Alfredo Garro di Cosenza: missione Luna

di PINO NANO – Storia passata, direte. Forse sì, ma procediamo per ordine.

Era esattamente il 20 luglio del 1969, ed erano le 02,56 del mattino quando dagli schermi dell’unico TG nazionale che allora la RAI mandava in onda il giornalista Tito Stagno annunciò il primo sbarco dell’uomo sulla luna. Un racconto emozionate e coinvolgente che ruotava soprattutto attorno alla storia alla figura e ai movimenti dell’astronauta statunitense Neil Armstrong che per primo mise piede sulla crosta lunare, primo uomo in assoluto nella storia ad essere “allunato”. Poi dopo di lui arrivò Buzz Aldrin, mentre Michael Collins, il terzo astronauta dell’equipaggio, era rimasto in orbita attorno al satellite.

Bene, esattamente cinquant’anni dopo, quindi meno di due anni fa, Jim Bridenstine, storico e mitico amministratore delegato della Nasa, torna davanti alle telecamere dei grandi network americani per spiegare al mondo internazionale della ricerca scientifica che tra «i prossimi obiettivi degli scienziati di Houston ci sarebbe stata di nuovo la Luna e Marte».

«Torneremo sulla Luna entro i prossimi dieci anni – dice – e lo faremo con nuove tecnologie e sistemi innovativi, per esplorare molto più della sua superficie di quanto si pensava fosse possibile in passato». 

Poi aggiunge: «Andremo sulla Luna per restarci, e per farlo useremo tutte le conoscenze che apprenderemo per fare il passo successivo, che sarà quello di mandare i nostri astronauti su Marte».

Dopo le dichiarazioni del numero-uno della Nasa Jim Bridenstinem, gli scienziati di tutto il mondo si affrettano a sottolineare che da questo momento “Sarà dunque necessario, ripensare da zero l’approccio all’esplorazione sulla luna”. 

L’America di Obama, prima, e di Trump, dopo, assegna al progetto un budget di 21 miliardi di dollari. “E’ quanto basta per pensare di poter finalmente portare gli esseri umani sulla Luna”. Ma il vero grande problema -precisano gli esperti- sarà ora la costruzione dei lander, e cioè delle navicelle e delle stazioni di rifornimento necessarie a “rendere l’esplorazione della Luna un’impresa duratura nel tempo”.

Vi chiederete, ma cosa c’entra la Calabria con tutto questo?

Nessuno ci crederebbe, ma parte di questo progetto così straordinario e per noi  anche ancora quasi inverosimile e impossibile, certo immaginifico, porta oggi anche i colori del Campus Universitario di Arcavacata, e lo è per via di una collaborazione importante e concreta al Programma aerospaziale Artemis tra la Nasa e l’Università della Calabria, dove oggi vive lavora e insegna il professor Alfredo Garro, che è uno dei ricercatori italiani che per quasi un anno ha lavorato a questo progetto tra Houston e Cape Canaveral a stretto contatto di gomito con i ricercatori statunitensi, per poi proseguire nella collaborazione dall’Italia. Storia la sua di una meravigliosa “Eccellenza Italiana” che oggi “segna” in maniera profonda il lungo viaggio della ricerca scientifica in Calabria, e che proietta il lavoro e la fatica dei ricercatori calabresi dell’Università della Calabria nel grande circuito internazionale. 

«È per me una soddisfazione davvero enorme. Dopo cinque anni di duro lavoro, spesi ricoprendo il ruolo di vicepresidente del comitato internazionale di standardizzazione, sapere che lo Space Reference Federation Object Model costituisce e costruirà un tassello importante per la realizzazione del programma Artemis della NASA, che ci permetterà di tornare sulla Luna e colonizzarla nel prossimo decennio affinché rappresenti un avamposto per l’esplorazione umana di Marte, tutto questo è motivo di grande orgoglio per tutti noi».

Il programma Artemis utilizza dunque lo SpaceFOM, che sta per Space Reference Federation Object Model, altro non è che lo standard immaginato ideato e definito dal team del professor Alfredo Garro e che «consente a moduli diversi di una missione di comunicare tra loro». Questo vuol dire che il programma Artemis – avviato dalla Nasa per portare sulla Luna «la prima donna e il prossimo uomo» entro il 2024 per partire da lì poi alla conquista di Marte – si realizzerà anche con il contributo del team dei ricercatori dell’Università della Calabria che fanno capo al professor Alfredo Garro.

I dati forniti dalla Nasa parlano di un programma ambizioso, dal costo stimato di 35 miliardi di dollari, che vede oggi una forte collaborazione tra la NASA e le principali agenzie spaziali di tutto il mondo, da quella Europea (ESA) a quella Italiana (ASI), da quella Giapponese (JAXA) a quella Britannica (UK Space Agengy) e infine a quella Canadese (CSA). 

Edwin Zack Crues, che attualmente è a capo del team di simulazione dello Human Landing System Crew Compartment Office al NASA Johnson Space Center di Houston, non ha nessun dubbio. Lui è l’uomo che nei fatti ha progettato e sviluppato centinaia di modelli e simulazioni per veicoli spaziali della NASA, tra questi lo Shuttle, l’International Space Station (ISS), l’Orion, l’Altair, Morpheus e il Multi-Mission Space Exploration Vehicle. 

Ora Edwin Zack Crues dice: «Il nostro obiettivo è di portare la prima donna e il prossimo uomo sulla Luna. Lo faremo entro il 2024, creando una base lunare stabilmente abitabile che sia avamposto verso le future esplorazioni marziane. Ma riportare l’uomo sulla luna e poi portarlo su Marte – aggiunge lo scienziato statunitense- significa realizzare missioni di una complessità senza pari e senza confini, per le quali è necessario disporre di avanzate tecnologie di simulazione che si baseranno sullo standard SpaceFOM per consentire ai moduli di missione (razzi, lander, rover, sonde, satelliti, moduli abitabili, etc.), realizzati dai diversi partner distribuiti su tutto il Globo, di inter-operare efficacemente tra loro». 

Per il gruppo dei ricercatori calabresi è il massimo riconoscimento possibile. 

«Il coronamento di un sogno», si lascia sfuggire Alfredo Garro.

Un lungo viaggio quello di SpaceFOM, iniziato nel 2016 quando il professor Garro, insieme al suo collaboratore, l’ingegner Alberto Falcone, divenne il primo europeo ad essere ospitato, in qualità di “visiting scientist”, presso la Divisione Software, Robotics and Simulation (ER) del Nasa Johnson Space Center (JSC) di Houston a seguito di uno specifico Visiting Research Agreement tra l’Unical ed il quartier generale della NASA. 

«In realtà la storia dello SpaceFOM è una storia molto lunga, perché è il risultato di una collaborazione con la NASA che io ho avviato molti anni fa».

– Professore lei parla dei suoi nove mesi trascorsi al Centro spaziale di Huston?

«Questa storia incomincia ancora prima per la verità. Qualche anno prima partecipai ad una conferenza in Florida, a Orlando, e nel corso di questa conferenza internazionale in una sala di questo grande albergo americano stavano presentando un progetto guidato da NASA, chiamato SEE, Simulation Exploration Experience, rivolto proprio alle varie Università sparse per il mondo, che aveva l’obiettivo di stimolare sia la cooperazione, sia la competizione tra le diverse università per realizzare una simulazione di una base lunare. Più esattamente, un insediamento lunare. E ricordo che un professore dell’Università di Genova, Agostino Bruzzone, con cui ero già in contatto, quella mattina mi invitò ad andare a capire meglio ciò che si diceva in quella sala. Fu lui per primo a suggerirmi che al progetto avrei potuto partecipare come Università della Calabria con un team tutto calabrese. Io in realtà non avevo preso in considerazione tale possibilità».

– Come andò a finire?

«Che appena rientrato in Italia, mi misi al lavoro per mettere in piedi il team necessario per partecipare a quel concorso di idee. Inizialmente formammo un unico team con i due dipartimenti di ingegneria DIMES e DIMEG, e poi alla fine nacquero due team distinti, che si occuparono di entità diverse. L’idea di base era appunto quella di simulare un insediamento lunare, e ogni Università coinvolta nel progetto avrebbe dovuto sviluppare un modulo che contribuisse all’intero scenario. C’era insomma chi si occupava di un rover, chi invece doveva occuparsi dell’apparato di comunicazione, magari un satellite, o un sistema sul suolo lunare, chi invece doveva modellare un astronauta, e il suo comportamento all’interno della base. Immaginiamo dunque un insediamento futuribile lunare da costruire di sana pianta, e alle varie Università spettava dunque il compito di immaginare e progettare pezzo per pezzo la costruzione di questo progetto. Cosa che nei fatti accadde da lì a poco. Ogni Università si mise a lavorare su un modulo diverso dagli altri e che fosse utile all’obbiettivo finale. Moduli, badi bene, che si sarebbero dovuti realizzare attraverso delle linee guida e delle strategie che aveva già deciso NASA per la realizzazione di un insediamento lunare-tipo. Parliamo di uno standard che tecnicamente si chiama HLA».

– Quale fu poi il ruolo dell’Unical in questa avventura?

«Già al primo anno di partecipazione noi calabresi ricevemmo vari attestati di stima e consensi generali. L’anno successivo, nel 2015, alla nostra seconda partecipazione, il team che io supervisionavo come docente, perché allora ero già professore associato, ricevette due premi diversi. Il primo premio, per l’eccellenza tecnologica, direttamente assegnatoci dal comitato NASA che gestiva il progetto, e il secondo premio “Wow”, esclamazione di entusiasmo tipica nel linguaggio parlato inglese, da parte di chi poi assistette alla simulazione che noi avevamo presentato».

– Quale era la novità sostanziale della vostra ricerca?

«Noi come Unical avevamo progettato e presentato un approccio che riduceva i tempi di realizzazione e di sviluppo del progetto stesso, e NASA si rese conto della grande utilità della nostra soluzione. Parliamo di tempi di realizzazione che da alcune settimane si riducevano a solo qualche giorno, e questo ha fatto della nostra soluzione e tecnologia un must di quella edizione, utilizzata successivamente da altri team partecipanti al progetto».

– Professore, per favore mi semplifica questo concetto?

«Le missioni spaziali, quali quelle che hanno per oggetto l’esplorazione della luna, devono essere accuratamente pianificate e simulate, soprattutto perché coinvolgono molti partner. Noi abbiamo sviluppato una tecnologia che la NASA ha valutato tra Cape Canaveral e Houston e rispetto ai partecipanti a quel concorso di idee siamo stati segnalati come i migliori in assoluto. E da qui ne è scaturito ufficiale l’invito per me e per Alberto Falcone a ritornare da loro a Houston, e questa volta in forma stabile per almeno un anno, e sviluppare il nostro progetto direttamente sul campo al Centro Spaziale insieme ai ricercatori statunitensi. Immagini la nostra gioia e il senso di orgoglio che ci portavano dentro. Era la prima volta che la NASA ospitava dei ricercatori europei a casa propria per un lavoro così importante e strategico. Poi noi siamo stati assegnati alla divisione Software, Robotics, and Simulation, ma prima di arrivare a Houston è stato necessario ottenere una serie di pass e di autorizzazioni speciali da parte del Governo americano, anche per via del nostro impegno al Centro Spaziale, e che riguardava per certi versi problemi e tematiche care alla privacy di Stato e alla sicurezza nazionale». 

Dopo un periodo di nove mesi trascorso al centro di Houston, il professor Alfredo Garro, tornato al Campus di Arcavacata, ha proseguito con continuità nei successivi cinque anni la collaborazione scientifica con la Nasa assumendo la vicepresidenza del comitato internazionale di standardizzazione che ha portato nel febbraio 2020 alla pubblicazione dello standard SpaceFOM e, poco più di un anno dopo, alla sua adozione ufficiale da parte della NASA nell’ambito del programma Artemis.

– Professore, ma la notizia più importante è un’altra oggi?

«Si è vero. Siamo già stati contattati da importanti aziende italiane ed europee che partecipano al programma Artemis per essere supportate nell’utilizzo della tecnologia scelta dalla NASA che abbiamo contributo a sviluppare, e un primo accordo di collaborazione tra il nostro Dipartimento universitario ed una grande realtà europea del settore Aerospazio è stato firmato allo scopo proprio pochi giorni fa».

Copertina dunque dedicata a lui oggi, nel giorno in cui i bambini di tutto il mondo aspettano che arrivi Babbo Natale, e porti loro nel sacco dei regali uno spicchio di Luna o un regalo da Marte. 

Copertina dedicata alla conquista dello spazio, ai nostri astronauti, e alla magia che 52 anni fa ci regalò Neil Amstrong lasciando la sua prima impronta sul suolo lunare, meravigliosamente commentata in Rai da un indimenticabile Tito Stagno.

Copertina dedicata alla ricerca scientifica, che a quanto pare è possibile fare anche in Calabria, nel posto spesso percepito come il più sperduto del mondo. 

Copertina, infine, dedicata alla storia e alla vita di questo straordinario ricercatore calabrese di cui oggi si parla alla NASA, e che a Huston ha lasciato tracce indelebili del suo passaggio.

46 anni appena compiuti, educato a pane e matematica, cosentino a 360 gradi, nato cresciuto e formatosi a Cosenza, città dove di fatto ha percorso i tratti salienti di gran parte della sua vita privata e anche professionale, sposato con Concetta De Paola, ingegnere anche lei, padre di un figlio, «Antonio, porta il nome di mio padre», una famiglia “molto presente” alle spalle, la mamma Maria storica maestra alla Scuola Elementare di Via Negroni, il padre Antonio professore di matematica, «insegnava ai Corsi di Formazione Post Laurea della Regione Calabria», e un fratello “bocconiano”, Maurizio, «che oggi vive a Londra dopo una laurea brillantissima a Milano e un master in Economia che lo ha poi portato a lavorare per i più grandi gruppi bancari italiani ed europei» 

Una famiglia importante, dunque, sotto il profilo dell’educazione e della formazione iniziale, che ha fortemente condizionato la sua infanzia e quella di suo fratello Maurizio. Ed è in questo clima di letture, libri, enciclopedie e compiti da correggere per tutta casa, «abitavamo in via Lazio», che Alfredo assorbe dal padre la passione per la matematica, e dalla madre l’amore per la letteratura e la logica filosofica. Alla fine del liceo scientifico, la scelta di fare ingegneria all’Università diventa dunque la decisione più scontata e più naturale di questo mondo.

Dopo la maturità scientifica, conseguita con il massimo dei voti nel Luglio 1994 presso il Liceo Scientifico Statale “Enrico Fermi” di Cosenza, Alfredo si iscrive all’Università della Calabria dove per cinque anni – ricordano i suoi vecchi maestri – è stato uno degli studenti migliori di tutto il corso, un vero e proprio numero uno, predestinato a far parlare di sé e soprattutto già proiettato verso traguardi professionali di grande respiro internazionale.

«Ho scelto ingegneria informatica, perché sapevo che era il futuro, e che avrebbe rappresentato una scelta vincente per gli anni che sarebbero venuti dopo, e quindi per la mia vita. Io già da ragazzo sentivo che il mondo informatico avrebbe riempito il resto della mia esistenza. Poi nei fatti è stato così».

Predestinato, dunque, a diventare da grande un numero uno. Ma già alle scuole elementari Alfredo dimostra di essere “molto più avanti degli altri”, e a lamentarsi di lui con “mamma Maria” saranno le colleghe di istituto.

«La sera a casa vedevo in TV insieme a mio padre e a mio fratello Maurizio, le varie puntate di Quark, il famoso programma di informazione scientifica di Piero Angela che era appena partito in quegli anni, e ricordo che in un paio di quelle puntate iniziali Angela aveva raccontato le galassie, e aveva spiegato i tanti misteri dell’universo. La cosa mi aveva letteralmente affascinato, e mi aveva preso così tanto che l’indomani a scuola, davanti ai miei compagni di classe, bombardai la mia insegnante di domande legate alla puntata che avevo visto la sera prima a casa mia. Quante sono le galassie? Quanto distano da noi? Come si fa a distinguerle? La maestra naturalmente non capì il senso delle mie domande e il giorno dopo avvertì mia madre di questo “figlio che era a caccia di risposte complesse e non facile da dargli”. Ma da allora io non ho mai più smesso di pensare all’universo, al sistema fantastico dei satelliti, e a tutto quello che circolava per il cielo. Non solo, ma da bambino sognavo di poter lavorare per la NASA e magari di poter fare da grande l’astronauta. In realtà da grande ho fatto e faccio ben altro, ma la cosa di cui oggi sono davvero fiero è che gli astronauti alla fine li ho visti davvero da vicino, li ho conosciuti personalmente a Houston e Cape Canaveral, ho visto come si preparano ad affrontare il loro viaggio verso l’ignoto, e nel mio lavoro oggi contribuisco a progettare e costruire moduli in cui ognuno di loro in futuro potrebbe vivere o viaggiare. Per mesi ho vissuto alla NASA passando ogni giorno davanti ai moduli del Programma Apollo, o davanti al Centro Controllo Missione di Huston che per anni avevo visto solo in televisione da casa mia, e a lavorare con le menti più brillanti della ricerca scientifica e dell’innovazione tecnologica nel mondo, perché alla NASA di questo si parla e di questo si tratta. Tutto questo è bellissimo, mi creda».

Alfredo Garro è un fiume in piena, gli chiedi una cosa e parte da lontano, il suo racconto è ricco di dettagli, di riferimenti precisi, ha una memoria di ferro e lo cogli con mano negli anni che ricostruisce, tassello dopo tassello, dei suoi trascorsi universitari ricorda il nome di tutti i suoi insegnanti, dei suoi compagni di corso, degli addetti ai laboratori, una vera e propria macchina da guerra, un mostro informatico dai lineamenti accattivanti e cortesi, ma con un grande cuore dentro, capace di convincerti che il mondo è pieno di favole e di menestrelli felici, ma soprattutto con un senso dell’appartenenza verso il Campus che lo ha visto crescere davvero invidiabile e assolutamente raro.

«Credo che l’Università della Calabria oggi non abbia nulla da invidiare ad altri Campus universitari italiani o europei. Abbiamo energie, uomini, strutture e laboratori in grado di competere con i grandi centri di ricerca internazionali. Dobbiamo solo convincerci di questo, e dobbiamo investire sempre di più sui nostri ricercatori più capaci. Mi creda ne abbiamo tantissimi. I miei corsi sono pieni di ragazzi in gamba, che sono in grado di fare cose che noi alla loro età non avremmo mai saputo fare, ma quello che li blocca forse è l’indolenza che forse la nostra generazione non ha conosciuto. A differenza di noi loro sono più fatalisti. Per noi invece arrivare in alto era fondamentale, perché allora si studiava per diventare migliori, non per fare i gregari. Forse i giovani di oggi sono troppo invasi e distratti da mille messaggi inutili o superficiali, e rischiano di perdere la visione globale del proprio futuro. Moltissimi di loro sprecano i loro talenti sommersi da mille sollecitazioni e informazioni confuse. Ma il Campus di Arcavacata, mi creda, è tra i migliori d’Italia e in futuro sarà ancora più competitivo e più attrezzato di quello che oggi appare sotto gli occhi di tutti».

– Professore non crede sia un tantino esagerato questo suo ottimismo in questa fase così delicata per la vita dell’Università?

«Assolutamente no. Lei provi a immaginare una Calabria senza la nostra Università, e provi a immaginare cosa sarebbe oggi la città di Cosenza, e anche quella di Rende, senza il nostro Ateneo. Sarebbe la morte spirituale e reale di intere generazioni di ragazzi calabresi che oggi invece frequentano felicemente i nostri corsi e le nostre aule e da cui dipenderà il futuro reale di questa regione. Costretti altrimenti ad emigrare giovanissimi in cerca di atenei diversi e lontani da casa propria. Guai a dimenticare la grande visione dei padri fondatori della nostra Università, e qui penso al primo rettore dell’Ateneo, Beniamino Andreatta. Era stato il primo a immaginare il ruolo strategico del nostro Campus universitario nella dinamica generale della crescita sociale della Calabria, ed era stato il primo a parlare dei grandi successi che l’Ateneo avrebbe prima o poi raggiunto. Noi tutti oggi siamo il risultato concreto di quella sua visione e di quella sua intuizione politica. Ricordo che il professore Andreatta in ogni suo discorso non faceva altro che ricordare quale fosse il ruolo reale del Campus, e secondo lui sarebbe stato uno strumento di crescita dell’intero sviluppo regionale. Sembrava un visionario, ma lui aveva visto il futuro meglio di chiunque altro. Oggi, 50 anni dopo c’è qui una Università che sta ottenendo risultati eccellenti e riscontri di valore internazionale in termini di qualità davvero impensabili e inimmaginabili che arricchiscono il territorio. Questo è il vero dato storico con cui dobbiamo fare i conti”.

Per il suo valore professionale e la qualità altissima delle sue ricerche oggi Alfredo Garro è membro dell’Istituto Nazionale di Alta Matematica “Francesco Severi”, e per chi frequenta questo mondo della matematica sa che siamo ai massimi livelli europei.

Ma partiamo dall’inizio.

Siamo nel 2000, quando Alfredo si laurea in Ingegneria Informatica all’Università della Calabria con il massimo dei voti e una Tesi svolta presso il Centro Studi Laboratori Telecomunicazioni del gruppo Telecom Italia di Torino su un tema di grande interesse scientifico, Progetto e sviluppo di un sistema real-time interattivo per teleformazione su reti IP, relatori il Prof. Domenico Saccà, l’Ing. Mario Cannataro (ISICNR), e la Dottoressa Stefania Lisa (CSELT S.p.A.). A questo punto vince senza colpo ferire il suo primo Dottorato di Ricerca in Ingegneria dei Sistemi ed Informatica, con risultati anche qui a dir poco strabilianti per uno studente che non si era mai mosso da casa e che non aveva ancora mai lasciato l’Italia.

Oggi Alfredo Garro è Professore Associato di Sistemi di Elaborazione presso il Dipartimento di Ingegneria Informatica, Modellistica, Elettronica e Sistemistica (DIMES) dell’Università della Calabria, e Presidente di Associazione Italiana di Systems Engineering (AISE) – Chapter “Italia”, dell’International Council on Systems Engineering (INCOSE), dopo esserne stato Vice Presidente nel biennio 2018-2019 e Direttore Tecnico nel biennio 2016-2017.

– Professore qual è il ricordo più intenso che ha della sua vita accademica?

«Se c’è una cosa che mi porterò per sempre dentro il cuore è l’incontro con il Presidente Sergio Mattarella a Houston, quando il Presidente venne in visita al Johnson Space Center. Era il 12 febbraio del 2016 e il Presidente volle incontrare gli astronauti che allora si preparavano alle loro rispettive missioni e con gli astronauti volle incontrare e conoscere anche i ricercatori italiani che in quel momento erano impegnati al centro di Houston. Ricordo con commozione l’incontro che il Presidente ebbe con i nostri astronauti Luca Parmitano, Paolo Nespoli, Samantha Cristoforetti, Roberto Vittori, Walter Villadei e l’italo-americano di origini calabresi Mario Runco. E quando ci fu detto che il Capo dello Stato ci teneva a salutare gli italiani che in quel momento lavorano al Centro NASA ci siamo ritrovati in sei davanti al Presidente, ma gli unici due che lavorano per conto della NASA in realtà eravamo io e il mio compagno di lavoro Alberto Falcone. Gli altri erano al Centro Spaziale per conto delle varie agenzie internazionali e grandi aziende. Indimenticabile, esperienza davvero indimenticabile».

– Professore ma non fu quello il suo unico incontro con il Presidente della Repubblica?

«Si è vero, ho poi ritrovato il Presidente Mattarella in Calabria, quando l’anno successivo venne al Campus di Arcavacata per inaugurare l’Anno Accademico, e ricordo che in quella occasione mi avvicinai per salutarlo e gli dissi “Presidente si ricorda di me? Ci siamo già visti un anno fa a Houston”. Lui si ricordava perfettamente tutto, anche la nostra chiacchierata al Centro Spaziale sullo stato dei ricercatori italiani all’estero, e in questa seconda occasione mi ripeté il grazie che mi aveva già rivolto a Houston. “Grazie per quello che ognuno di voi rappresenta all’estero in nome dell’Italia, confrontandosi a pieno titolo con i massimi ricercatori stranieri. Tutto questo, mi disse Mattarella ancora una volta ad Arcavacata, fa bene al Paese”. Io provai allora a ricordargli che in Italia la ricerca scientifica ha ancora molta strada da percorrere, va adeguatamente finanziata e supportata dallo Stato centrale, e lui senza peli sulla lingua mi rispose che se ne sarebbe fatto carico “anche se lei sa – mi disse – che il Presidente della Repubblica in questo Paese può sollecitare alcuni provvedimenti, ma poi deve essere il Governo a farli propri e a realizzarli”. E ricordo anche con altrettanta emozione la serata di gala che il Console Italiano a Houston organizzò in nostro onore. Il Console allora era una donna molto capace, Elena Sgarbi, e anche in quella occasione ci fu detto “grazie” a nome del Paese per il lavoro che stavano facendo per conto dell’Italia. Sono queste le cose che poi contano di più e che ti porterai dentro per il resto della vita» 

Ad ottobre del 2016 partecipa al Training Programme presso il CERN di Ginevra, che lui ricorda come un «grande privilegio personale» essendo tra i primi dieci Ingegneri Italiani appositamente selezionati dal Consiglio Nazionale degli Ingegneri su 539 candidati. Ma in questi settori così altamente specialistici la qualità paga sempre.

Ancora prima, però da Settembre del 1999 a Settembre del 2001 Alfredo era stato Ricercatore presso il CSELT di Torino, e dal 2001 al 2005 ha collaborato invece con l’Istituto di Calcolo e Reti ad Alte Prestazioni (ICAR) del Consiglio Nazionale della Ricerca (CNR), mentre da Gennaio 2005 a Dicembre 2011, era stato anche Ricercatore di Sistemi di Elaborazione presso il Dipartimento di Ingegneria Elettronica, Informatica e Sistemistica (DEIS) dell’Università della Calabria. 

Insomma, un percorso professionale da primo della classe, sempre comunque e dovunque.

Autore di oltre 100 pubblicazioni su riviste internazionali, e protagonista di decine di conferenze, il giovane ricercatore calabrese vanta anche una lunga serie di collaborazioni scientifiche nazionali ed internazionali avviate con il NASA Johnson Space Center (Houston, TX), e proseguite poi con l’Università tecnica di Darmstadt (Germany); l’Università di Brunel (London, UK), L’Università di Linköping (Sweden),“Programming Environment Laboratory”; l’Università di Stoccarda (Germany), “Institute of Statics and Dynamics of Aerospace Structures”; l’Università di Liverpool (UK); l’ICAR-CNR , “Istituto di Calcolo e Reti ad Alte Prestazioni” del CNR; il Dipartimento di Dipartimento di Ingegneria Meccanica e Aerospaziale del Politecnico di Torino; il Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione, delle Infrastrutture e dell’Energia Sostenibile dell’Università di Reggio Calabria; il Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell’Università degli Studi di Parma; il Dipartimento di Informatica dell’Università di Torino; il Dipartimento di Dipartimento di Informatica – Scienza e Ingegneria dell’Università di Bologna; il Dipartimento di Ingegneria Meccanica, Energetica, Gestionale e dei Trasporti dell’Università di Genova; e infine  il Dipartimento di Ingegneria dell’Impresa dell’Università di Roma – Tor Vergata.

– Professore c’è uno slogan che oggi può meglio condensare la sua vita e il suo successo personale?

«Non uno slogan, ma un concetto che considero fondamentale certamente si, c’è. Ai miei studenti la prima cosa che cerco di insegnare e di instillare nelle loro intelligenze è questa: “Non bisogna mai sognare il possibile. Bisogna invece sognare l’impossibile”. Perché se io mi pongo un obiettivo, la differenza qual è? Non deve essere utopia, deve essere speranza. Un sacerdote che mi è molto caro, don Giacomo Tuoto, perché ho con lui un rapporto speciale, mi dice sempre “Alfredo, sai quale è la differenza tra speranza e utopia? L’utopia è sognare una vigna florida. La speranza è piantare un vitigno e sognare una vigna florida”. È bello sognare qualcosa, ma bisogna anche avere la pazienza di piantare il vitigno perché quel sogno si realizzi. Altrimenti è pura utopia, e il sogno rimane irrealizzabile. Sognare dunque l’impossibile ma con un’ottica di speranza, non di utopia. È questo il vero segreto del successo di un uomo. Qualunque cosa egli faccia. L’importante è avere degli obbiettivi chiari e precisi da perseguire, evitando di distrarsi, ma dedicandosi e impegnandosi con costanza per realizzare poi i propri sogni».

Nel 2014 Alfredo Garro fonda il Laboratorio di Ricerca Dipartimentale System Modeling and Simulation Hub (SMASH Lab) di cui è attualmente responsabile, una vera eccellenza del settore.

– Professore, di cosa si tratta in realtà?

«Lo SMASH Lab svolge attività di ricerca finalizzata alla definizione, sviluppo, sperimentazione e diffusione di modelli formali e metodi quantitativi per la modellazione e simulazione di sistemi ingegneristici complessi, e la valutazione delle loro prestazioni. Il Laboratorio offre, inoltre, supporto all’attività di didattica erogata su tali tematiche. Le attività dello SMASH Lab sono condotte e supportate dalla partecipazione a progetti di ricerca di livello nazionale ed internazionale e si focalizzano, attualmente, sulla rappresentazione virtuale di sistemi cyber-fisici al fine di supportarne l’intero ciclo di vita, dalla concezione ed analisi, alla progettazione, operatività e dismissione: il paradigma di riferimento è quello del Digital Twin, ossia un “gemello digitale”, fedele riproduzione di un sistema ingegneristico reale».

– Chi ci lavora oggi?

«Allo SMASH Lab afferiscono professori, ricercatori e personale tecnico-amministrativo del Dipartimento di Ingegneria Informatica Modellistica Elettronica e Sistematica (DIMES) dell’Unical. Una squadra meravigliosa, mi creda».

Non finisce qui. Alfredo Garro è stato anche Coordinatore Nazionale per l’Italia e membro dell’Executive Committee del “Progetto Europeo ITEA2 MODRIO”, “Model Driven Physical Systems Operation”, e oggi è membro del Laboratorio Nazionale di Cyber Security del CINI, il Consorzio Interuniversitario Nazionale per l’Informatica, e del Distretto Tecnologico di Cyber Security (DCS). E infine troviamo il suo nome e il suo curriculum anche come Senior Member dell’IEEE, l’Institute of Electrical and Electronic Engineers, e come membro delle seguenti Società, la IEEE Computer Society, la IEEE Reliability Society, la IEEE Aerospace and Electronic Systems Society.

– Professore mi fa un esempio di innovazione tecnologica che sia da ritenersi oggi all’avanguardia in Calabria?

«Noi oggi abbiamo in Calabria una serie di esperienze importanti e di assoluta eccellenza che operano nel settore delle ICT. Pensi per esempio al polo di ricerca di NTT Data che ha tre poli in tutto il mondo, Palo Alto in California, Tokio, la casa madre in Giappone, e poi il terzo polo qui in Calabria a Rende, appena a ridosso dell’Unical. Parliamo di una realtà industriale che oggi impiega a Rende oltre duecento ingegneri, forse anche duecentocinquanta, gran parte dei quali laureati tutti da noi e quasi tutti calabresi. Il 92 per cento di loro sono cresciuti praticamente nel nostro Campus nei corsi di laurea in ingegneria. E poi parliamo di un polo di ricerca internazionale che lavora e si confronta ogni giorno con le dinamiche degli altri poli satellite di Palo Alto e Tokio. Ma chi l’avrebbe mai immaginata appena 20 anni fa una realtà come questa? Un centro di ricerca puro, non di semplice gestione commerciale e per la storia di questa regione è davvero un tuffo nel futuro. Qui parliamo senza ombra di smentita di innovazione pura e di strategia industriale che non ha pari al mondo. Pensi anche che tra Palo Alto, Tokio e Rende hanno cicli di lavoro sulle 24 ore giornaliere perché riescono a coprire tutte e tre le macro-zone di fuso orario, e questo in termini reali vuol dire produrre innovazione da immettere poi sul mercato internazionale. Ecco allora che comunicare questi risultati diventa fondamentale per tutti, soprattutto per il territorio, perché queste informazioni, che non tutti sempre conoscono, sono utilissime per spiegare quanto l’Università abbia dato e continui a dare giorno per giorno al territorio su cui è sorta e sviluppata, superando così una sorta di diffidenza reciproca che spesso il territorio ha alimentano nei confronti del nostro Campus universitario».

– Posso chiederle a chi sente oggi di dover dedicare il suo lavoro e il suo successo?

«Certamente sì. Non avrei potuto svolgere alcuna attività di ricerca e raggiungere alcun risultato senza il supporto della mia famiglia di origine, di quella nata dall’unione con mia moglie Concetta, e di tutti coloro, parenti, amici e colleghi, che mi hanno sostenuto e supportato nel mio percorso. Le sembrerà scontato ma la mia prima dedica non può non andare che a loro. Chi si impegna nella ricerca lo fa però con lo scopo di far progredire con il proprio lavoro l’umanità stessa nel cammino che ha intrapreso “per seguir virtute e canoscenza”, tutto ciò che noi facciamo è quindi, in ultima analisi, dedicato all’Uomo inteso come frammento e specchio dell’intero Creato. La ricerca è impegno costante che non comporta “rinunce” ma direi “scelte consapevoli” che richiedono sacrificio, impegno e dedizione; scelte ripagate, tuttavia, dall’enorme gioia che si prova quando si ottiene qualcosa che ci sopravvive e diventa parte della storia della nostra Specie: questo, credo, sia ciò che ogni ricercatore profondamente sogna».

– E il sogno segreto che c’è ancora invece nel cassetto di Alfredo qual è?

«Non sorrida per favore, ma il mio cassetto non contiene un solo sogno. Contiene invece ancora un intero libro di sogni, e guai se tutte le pagine fossero già state strappate, ce ne sono ancora tante, e di nuove se ne aggiungono di continuo. Per restare in tema, alcune volte mi piace chiudere gli occhi e sognare di poter un giorno passeggiare con mio figlio Antonio sulla Luna, guardare verso la Terra, la nostra casa nel cosmo, vederla così meravigliosamente bella ma anche così fragile. Gli racconterei della riflessione che fece il grande astronomo Carl Sagan quando nei primi anni Novanta chiese alla Nasa di scattare un’immagine della Terra vista dalla sonda Voyager 1, che allora si trovava a sei miliardi di chilometri di distanza dal nostro Pianeta: “La Terra è l’unico mondo conosciuto che possa ospitare la vita. Non c’è altro posto, per lo meno nel futuro prossimo, dove la nostra specie possa migrare. Visitare, sì. Colonizzare, non ancora. Che ci piaccia o meno, per il momento la Terra è dove ci giochiamo le nostre carte. È stato detto che l’astronomia è un’esperienza di umiltà e che forma il carattere. Non c’è forse migliore dimostrazione della follia delle vanità umane che questa distante immagine del nostro minuscolo mondo. Per me, sottolinea la nostra responsabilità di occuparci più gentilmente l’uno dell’altro, e di preservare e proteggere questo pallido punto blu, l’unica casa che abbiamo mai conosciuto».

Buon Viaggio allora professore.  (pn)