante per comprendere le leggi che governano l’evoluzione delle galassie e dell’universo. Misurare queste proprietà ovviamente non è per niente facile. Per accedere a regioni così compatte, e quindi per realizzare un’immagine come quella che abbiamo pubblicato, è necessaria una risoluzione angolare estremamente elevata, che può essere ottenuta sia aumentando la frequenza di osservazione sia utilizzando un’apertura molto ampia del telescopio!».
– Come avete fatto?
«In questo contesto, lo strumento più potente è la cosiddetta tecnica nota come interferometria su lunghissima base (VLBI), che consiste nell’utilizzare due o più radiotelescopi, separati da una distanza chiamata baseline, che raccolgono contemporaneamente la radiazione elettromagnetica, come un reticolo di diffrazione. Tale schiera di telescopi simula un singolo radiotelescopio virtuale ad alta risoluzione con un diametro equivalente alla lunghezza massima della linea di base».
– Alla fine, il risultato è stato strabiliante?
«Per poter ottenere l’immagine dell’ombra di Sagittario A*, il buco nero super massivo situato al centro della Via Lattea a una distanza di oltre di 27000 anni luce dalla Terra, è stato necessario assemblare un una rete globale VLBI operante ad una lunghezza d’onda di 1.3 mm, che rappresenta un telescopio virtuale delle dimensioni della Terra con una risoluzione angolare mai raggiunta prima. In pratica è come se l’intero pianeta Terra fosse un grande radiotelecopio».
– L’immagine dell’ombra del buco nero al centro della galassia M87, conosciuto come M87*, è molto simile a quella di Sagittario A*, il buco nero al centro della nostra galassia. Sarà che sono un profano, ma perché questo risultato è così importante?
«Questa è un’ottima domanda! In entrambi i casi, l’immagine EHT rivela una morfologia dominata da una struttura asimmetrica ad anello che circonda un’ombra centrale e oscura proiettata dall’orizzonte degli eventi del buco nero. Però questi due buchi neri risiedono al centro di galassie completamente diverse e soprattutto hanno masse molto diverse. M87* è oltre 1500 volte più massivo di Sagittario A*. Quindi, la notevole somiglianza delle ombre di Sagittario A* e M87*, sebbene le loro masse differiscano di circa 3 ordini di grandezza, indica che la presenza degli gli anelli fotonici è una caratteristica universali dei buchi neri (indipendentemente dalla loro massa), e la loro forma e dimensione corrisponde esattamente a quanto previsto dalla teoria della Relatività di Einstein».
– Prima hai accennato alla ricostruzione di milioni di immagini, ma cosa significa?
«Anche questa è un’ottima domanda! Questo telescopio grande come la Terra in realtà è composto da un numero limitato di telescopi che di conseguenza producono un numero limitato di informazioni. Pertanto, ricostruire un’immagine con le informazioni acquisite da questi telescopi equivarrebbe, metaforicamente, a cercare di ricostruire una frase conoscendo solo alcune delle lettere che compongono le parole all’interno della frase, come nel gioco della ruota della fortuna. Per questo motivo sono stati sviluppati diversi algoritmi e tecniche ad-hoc di ricostruzione dell’immagine, che vanno appunto a riempire questi buchi che abbiamo nei dati. Abbiamo quindi generato milioni di immagini con diverse combinazioni di parametri per i diversi algoritmi e poi le abbiamo mediate per ottenere l’immagine finale, che e è quella che meglio rappresenta e si adatta ai dati ottenuti delle osservazioni. E questo ha richiesto un enorme potere di calcolo e l’utilizzo di supercomputer, sia per la produzione di tutte queste immagini sia poi per l’analisi successiva».
– Perché nel caso di Sagittario A*, che è molto più vicino a noi rispetto ad M87*, la ricostruzione dell’immagine è stata più complicata?
«È vero che Sagittario A* è più vicino rispetto a M87*, ma ci sono due fattori che hanno complicato ulteriormente il processo di ricostruzione dell’immagine. Da un lato, il fatto che Sagittario A* abbia una massa circa 1500 volte inferiore a quella di M87*, implica tempi scala di variabilità molto più brevi, rendendo l’immagine “mossa”. In altre parole è come cercare di fotografare un soggetto in movimento, che cambia continuamente forma. D’altra parte, ci sono anche gli effetti prodotti dal mezzo interstellare che si trova tra la Terra e il centro galattico, che rendono l’immagine “offuscata”. Metaforicamente, è come se questo soggetto in movimento che sitiamo cercando di fotografare fosse anche in mezzo alla nebbia. E anche in questo caso sono state sviluppate delle sofisticate tecniche di analisi ad-hoc per attenuare entrambi gli effetti».
– E il domani cosa ci riserva?
«La ricostruzione delle immagini dell’ombra dei buchi neri al centro della galassia M87 e della Via Lattea rappresenta solo il primo passo verso la comprensione dei meccanismi fisici su scala dell’orizzonte degli eventi. Il passo successivo sarà lo studio della dinamica del gas che viene accresciuto dal buco nero e dei getti di plasma relativistico che nei casi più estremi vengono espulsi lungo l’asse di rotazione del buco nero stesso. Quindi nel prossimo futuro cominceremo a vedere non solo delle immagini ma anche dei ‘filmati’ veri e propri che ci dicono come questi oggetti variano in funzione del tempo».
– Che effetto fa sapere di far parte di un team di ricerca che conta oltre 300 studiosi di tutto il mondo?
«Il fatto che ad ottenere questi risultati sia stato team così numeroso e non un singolo scienziato non è un caso. Le tecniche osservative e di analisi oggi diventano sempre più complesse e più diversificate. Quindi serve la sinergia di più persone con diverse competenze per raggiungere grandi obiettivi. E in effetto negli ultimi anni la maggior parte dei più importanti risultati relativi al mondo dell’astrofisica è stata ottenuta grazie a grandi collaborazioni scientifiche. Far parte di questo mondo mi riempie di gioia certamente, ma richiede anche tanta responsabilità, estremo rigore e tanta dedizione».
– A quali altre ricerche ti stai dedicando adesso?
«In questo momento sto lavorando all’analisi di osservazioni a diverse frequenze di un sistema binario formato da ben due buchi neri super massicci, noto come OJ287, a circa 5 miliardi di anni luce dalla Terra. E in parallelo sto lavorando ad osservazioni ad alta risoluzione di un sistema binario galattico noto come RS Ophiuchi, in cui l’interazione tra una nana bianca e una stella di tipo gigante rossa dà luogo periodicamente a delle esplosioni termonucleari che producono un aumento temporaneo della luminosità del sistema. E sto lavorando a tanti altri progetti interessanti di cui magari avremo modo di parlarne in futuro».
Rocco Lico, dunque, un figlio prestigioso di questa terra, un giovane studioso che oggi rischia di passare alla storia per i risultati delle sue ricerche e delle sue intuizioni. Davvero straordinario.
Lui, attualmente è ricercatore post- dottorato presso l’Istituto di Radioastronomia a Bologna, uno dei centri di ricerca dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (IRA-INAF), e presso l’Instituto de Astrofísica de Andalucía a Granada, uno dei centri di ricerca del consiglio superiore della ricerca scientifica in Spagna (IAA-CSIC). Si è laureato in astrofisica e cosmologia presso l’università ‘Alma Mater Studiorum’ di Bologna dove nel 2015 ha poi conseguito un dottorato di ricerca in astrofisica e cosmologia. Ma durante il dottorato ha svolto una parte delle sue ricerche negli Stati Uniti presso la Boston University.
Dopo il dottorato ha lavorato presso l’università di Bologna e l’Istituto di Radioastronomia (IRA-INAF) e fino al 2020 è stato ricercatore presso il Max-Planck-Institute for Radio Astronomy in Germania (MPIfR). Prima di trasferirsi a Bologna ha svolto per tre anni le sue ricerche a Granada presso l’Instituto de Astrofísica de Andalucía. Attualmente ha collaborazioni attive con diversi centri di ricerca in Europa, negli Stati Uniti e in Asia. Oggi fa parte della collaborazione scientifica ‘Event Horizon Telescope’ (EHT), il progetto che utilizzando una rete di telescopi sparsi in diversi continenti ha recentemente realizzato la prima immagine del buco nero al centro della Via Lattea.
Come dirlo meglio? Siamo ai massimi livelli della ricerca internazionale della Via Lattea.
– Rocco, ma nella tua vita c’è solo la passione per la fisica e l’astronomia?
«Devo confessarti che ho un’altra grande passione, che è la musica!»
– Non mi dirai che trovi anche il tempo per cantare?
«Per cantare forse no, ma per suonare la chitarra certamente sì! E ti confesso anche che la prima cosa che faccio quando mi trasferisco in una nuova città per lavoro è comprare una nuova chitarra».
– Suoni da solo o in una band?
«Questo in realtà non credo sia rilevante ai fini di questa intervista, magari non lo scrivere, ma assieme ad altri amici musicisti abbiamo creato un progetto musicale che abbiamo chiamato “Greenfinch Sound Project”. Si tratta di un progetto basato su brani inediti e composizioni originali, con sonorità che spaziano tra il tra rock, jazz e musica cantautorale. Alcuni brani li abbiamo già registrati e pubblicati. Altri sono in arrivo!».
– Vogliamo ripartire dall’inizio?
«Sono nato e cresciuto a Mileto, un paesino di qualche migliaio di abitanti nel profondo sud dell’Italia, in provincia di Vibo Valentia».
– Che famiglia hai alle spalle? Intendo dire fratelli? Sorelle? Nonni…
«Ho un fratello maggiore: abbiamo avuto la fortuna di avere due ottimi genitori, che con grande umiltà hanno saputo creare una bella famiglia molto unita. Purtroppo, non ho conosciuto i due nonni, sono mancati prima che io nascessi, ma ho avuto due nonne fantastiche. Le nonne si chiamavano Rosina Scoleri e Caterina Mangone, e vivevano entrambe a Mileto. E ho due bellissime nipotine!».
– Che infanzia ricordi?
«Ho passato una bellissima infanzia in Calabria, fatta di cose semplici, a contatto con la natura, circondato da persone amorevoli, all’insegna di solidi valori affettivi e familiari».
– Hai qualche ricordo personale di quella stagione?
«Tanti, anzi, tantissimi. Per esempio, ho ricordi indelebili dei lunghi e piacevoli pomeriggi in spiaggia con la mia famiglia durante le calde giornate estive, che cominciavano e finivano con un breve viaggio in macchina ascoltando Zucchero Fornaciari, Fabio Concato e tutta la buona musica cantautorale italiana, di cui mio padre era un grande appassionato”.
– Il luogo dove andavate al mare?
«Si chiama località Punta Safò, credo che sia ancora uno dei posti più incantevoli della terra».
– I tuoi genitori, Rocco?
«Mia mamma si chiama Maria Luisa Valente ed è un’insegnante di scuola dell’infanzia. Mio papà, Antonino Lico, che purtroppo da qualche anno non c’è più, era impiegato presso l’ente nazionale per l’energia elettrica (ENEL)».
– E tuo fratello?
«Mio fratello si chiama Francesco: E un libero professionista Agrotecnico laureato, e da qualche anno lavora presso il Ministero della Pubblica Istruzione come amministrativo».
– Che scuole hai frequentato?
«Le Scuole elementari e medie a Mileto, poi ho frequentato il liceo scientifico ‘Giuseppe Berto’ a Vibo Valentia».
– Delle scuole superiori, Rocco, quali insegnanti credi che valga la pena di ricordare?
«Sicuramente ricordo con affetto la professoressa di inglese, che non si limitava a farci fare esercizi di grammatica secondo gli schemi obsoleti del programma ministeriale, ma ci faceva tradurre i testi di Eric Clapton. Ci faceva guardare film in lingua originale e interagire con persone madrelingua. E ricordo con piacere anche il professore di Francese, che faceva le sue lezioni con una passione incredibile, facendoci capire quanto sia importante avere la giusta motivazione per perseguire le cose che piacciono davvero».
– Ricordi il nome della tua insegnante di inglese al Berto? E quello del professore di francese?
«Come potrei dimenticarli? La professoressa Falbo ci insegnava Inglese e il professore Gallarello ci insegnava Francese».
– Come nasce poi la tua scelta universitaria?
«Ho avuto interesse per l’astronomia sin da piccolo, come succede a molti. Nel mio caso però la passione che ho sviluppato è stata sufficientemente profonda, da perdurare poi negli anni. Subito dopo il liceo la scelta universitaria è stata alquanto chiara sin da subito. L’Università più vicina con un corso di laurea in astronomia era l’Università di Bologna, peraltro una delle Università con una lunga tradizione accademica cominciata nel XI secolo. Ovviamente, ‘università più vicina’ si fa per dire, ero cosciente che uscire dalla propria comfort zone e ritrovarsi per la prima volta completamente da solo in una città a mille chilometri di distanza da casa, lontano dagli affetti, non sarebbe stato facile. Ma avevo la giusta motivazione per fare questo grande passo, e soprattutto sapevo di poter contare sull’appoggio e la fiducia dei miei genitori. Mia mamma, in particolare, mi ha sempre incoraggiato a perseguire ciò in cui credo, anche se quella sera della partenza ricordo la fatica immensa che ha fatto per trattenere le lacrime».
– Cosa è stata Bologna per te?
«Al momento, dopo Mileto, Bologna è la città dove ho vissuto più a lungo e senza dubbio la ritengo la mia seconda patria».
– Il tuo primo incarico?
«Il mio primo incarico è stato proprio a Bologna, subito dopo la laurea magistrale. Ho avuto una borsa di studio presso l’istituto di Radioastronomia, uno dei centri di ricerca INAF con sede a Bologna, per continuare il lavoro che avevo iniziato con la tesi, che poi ha prodotto la mia prima pubblicazione scientifica».
– Quello che non capisco è come sia nata in te la passione per l’astronomia? Dai libri? Dalle favole? Dai racconti? Da cosa più specificatamente?
«Ho sempre avuto interesse per l’astronomia fin da piccolo. Leggevo libri, guardavo e registravo le puntate di Superquark in tv, e osservavo il cielo di notte. Poi i miei genitori mi hanno regalato un’enciclopedia astronomica con delle VHS che hanno stimolato ancora di più il mio interesse. E con l’acquisto di questa enciclopedia è arrivato anche un piccolo telescopio, con il quale riuscivo a vedere gli anelli di Saturno, i satelliti di Giove e i crateri lunari, e lì sono rimasto letteralmente folgorato. Ma il colpo di grazia credo sia arrivato nel 1997, con il passaggio della cometa Hale-Bopp visibile a occhio nudo, di una bellezza disarmante, che non so per quante ore ho osservato instancabilmente dal balcone del bagno di casa mia a Mileto».
– Le tue prime esperienze importanti?
«Le prime esperienze importanti risalgono al 2012, quando ho presentato per la prima volta i risultati di una mia ricerca a una conferenza internazionale tenutasi a Bordeaux, e qualche mese dopo a un workshop sui buchi neri a Tokyo. In entrambi i casi erano le primissime conferenze di fronte a un pubblico di massimi esperti del tema, e oltre alla naturale ‘ansia da prestazione’, ricordo come per la prima volta io abbia potuto associare dei volti a delle persone che conoscevo solo per nome per via dei lavori che avevano pubblicato».
– Rocco, la ricerca, l’analisi, lo studio a cui tu sei più legato?
«Al momento, tra le varie ricerche a cui ho contribuito, quella a cui sono più legato è sicuramente quella che ha portato alla realizzazione dell’immagine dell’ombra del buco nero al centro della Via Lattea, noto come Sagittarius A*. Per questa ricerca ho guidato e fatto parte di diversi team nell’ambito della collaborazione Event Horizon Telescope, che vede impegnati diverse centinaia di scienziati da tutto il mondo, ed è stato un viaggio incredibile tra molte sfide scientifiche e tecnologiche, e l’utilizzo di tecniche di analisi tra le più all’avanguardia dell’astrofisica moderna. È sorprendente vedere quali risultati gli esseri umani possono realizzare quando collaborano insieme in una perfetta sinergia»ß.
– Come finisci, ad un certo punto della tua vita, in America?
«Quando facevo il dottorato di ricerca a Bologna, lavoravo sui buchi neri e i cosiddetti getti relativistici che vengono prodotti nei casi più estremi. Uno dei luminari in questo ambito è il prof. Alan Marscher, all’epoca direttore del dipartimento di Astrofisica della Boston University, che ha pubblicato alcuni degli articoli più influenti in questo ambito di ricerca. In quel periodo avevo ricevuto una borsa di studio del programma Marco Polo dell’Università di Bologna, che mi avrebbe permesso di effettuare una parte delle mie ricerche all’estero, e ho approfittato per proporre un progetto proprio al Prof. Alan Marscher, che ha accettato e in breve tempo mi sono trasferito a Boston».
– A che livello è oggi il mondo della ricerca italiana in questo settore?
«Siamo un paese di sognatori, e nonostante il governo italiano non investa molto nella ricerca scientifica, siamo sempre sul pezzo e cerchiamo di ottimizzare le risorse che abbiamo a disposizione. Chiaramente con più mezzi e strumenti si potrebbe fare molta più ricerca, ma cerchiamo di guardare con ottimismo al futuro».
– Posso chiederti come fai a conciliare il tuo ruolo con i legami che hai ancora in Calabria? Insomma, che rapporto hai ancora con la tua città natale?
«I legami con la Calabria sono molto forti. Lì è dove c’è la mia famiglia e dove sono cresciuto. D’altronde, come diceva Corrado Alvaro, “l’infanzia e l’adolescenza rappresentano l’inventario dell’universo”. Quindi in maniera spontanea e naturale appena riesco ci faccio un salto, proprio come in questo momento in cui sto leggendo il tuo messaggio e mi trovo su un treno diretto in Calabria dove passerò qualche giorno con la mia famiglia».
– Ti è mai capitato in giro per il mondo di “vergognarti” di essere figlio della Calabria?
«Naturalmente no! Vergognarsi delle proprie origini equivarrebbe a vergognarsi di se stessi. E questa dovrebbe essere una regola universale, non solo per chi è calabrese. Non credi?».
– Che consiglio daresti ad un giovane aspirante astronomo che oggi volesse intraprendere la tua carriera?
«Al di là dell’aspetto più ‘romantico’ di dedicarsi allo studio dell’universo e dei suoi misteri, sul piano più pragmatico questo tipo di carriera comporta una serie di sacrifici materiali e mentali che bisogna essere disposti a fare. Pertanto, la cosa più importante è avere la giusta motivazione. La carriera che intraprendiamo può avere un enorme impatto nella qualità della nostra vita. Un essere umano trascorre in media un terzo della propria vita a lavoro. Quindi è molto importante ambire a un lavoro che sia il più gratificante possibile, qualsiasi esso sia».
– Rocco tu sei appena rientrato in Italia dal Messico. Cosa ti porti dietro di questo tuo ultimo viaggio all’estero?
«È stata un’esperienza incredibile, non solo dal punto di vista scientifico, come ovviamente era prevedibile, ma anche umano. Quando si viaggia in questi posti così lontani si scoprono nuove realtà socio-culturali che ti arricchiscono come persona e ti aprono la mente facendoti scoprire un mondo che altrimenti non avresti mai potuto conoscere stando seduto in ufficio davanti a uno schermo».
– Rocco, qual è stata, secondo te, la vera arma del tuo successo?
«Non nascondo che la parola ‘successo’ mi crei un certo disagio, probabilmente potrebbe essere questa una delle ‘armi’ a cui ti riferisce in questa domanda. Per qualsiasi traguardo si possa raggiungere, in ambito lavorativo e non, credo sia molto importante mantenere sempre i piedi ben saldi e ancorati per terra».
– Quante volte all’anno riesci a tornare a casa tua?
«Da quando ho lasciato la Calabria, il che vuol dire da più di venti anni, ci torno sempre almeno un paio di volte all’anno. Ma non mi basta mai, credimi». (pn)