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Saverio Strati rivive in un docufilm di Mimmo Nunnari

di PINO NANOSaverio Strati, a 100 anni dalla sua nascita torna di grande attualità il documentario televisivo realizzato su di lui a Firenze, era il 1987, dal giornalista Mimmo Nunnari, che oggi ricorda quei giorni vissuti in Toscana insieme allo scrittore di Sant’Agata del Bianco con grande emozione.

Questo documentario della durata di 30 minuti, e oggi custodito dalla Grande Teca Rai, realizzato dal giornalista-scrittore Mimmo Nunnari, allora ancora giovane inviato speciale della Rai in Calabria, è uno dei documenti più esclusivi sulla vita di Saverio Strati, lo scrittore calabrese di Sant’Agata del Bianco che ad un certo punto della sua vita si trasferì a vivere a Scandicci alle porte di Firenze, diventando suo malgrado protagonista di primo piano della storia della letteratura meridionale.

Nello Speciale curato da Mimo Nunnari per la Rai troviamo uno Strati inedito, che affida alle telecamere della Rai le sue emozioni più intime e i suoi ricordi più intensi legati alla sua terra di origine. Uno Strati assolutamente inedito, che riconosce di essere consapevole della sua scrittura e del valore dei suoi romanzi, ma che deve anche fare i conti con la povertà di quegli anni e con le difficoltà economiche che lo coinvolsero in prima persona, tanto da dover poi chiedere aiuto a chi ancora credeva in lui. Un documentario che andrebbe oggi riproposto al grande pubblico televisivo per capire meglio cosa in realtà spingesse lo scrittore Saverio Strati ad occuparsi con tanta insistenza e soprattutto con tanto amore della sua terra di origine. In questa intervista a Mimmo Nunnari gli darò del tu, ma semplicemente perché io ho lavorato con lui e insieme a lui per tantissimi anni alla Rai, pur essendo stato lui in una certa fase della sua vita il mio direttore.

-Mimmo, l’unico documentario televisivo su Saverio Strati lo hai realizzato tu nel 1987, quand’eri ancora alla Sede RAI della Calabria Calabria. Com’è nata l’idea dello speciale? Ma soprattutto, è stato facile, o difficile convincere Strati, uomo notoriamente riservatissimo, restio a concedere interviste, ad aprirsi…

«Hai ragione. Strati, ha sempre difeso la sua intimità, quasi religiosa, era gentile, educato, professava umiltà e rifuggiva dai riflettori della critica, dei giornali, dei media, un po’ per timidezza ma essenzialmente per garantirsi quell’insopprimibile bisogno di libertà e di indipendenza che era nella sua natura . Viveva la sua vita come i grandi pensatori, che si distaccano dal cerchio della storia; una caratteristica della cultura dei Greci, che anteponevano la riservatezza all’insensatezza del mondo. I Greci ci insegnano che le parole vanno dosate, che c’è un senso del limite, che dobbiamo preoccuparci della nostra inadeguatezza di “esseri” fuori posto ovunque. C’è un filo di filellenismo nella letteratura di Strati e nel suo essere uomo del profondo Sud. La sua signorilità innata, il suo essere aristocratico nel senso di essere moralmente superiore, la sua testardaggine calabrese, lo portavano a essere riservato e a volte anche diffidente verso giornalisti, critici, adulatori, che dopo la vittoria al premio Campiello nel 1977, col libro “Il Selvaggio di Santa Venere”, non mancavano certo. Avevo già recensito per Gazzetta del Sud molti dei suoi libri. Mi ero conquistato piano piano la sua fiducia. Quando usciva un nuovo romanzo mi cercava per chiedermi un giudizio e francamente mi sentivo in imbarazzo, non essendo un critico letterario ma solo un divulgatore di libri, ma allo stesso tempo mi sentivo gratificato di queste sue attenzioni. Di lui apprezzavo tutto: il talento narrativo, la cultura filosofica, la sapienza contadina, la conoscenza della storia, l’agire morale. C’era un’ammirazione che lui percepiva, da calabrese a calabrese. Non è stato perciò difficile ottenere l’intervista, poi diventata documentario televisivo.

Perché hai scelto Firenze per realizzarla e non la Calabria, per esempio il suo paese natale, Sant’Agata del Bianco?

Per una ragione precisa. Volevo contestualizzarla nell’ambiente in cui Strati aveva deciso di vivere. Presentarlo com’era dove viveva. Abitava a Scandicci , alle porte di Firenze, città dove aveva le sue frequentazioni, le sue amicizie, soprattutto in quel cenacolo culturale che era la galleria d’arte Pananti, punto di riferimento e d’incontro di critici d’arte, pittori, scultori, poeti e scrittori, tra i quali come assiduo frequentatore c’era il poeta Mario Luzi. Erano loro, a leggere per primi i manoscritti “dell’amico carissimo” Strati. Così lo definivano. Il pittore fiorentino Silvio Loffredi in quell’occasione mi raccontò dell’episodio di un incontro, nella galleria, presente Mario Luzi, con Elio Vittorini che, vedendo che aveva in mano il libro “La Teda”, appena pubblicato, gli disse: «Sappi che questo Strati è uno scrittore grosso, ma grosso, così… non ha paragoni…». Oltre che scrittore di prima grandezza Vittorini era editor di case editrici importanti, come Einaudi, conosceva bene tutti. Da ragazzo aveva fatto l’operaio, come Strati aveva fatto il muratore. Il suo non era il giudizio di uno qualsiasi. Nel mondo editoriale era noto per i grandi rifiuti. 

-Nel documentario si vedono le vostre passeggiate per le vie di Firenze, il vostro chiacchierare per le strade dove si affacciano i simboli del Rinascimento, poi ci sono le testimonianze degli amici fiorentini di Strati, ma l’intervista vera e propria l’avete realizzata a Scandicci, in casa dello scrittore…

Si, nello studio direi francescano di Strati, dove si coglieva l’umiltà, la semplicità, la sobrietà di Strati. In quella casa, dove lo scrittore viveva con la moglie, c’era l’essenziale, profumava di modestia, semplicità; solo i libri, tantissimi, ordinati su scaffali e sul piccolo tavolo di lavoro erano in vista, assieme alla lettera 22 Olivetti, che fabbricava romanzi, poesie, racconti, fiabe. In quell’occasione prima di cominciare l’intervista Saverio mi regalò un bellissimo volume di fiabe che aveva pubblicato qualche anno prima con Pananti, scrisse una bella dedica per mia figlia Roberta, che allora aveva appena quattro anni. Lo custodiamo gelosamente questo libro, adesso è passato di proprietà, ai figli di Roberta, Giuseppe, Louis, Arianna, ma sta sempre nello scaffale Strati, nella mia libreria.

-Quale è stata la prima domanda di quell’intervista che immagino non sia stata facile considerato il carattere schivo dello scrittore che amava il silenzio e sfuggiva ai riflettori?

Gli feci subito la domanda più banale che si possa fare ad un narratore; cioè quanto di autobiografico ci fosse nei suoi romanzi. «Non parlerei di autobiografia – mi rispose – semmai di esperienza diretta della vita; esperienza da cui ogni scrittore trae la materia, il tessuto, dei suoi romanzi. Nei miei primi libri c’è la vita dei muratori e io l’ho fatto, e bene, il muratore, fino a 21 anni; c’è, all’inizio, con la Marchesina, l’esperienza di un ragazzo che impara il mestiere; poi, ne La Teda, il ragazzo cresciuto che diventa mastro, e fa anche le sue prime esperienze, e in Noi Lazzaroni abbiamo il muratore adulto, che emigra. Tre esperienze, contestualizzate in tre momenti differenti: prima della guerra, durante la guerra, e nel dopoguerra, con cui comincia il periodo dell’emigrazione. lo lo so che cosa può provare uno che lascia la propria terra per trovare lavoro; capisco il disagio ed esprimo questo mondo». Dopo la prima domanda e la risposta iniziale tutto filò liscio. Al principio Saverio ebbe qualche incertezza. Chiese alla moglie di lasciare lo studio dove stavamo registrando. Volle restare solo, voleva concentrarsi. Solo, per modo di dire. Con me c’erano l’operatore, il fonico, un tecnico delle luci…che però lavoravano in religioso silenzio, avevano capito che avevano davanti un grande della letteratura italiana, un autentico fuoriclasse, un narratore dalla storia umana e letteraria esemplare. Durante l’intervista vedendolo seduto al tavolo di lavoro lo immaginavo ticchettare i tasti della macchina da scrivere, accarezzare, ritoccare, riscrivere, sfiorare le pagine delle sue fatiche letterarie. Chiudemmo l’incontro con una domanda anche che questa apparentemente banale. Gli chiesi: “Saverio, se ti dovessi giudicare tu stesso, come ti giudicheresti”? Rispose: «Come uno che vive la vita che vuole vivere. Sono un uomo libero, non mi sono fatto schiavizzare da mondanità, presenzialismo o da relazioni di cui si pensa non si possa fare a meno per avere successo, oppure attrarre dalla pubblicità. Vivo, come ho scelto di vivere, quindi mi sento soddisfatto. 

-Mimmo chi era per te Saverio Strati?

Un calabrese vero. Un uomo che portava sulle spalle il peso delle ingiustizie, dei diritti negati, dell’assenza secolare dello Stato, dei tradimenti della borghesia grassa ma incolta, un uomo che era andato a scuola tardi perché da ragazzo aveva dovuto lavorare ma che era riuscito a emergere per il suo talento grandissimo. Aveva ragione Geno Pampaloni, uno tra i maggiori critici letterari del secolo scorso, che Strati lo descriveva così: «Sembra portare sulla propria persona la vita dei padri. Il passato, soprattutto, il dolore del passato, la tradizione della sua terra, i secoli di miseria e di silenzio, la pazienza contadina e artigiana, il pudore dei sentimenti, e persino l’antica lentezza, con cui il tempo trascorre nei vecchi paesi, sembra portarseli addosso, come una consanguinea presenza, una compagnia. (pn)