Il viaggio sacro dei rabbini in Calabria raccontato in un film sul cedro

di PINO NANO – Solo Agostino Saccà, con il suo attaccamento viscerale alla Calabria e la sua genialità artistica e cinematografica poteva immaginare e poi realizzare un film interamente dedicato ai rabbini che ogni anno da Israele arrivano in Calabria per la raccolta dei migliri cedri del mondo.Questa che viene raccontata dal film prodotto dall’ex Direttore Generale della Rai Agostino Saccà è davvero un pezzo di Calabria “meravigliosa e sconosciuta” che il mondo assolutamente non conosce, e che oggi grazie a questo film potrebbe diventare la cartolina internazionale del futuro di questa terra.

“Haddar – Il frutto di Dio” -questo è il titolo del nuovo film-documentario- racconta una unicità della Calabria, che è appunto il cedro che si coltiva lungo il tirreno cosentino.

Ogni estate – precisa la scheha del film – molti rabbini ortodossi si recano nel cuore della Riviera dei Cedri per raccogliere i cedri più belli, che vengono poi inviati in tutto il mondo, compreso Israele, per poter così celebrare compiutamente il Sukkoth, la festa delle capanne. Vi ricordo che la pianta del cedro è infatti preziosissima per il popolo ebraico, tanto da dover essere custodita gelosamente perché considerata vicina a Dio.
Il docufilm racconta e ricostruisce l’incontro tra due particolari comunità: quella dei coltivatori calabresi di cedri e quella dei rabbini che ogni anno giungono in Calabria per scegliere il cedro perfetto, “haddar, splendido frutto di questa terra”.

Ma proprio per questo – spiega l’ex Direttore Generale della Rai – «la nostra storia si sviluppa in Calabria, la terra dell’accoglienza, grazie al cedro punto di incontro di culture, tradizioni, religioni e di amore per la terra. Il nostro racconto prosegue a New York per seguire la celebrazione del Sukkoth, la Festa delle Capanne».

«La prima volta che Mirco Da Lio mi ha chiesto se avessi voluto fare la regia di un documentario sul cedro – racconta il regista Luca Brignone – credevo di aver capito male. Mi sembrava incredibile che dietro ad un cedro che per me era stato fino ad allora un frutto come tanti si nascondesse un mondo, anzi due, tre tanti mondi e tanti modi di vivere a partire proprio dalla Calabria. Il cedro che nasce e viene curato dai coltivatori calabresi, ogni anno, in estate da vita ad un linguaggio universale che mette in comunicazione la Calabria con le più importanti capitali del mondo, in nome della bellezza del frutto divino».

«Questo racconto per me – aggiunge il regista – ha dell’incanto per la semplicità con la quale avviene l’incontro di due culture, due religioni, due lingue e due mondi.” Ebrei e Cristiani entrambi chini sotto alla stessa pianta di cedro, in ginocchio in una preghiera che dura una vita intera. La storia del cedro è anche la storia antica di uomini e di donne che da millenni vivono a contatto diretto con la terra e che si tramandano da padre a figlio segreti per una buona coltivazione, regole ferree e pacche di conforto sulle spalle. Il loro contatto con questo mondo è quasi simbiotico e indissolubile».

Come è andata alla fine?

«Ho scelto di entrarci delicatamente – risponde Luca Brignone – E’ stata una costante ricerca sul campo e voglio ringraziare tutti i coltivatori di cedro che si sono messi a nostra disposizione e che ci hanno permesso di seguirli e di entrare nelle loro cedriere, nelle loro vite e nel loro rapporto con gli ebrei. Poi sono arrivati gli ebrei per visionare il frutto di mesi e mesi di lavoro. E lì che per me è avvenuta la magia: due uomini di mondi diversi seduti allo stesso tavolo che s’incontrano e si confrontano davanti ad un cedro. Fin dall’inizio con il direttore della fotografia Tommaso Cane ci siamo detti che stavamo facendo un film importante e che per questo avremmo dovuto mantenere altissima la qualità delle immagini e dei contenuti. Così con dedizione e professionalità abbiamo puntato la macchina da presa sul cedro che lentamente ci ha mostrato il suo universo. Qualunque viaggio attenderà il “frutto divino” nostro protagonista, noi saremo pronti a seguirlo, fino ad arrivare al Sukkot, la Festa delle Capanne, dove il cedro di Calabria sarà finalmente onorato e apprezzato, come la tradizione ebraica vuole».

Un evento straordinario per la Calabria, finalmente un film e un documentario che non raccontano questa terra in termini di violenza e di malaffare e dove questa volta al posto della ndrangheta si esalta il frutto in assoluto più puro della tradizione ebraica. Complimenti davvero a chi lo ha pensato e poi realizzato. (pn)

La bella Calabria approdata su Rai Uno, grazie alla Fata Morgana…

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – Ci risiamo! Con estrema puntualità, ecco che il cinema, o meglio ancora la Calabria prodotta dal cinema, diventa motivo di discussione. E sapete tra chi? Tra i calabresi. E sulle basi della solita traccia: “a noi non ci accontenta mai nessuno”.
Al di là del fatto che il film di Matteo Oleotto, prodotto dalla Pepito Produzioni, diretta dal calabrese Agostino Saccà, Tutta Colpa della fata Morgana, andato in onda ieri sera alle 21:30, su Rai 1, possa essere piaciuto o meno, essendo il gusto una questione soggettiva, trattandosi peraltro di una leggerissima commedia all’italiana, la Calabria non è facile raccontala, e a noi calabresi non ci accontenta mai nessuno.
Ecco che infatti, unica tra le terre del Sud, dopo ogni qualvolta appare sul grande schermo, la Calabria, si getta nella polemica fitta da sola.
Il mondo calabrese purtroppo, per quanto ricercato, non riesce mai a essere veramente individuato. E questo è vero, ma tutto è dovuto alla complessità della sua narrazione, di cui c’è tutta una storia responsabile.
La Calabria è bella però è amara, è dolce e fa paura, e poi è contorta, assai arrovescio, contraria… E chi cazzo la riesce a raccontare bene una terra così? Cioè bene come piace a noi, seppure ancora non sappiamo nessuno esattamente a cosa questo bene che vorremmo si riferisce.
C’è un preimpostato da seguire, forse? Un mappale? O vale la libera interpretazione?
I calabresi dovrebbero saperlo. Altrimenti la lamentazione che li deprime non avrebbe dove andare a parare.
Se c’è un problema serio su cui lavorare, questo non è certo rappresentato da chi la racconta o da come racconta, la Calabria, ma da chi si lascia raccontare a un certo modo. Dai calabresi stessi quindi.
Per pretendere di apparire, almeno bene, si deve aver fatto quantomeno benissimo. E la Calabria cosa ha fatto? E i calabresi?
Una cosa che la Calabria non fa mai, anzi di cui gran parte dei calabresi proprio se ne strafottono, è un’analisi critica del sistema di cui si è parte. Quando il riflesso allo specchio invece dice sempre tanto, e addirittura rischia di dire anche tutto.
Ad adirare il fanatismo calabro, che per chi non lo sapesse è quella sorta di orgoglio occasionale che viene fuori solo quando chicchessia decide di pisciarci in testa, e se per bene o per male poco conta, non è stato il racconto peraltro privo, per la prima volta, di fatti di ndrangheta con tradizionale cliché, ma nientepopodimeno, una partita di malocchio. Quella cosa che, tratta dalla cultura popolare, in Calabria è credenza e altrove è sfiga.
Vi venisse un colpo di memoria!
Ma lo ricordate o no che noi veniamo dalla Magna Grecia, dalla terra dei miti, dei racconti, delle leggende, e delle magare? Scilla Cariddi, la Fata Morgana. Storia e mito. Dei ed eroi.
E come? I romani potevano far riferimento ad Enea fingendo di essere un antenato di Romolo, il re di Roma, e noi dovremmo, non so per quale ragione aggiornarci, non raccontando delle vecchie magare? Se non vi ritrovate in questa terra qui, che non è un film di Oleotto, ma un capolavoro del Creatore, vuol dire che non è la vostra terra, la Calabria. Che avete sbagliato posto.
Ma Dio Santo, quando capiremo da che parte vorremo stare davvero?
Rinneghiamo la ‘ndrangheta invece, non la cultura. Mettiamo al bando tutte le sue malefatte, quelle sì che ci arretrano. Ma con i fatti, non con l’indignazione sterile dopo un film, retrogradi sul concetto “questa è terra mia e di nessun altro”.
A Napoli, o a Palermo, la porcheria che facciamo noi calabresi, non la fanno da nessuna parte. Anzi, che se ne parli, dicono tutti. E ci godono. Basta pensare che la Sicilia sta in letteratura e noi no.
E daje, calabresi. A votare non ci andiamo, in piazza non scendiamo, siamo ultimi in tutte le classifiche europee, e frigniamo davanti a una piccola storia in cui improvvisamente, chissà perché, non ci riconosciamo.
Eravamo noi, eravamo. E non eravamo stereotipati come in tanti hanno annotato, ma reali, così come siamo davvero. Perché è il lamento che ci ha portati fino a qui, l’assopimento, l’irriducibile rassegnazione. E niente politica o demagogia.
Certo, su alcune battute poco felici, del milanese, ci sarebbe da fare un discorso articolato. Argomentando persino le pause. Ci sono parole che pungono e fanno male, specie quando si affermano come concetti di base. Ma questa questione, è solo la questione meridionale che resuscita. E non è questo il caso di fare questioni su questione.
Se proprio una morale va tratta da questo film, è che il tempo di crogiolarci è finito, bisogna fare, fare, e ancora fare. E poi sì, poi mostrare al mondo la Calabria che il mondo non si aspetta. Che non è quella delle meraviglie che tutti già sanno, ma quella dei suoi uomini che non si conoscono.
Ieri sera, sul primo canale Rai, la Calabria si è presentata in tutto il suo splendore. Scilla, Zambrone, Briatico, Pizzo. Un ensemble di posti che fanno una terra sola. Che dai, parramundi in domini, calabrisi, a vederla così bella e magnanima, ci sono venuti i brividi. Foramalocchju! (gsc)