In vacanza con noi stessi: la riflessione dell’Arcivescovo Vincenzo Bertolone

«Trovo affascinante che molta gente pianifichi le proprie vacanze con maggior cura di quanto facciano per la propria esistenza. Forse è perché evadere è più facile di cambiare».
Il giudizio caustico dello scrittore americano Jim Rohn ben descrive lo stato d’animo col quale, ai giorni nostri, ci si prepari alle ferie e le si intenda: fuga da tutto e tutti, come fossero orpelli di cui liberarsi finanche gli affetti all’apparenza più cari, almeno nella quotidianità. Una situazione indice di un cambiamento epocale, consumatosi nel volgere di mezzo secolo appena: i nonni di oggi, bimbi di ieri, ricorderanno certo come una volta non si andasse in vacanza. Al massimo, si tornava ai luoghi di origine per fermarsi lì per una settimana, al massimo due, con nonni e zii. Poi, sapientemente ricercata e costruita, si aprì la stagione del benessere e le vacanze, da roba da ricchi che erano, si trasformarono in accessorio quasi universale. E così oggi, quando pensiamo a spiagge e laghi e monti e luoghi esotici, subito saltano alla mente tutte quelle persone e quegli impegni dai quali ci si allontanerà ritenendoli, più o meno implicitamente, un fastidio. E questo ancor più in estate, vista come il tempo perfetto per dimenticare tutto, dato che l’idea di staccare la spina reca con sé la necessità impellente di distaccarsi dai consueti pensieri prendendo le distanze da tutto. Dio compreso.

Se così è, non vuol dire che così sia sempre stato o che sempre, ora, così debba essere. La vacanza è uno spazio: in tale spazio, stare insieme può significare riaccorgersi della prodigiosa presenza dell’altro. Ecco perché essa è qualcosa – molto – di più di un semplice ozio, anche dell’anima, fine a se stesso. Al contrario, può (e deve) divenire periodo per una prova di libertà, per capire cosa significhi essere autenticamente liberi e di quale libertà abbia davvero bisogno l’uomo.

Come ricordava già Papa Giovanni Paolo II nel 1996, le vacanze «non devono essere viste come una semplice evasione, che impoverisce e disumanizza, ma come momenti qualificanti dell’esistenza stessa della persona». Dunque, il periodo che inizia può rappresentare per ognuno l’opportunità per interrompere i ritmi quotidiani, che affaticano e stancano fisicamente e spiritualmente; per prendere coscienza del fatto che il lavoro sia un mezzo e non il fine della vita, e che è ancora possibile scoprire la bellezza del silenzio come occasione per ritrovare se stessi e considerare con occhi diversi la propria esistenza e quella degli altri.

Insomma, sempre secondo la riflessione di Papa Woytila, «è un’esperienza, questa, che apre ad un’attenzione rinnovata verso le persone vicine, a cominciare da quelle di famiglia». Una traccia interessante, da non lasciar cadere nel vuoto, per fare delle vacanze il tempo della presenza, e non più dell’assenza, dando spazio a se stessi ed a ciò che conta. E anche a Dio.

+ Vincenzo Bartolone
Presidente Conferenza Episcopale Calabra
Arcivescovo Diocesi Catanzaro-Squillace

«Guidare il Paese illuminandogli la strada»: la riflessione domenica dell’Arcivescovo Bertolone

«Parliamo, giustamente preoccupati, di distacco tra società civile e società politica e riscontriamo una certa crisi dei partiti, una loro minore autorità, una meno spiccata attitudine a risolvere, su basi di comprensione, consenso e fiducia, i problemi della vita nazionale. Ma, a fondamento di ciò, non c’è forse la incapacità di utilizzare anche per noi, classe politica, la coscienza critica e la forza di volontà della base democratica?»
Era il 1969. Con spirito profetico, parlando ai dirigenti nazionali del suo partito, Aldo Moro coglieva il senso e la portata di una frattura che andava già aprendosi e che sarebbe poi diventata voragine. Oggi la politica – ed i politici – sono come in cerca di se stessi, quasi anche di una ragione e di un’anima, all’interno di una società nel suo complesso – a onor del vero – sospesa tra un mondo che non c’è più ed un altro che stenta a maturare. Le cronache quotidiane ne sono testimonianza, e le recenti vicende legate alla  scarcerazione del killer di mafia Giovanni Brusca – giusto per fare un esempio tra i tanti possibili – lo dimostrano: a fronte della comprensibile indignazione popolare, si è assistito ad un diluvio di dichiarazioni da parte di coloro i quali, titolari dell’esercizio del potere legislativo, ben avrebbero potuto – e potrebbero – cambiare le norme di cui lamentano l’applicazione. Peraltro facendo finta di non sapere che il ritorno in libertà del sanguinario omicida di Cosa Nostra è frutto di leggi volute dagli stessi giudici morti proprio per mano di Brusca e dei suoi sodali, utilizzate per arginare lo strapotere di una mafia fino ad allora intoccabile.
Resta, al fondo, un gusto amaro: il compito di una classe dirigente non è quello di seguire la corrente, magari in base agli algoritmi delle tendenze sui social, ma di guidare il Paese illuminandogli la strada. Senza ovviamente cedere un millimetro sui princìpi della legalità, ma ricordando che esiste anche il volto mite della giustizia. Si assiste invece – in molti  casi – ad un costante cedimento su entrambi i fronti: sempre più attenti alla realtà virtuale, spesso distratti sul versante del rispetto di regole ed etica. Fino a non molto tempo fa le strade d’accesso alla politica ed al servizio politico nelle istituzioni erano quelle che avevano quale base le scuole di partito. Ai giorni nostri restano eventi di varia natura, messi in piedi – il più delle volte – da organizzatori spesso digiuni di competenze formative ma sazi di propaganda sui social, al malcelato scopo di fidelizzare una parte minimale di giovani e ragazzi, per acquisire così un consenso effimero, ma utile ad accreditarsi agli occhi dell’opinione pubblica, evidentemente quella parte sparuta che poi partecipa alle tornate elettorali.
Rovesciare il banco e ripartire proprio dalle scuole di formazione politica potrebbe essere una soluzione utile, oltre che necessaria, a patto di garantire continuità e durata dell’esperienza formativa, carisma dei maestri, conoscenza e continuo studio del passato e del presente al fine di individuarvi i segni dei tempi e progettare il futuro. «Tempi nuovi si annunciano e si avanzano in fretta come non mai», preconizzava proprio Moro, sottolineando: «Nel profondo è una nuova umanità che vuole farsi, è il moto irresistibile della Storia». E la Storia, si sa, non è un selfie o qualche secondo di tik tok.
+ Vincenzo Bertolone
Presidente Conferenza Episcopale Calabra
Arcivescovo della Diocesi di Catanzaro-Squillace

Il nuovo mondo: la riflessione domenicale dell’Arcivescovo Mons. Bertolone

LA RIFLESSIONE DOMENICALE DEL PRESIDENTE DELLA CEC, MONS. VINCENZO BERTOLONE. “IL NUOVO MONDO”

“La teoria economica convenzionale, per ricoprire il ruolo di guida dell’impresa, ha escogitato quell’essere umano a una dimensione che è l’imprenditore. Lo ha isolato dal resto della vita, separandolo dalla sfera religiosa, da quella delle emozioni, da quella politica e da quella sociale, così che non gli resti che occuparsi di una sola cosa, la massimizzazione del profitto”.
Vale la pena ripartire dalle parole dell’economista Muhammad Yunus, premio Nobel per la pace, per chiedersi che tipo di uomo abiti il nostro tempo. A giudicare dai fatti terribili di Stresa, pare si sia andati ben oltre la figura dell’homo oeconomicus, delineata per la prima volta da John Stuart Mills e coincidente con l’identikit di chi predilige la razionalità e cerca di ottenere il massimo vantaggio per se stesso, tenendosi alla larga da ogni valore sociale.
Più che chiedersi cosa siamo diventati, o forse siamo sempre stati, è il caso di domandarsi, alla luce delle ingiustizie e disuguaglianze caratterizzanti la società contemporanea, se e quale svolta sia possibile immaginare, rispetto al sistema di sviluppo che orienta ormai in tutto e per tutto la vita di ognuno. Al di fuori dell’eterna e irrisolta disputa tra capitalisti e anticapitalisti, che nella polarizzazione tra i fronti contrapposti ha portato ad un paludoso immobilismo in cui l’individualismo più sfrenato s’è diffuso anche quando vestito da cooperazione, la necessità è evidente, ed è stata ben delineata da papa Francesco: «È necessario e urgente un sistema economico giusto, affidabile e in grado di rispondere alle sfide radicali che l’umanità e il pianeta si trovano ad affrontare».
V’è, in questa prospettiva, l’antidoto ai mali indicati da Yunus: un cammino nel solco di una generosa solidarietà, per favorire il ritorno dell’economia e della finanza ad un approccio etico avente quale linfa la tutela della persona umana, cercando modi – usando ancora le parole del Santo Padre – per rendere il capitalismo «uno strumento più inclusivo per il benessere umano integrale». Non è il richiamo ad una riforma dal di dentro, più volte invocata, qualche volta tentata e mai riuscita, ma un chiaro invito all’elaborazione di una strategia di superamento di un sistema economico colmo di aberrazioni. Già Paolo VI, con la Popolorum progressio, aveva gettato le basi per il graduale consolidamento di un nuovo umanesimo. Giovanni Paolo II, attraverso la Laborem exercens, aveva respinto il configurarsi del lavoro come merce. Benedetto XVI, poi, nella Caritas in veritate, aveva denunciato la finanza fine a se stessa, la speculazione, l’accumulazione capitalistica, richiamando per contro la centralità della figura dell’imprenditore legata però alle sue responsabilità sociali. Il filo rosso che tutto lega è nella necessità di far prevalere l’interesse sociale nell’azione economica sul calcolo utilitaristico e sul concetto di una società competitiva e atomizzata, promuovendo l’idea che occorra sostenere la cooperazione tra uomini, popoli e nazioni e coltivare una forte sensibilità ambientale per frenare gli appetiti predatori. Questa visione può contare, ad oggi, su una vivacità intellettuale, culturale ed umana alquanto diffusa, non ancora sulla capacità di trasformarle in sistema. È ciò che manca, è ciò che serve.
+ Vincenzo bertone
Presidente Commissione Episcopale Calabra
Arcivescovo della Diocesi di Catanzaro-Squillace

«Povera patria schiacciata dagli abusi di potere»: la riflessione di mons. Bertolone

LA RIFLESSIONE DELLA DOMENICA
«Povera patria/schiacciata dagli abusi del potere/di gente infame, che non sa cos’è il pudore/si credono potenti e gli va bene quello che fanno/E tutto gli appartiene».
Così cantava Franco Battiato, passato a miglior vita pochi giorni fa ma rimasto tra noi con il suo patrimonio di versi, note e, soprattutto, con l’eredità di un pensiero profondo, racchiuso in canzoni, ritratto impietoso di un’epoca in cui alla cultura si predilige il disinteresse, mentre abbandono e decadenza prevalgono su merito e qualità. Era siciliano, Battiato, come Andrea Camilleri, scrittore che ha contribuito, al pari del cantautore catanese, a far conoscere l’anima vera della Sicilia, veicolandone ovunque persino la lingua e raccontando, attraverso il Commissario Montalbano ed una miriade di altri romanzi, le mafie e il male ed il loro squallore, senza scadere nel sensazionalismo da operetta che negli anni ha contribuito a creare stereotipi offensivi, dietro i quali l’anticulturamafiosa ha continuato a prosperare. Un inganno perpetrato anche assumendo sembianze pseudoreligiose, fino a quando il riconoscimento dei martìri di padre Pino Puglisi e del giudice Rosario Angelo Livatino, essi pure sicilianissimi, ha squarciato il velo delle apparenze e dell’ipocrisia, separando il grano dalla zizzania: la mafia è apologia del male e del potere, che nulla ha a che vedere con il Vangelo di cui è anzi negazione, nonostante l’ostentata devozione a santi e madonne, custoditi finanche nei covi usati nei periodi di latitanza ma in realtà esibiti solo per conseguire consenso sociale e dimostrarsi più forti di ogni cosa, al di là di ogni legge umana e morale.
Non era così, non è così. Ed è un bene che la dimostrazione sia venuta proprio dalla Sicilia e dai siciliani. Storie diverse, di persone le cui vicende terrene si sono intrecciate senza mai toccarsi, che nella loro originalità – condivisa con quella di tanti altri che a questo percorso hanno dato linfa e vitalità, spesso al prezzo della propria vita – hanno portato alla maturazione di una consapevolezza nuova, in cui non v’è posto per gli abusi del potere, per l’ignoranza del pudore di chi si crede invincibile e ritiene senza fondamento di continuare a farequello che gli pare.
C’è, alla base, una lezione grande, che Fedor Dostoevskij sintetizzava in poche parole, pronunciate dal protagonista del romanzo L’idiota: «La bellezza salverà il mondo». Concetto poi piegato a mille banalità, ma che non perde di forza: il bello autentico è anelito alla giustizia, al futuro, alla pace, all’amore. Dunque, per molti versi, alla fede, come appare evidente se sol si considera che ad ispirare lo scrittore russo nel dare forma e sostanza alla figura del suo Myškinfu un dipinto, il Corpo di Cristo morto nella tomba, raffigurato dal pittore tedesco Hans Holbein nel 1521. E se pure – come argomentano i più realisti del re – in un mondo crudele, piegato al consumo e imprigionato nelle logiche dell’utilitarismo, la bellezza non dovesse rivelarsi salvifica, sarà comunque d’aiuto ad emancipare dalle passioni basse e dagli istinti volgari, spingendo l’uomo (specie in questo tempo di pandemia), secondo l’invito di Charles Baudelaire, «a discendere l’Ignoto nel trovarvi nel fondo, infine, il nuovo».
+ Mons. Vincenzo Bertolone
Presidente Conferenza Episcopale Calabra
Arcivescovo della Diocesi di Catanzaro-Squillace

La riflessione domenicale dell’Arcivescovo Bertolone: il 25 aprile di ogni giorno

di VINCENZO BERTOLONE – «Sarebbe rassicurante pensare che in guerra il nemico sia sempre e comunque quello fuori di noi. E che, una volta vinto il nemico, sia risolto il problema del male. Sarebbe rassicurante, ma anche troppo comodo».

Quel che lo storico Sergio Luzzato scrive in uno dei suoi saggi è chiaro: si possono vincere le guerre, ma non è detto che ciò basti a debellare le ragioni irrazionali che ne determinano lo scoppio. Ed è forse proprio questo il nodo irrisolto dell’eredità del 25 Aprile, festa che dovrebbe essere di tutti ma che col tempo è stata trasformata, ogni volta, in occasione di confronto spesso tracimato in divisioni sterili quanto futili e dannose. È il segno della confusione che impera sotto i cieli della modernità: la cultura, intesa come capacità di interpretare la realtà, è oggi debole di fronte alle semplificazioni dettate dalla paura. Siamo portati a vivere come punti interrogativi che camminano, desiderosi di una gran voglia di cambiamento, ma in quale modo e verso quale direzione questo cammino debba orientarsi, sembra essere questione lontana dall’essere risolta. Eppure, proprio guardando alla battaglia di civiltà per liberare l’Italia e il mondo dal nazifascismo, con il sacrificio anche di moltissimi cattolici, una certezza c’è: fascismo e nazismo hanno lasciato un marchio indelebile, che non ammette amnesie o revisionismi. Non fuori, neppure dentro ognuno di noi. I campi di concentramento e di sterminio, ad esempio, non sono un’opinione: sono fatti. «Considerate che questo è stato», scrive Primo Levi: un monito che non lascia spazio a repliche di alcun tipo.
È allora evidente la necessità di uno sforzo per ridare radici, motivazioni e spessore etico ad una quotidianità in cui, un po’ in ogni ambito, si avverte una scarsa capacità di previsione, e dunque di costruzione dell’avvenire, perché chi non sa da dove viene difficilmente può sapere dove va. In questo i cattolici sono tenuti ad un impegno concreto, perché dal Vangelo e dalla sua pratica scaturisca una cultura che spieghi la realtà e sappia accrescere una conoscenza e una comprensione più profonde e umane del reale.
Vale la pena richiamare, in proposito, un episodio che ebbe come protagonista David Maria Turoldo, che nel corso di un incontro con alcuni studenti ne catturò l’attenzione raccontando loro un aneddoto personale, di quando era stato con la pontificia opera di assistenza a raccogliere le ceneri nei lager. Diceva: «Ho in mente lo scricchiolare sotto le scarpe, la sensazione che fosse sabbia e invece erano ceneri dei morti usciti dal camino». Un fatto banale, però capace di far capire quanto la storia sia maestra. Per questo, ancor più in un tempo di crisi sociale ed economica, in cui la pandemia ha reso tutto più difficile, è legittimo arrivare al 25 Aprile chiedendosi se il Paese abbia ancora un “idem sentire”, un punto di riferimento comune cui ispirarsi. Ma la risposta c’è: è la Costituzione, un patrimonio comune formatosi in un periodo difficile, a partire da visioni del mondo contrapposte eppure capaci di trovar sintesi. Anche questo è stato, fortunatamente. E va difeso, perché sempre possa essere.
+ Vincenzo Bertolone
Presidente Conferenza Episcopale Calabra
Arcivescovo della Diocesi di Catanzaro-Squillace

LA DOMENICA / Mons. Bertolone: «I veri paradisi sono i paradisi perduti»

«I veri paradisi sono i paradisi perduti».
Non lo nego: nelle tempeste quotidiane più d’una volta ha fatto capolino sull’uscio anche delle mie giornate l’eco delle parole di Marcel Proust. Lo scrittore francese, che spese la sua esistenza alla ricerca del tempo perduto, quasi fosse una leggendaria isola in mezzo ai mari della realtà, celava dietro questa impossibile ricerca il distacco da un presente che appariva distante dai suoi ideali, dai suoi desideri, dal mondo voluto ed amato nei sogni.
Il ripiegarsi nel passato, specie nelle ore difficili, o comunque sovrastate dall’amarezza del ritrovarsi confusi di fronte agli eventi che si susseguono in maniera tumultuosa e a volte incomprensibile, come davanti al mutare degli uomini e dei loro atteggiamenti, è esperienza comune. È allora che si ritiene possa essere utile lenimento rannicchiarsi nel ricordo di ciò che era. Ma il viso che volge sempre lo sguardo al tramonto del giorno prima, mentre il passo si muove lesto sui sentieri di quello che viene, è il segno d’una nostalgia che è sofferenza, rifiuto del cambiamento per ciò che il tempo distrugge, rabbia impotente davanti al tempo devastatore, che non si limita a passare, ma annienta. È insomma una sorta di buco nero che pare adatto a risucchiare lutti e perdite, dolore e impotenza.
Certo: senza passato si è poveri, senza memoria non si ha la forza di progredire, senza radici si è perduti. Ed è questo uno dei rischi più seriper la contemporaneità, priva della dovuta attenzione ad un passato che dovrebbe essere invece luce per l’avvenire. E tuttavia il vivere in uno stato di permanente distacco del progresso, nell’incapacità di andare avanti prigionieri della malinconia, si traduce spesso in una malattia della psiche, come osservano gli psicoterapeuti; in uno spirito che gela e paralizza.
Avanti, dunque, anche quando tutto sembra perduto, anche quando tutt’attorno (e negli occhi del prossimo) non sembra esservi spazio più spazio nemmeno per la speranza. Perché un sentimento così complesso e importante si riveli non solo profondo, ma anche utile, è necessario tenerlo orientato al domani. Da cristiani, possiamo essere capaci di una straordinaria forza quando riusciamo a nutrire la nostalgia dell’incontro con Cristo – che è avvenuto, avviene e avverrà – e di noi stessi, che in virtù di quell’incontro cerchiamo e seminiamo tracce di bontà e di gioia assaporata. «Non possiamo restare fermi nella nostalgia del passato o limitarci a ripetere le cose di sempre, nelle lamentele di ogni giorno», ci ricorda anche Papa Francesco. Al contrario, aggiunge il Santo Padre,«abbiamo bisogno della coraggiosa pazienza di camminare, di esplorare strade nuove, di cercare cosa lo Spirito Santo ci suggerisce. E questo si fa con umiltà, senza grande pubblicità».
L’augurio? Poter ritrovare ovunque e altrove il proprio paese natale, quello dove la vita nasce e rinasce. E guardando alla madre che magari non c’è più, affiancare alle lacrime per la sua mancanza il sorriso che deriva dal riconoscerne e perpetuarne l’unicità, nell’unica nostalgia che è veramente benefica: quella del futuro.
+ Vincenzo Bertolone
Presidente Conferenza Episcopale Calabra
Arcivescovo della Diocesi Catanzaro-Squillace

Riflessione del Vescovo mons. Bertolone: “La rivoluzione culturale mancata”

di VINCENZO BERTOLONE* – Cultura è presa di possesso della propria personalità, è conquista di coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri doveri».
La chiave di lettura dei fatti e dei misfatti che da qualche settimana a questa parte tormentano la già bistrattata Calabria è nelle parole di Antonio Gramsci. Negli ultimi giorni, con foga crescente, quasi in una gara a creare confusioni nuove per cancellare quelle vecchie, peraltro ogni volta con puntuale colpo di spugna su responsabilità che pure, oggettivamente, sono diffuse e non di singoli o di una parte sola, divisioni e rancori hanno prevalso sulla scena. Risultato? Problemi infilati sotto il tappeto come polvere, risposte poche, soluzioni ancor meno. Nell’ansia di dimostrare la propria estraneità a tali fatti e misfatti, si dimentica che la politica – intesa nel suo significato etimologico di tecnica del governo – non è soltanto gestione di questo o quell’ufficio o potere specifico, ma anche prospettiva e visione, confronto ed elaborazione. Soprattutto, ci si dimentica che essa, nella sua accezione più ampia, non è appannaggio di pochi, ma esercizio (quotidiano) di tutti e di ciascun cittadino.
L’errore più grave è delegare tutto ad uno, o a qualcuno, sperando che questo basti per cambiare. E poi sempre ricominciare, scordando la coerenza rispetto ad un presente che noi stessi abbiamo contribuito a creare, spesso senza coscienza del passato e del suo ripresentarsi. «Nella vita abbiamo solo due o tre occasioni per dimostrarci eroi; ma ad ogni istante abbiamo quella di non essere vili», scrive il romanziere francese René Bazin. Che vuol dire? Che è ben gravosa, più d’ogni altra cosa, la fedeltà quotidiana ai propri impegni. È ammirevole chi in un impeto si getta in acqua per salvare, al costo della propria vita, chi sta per annegare. Ma almeno allo stesso modo va ammirata una madre che sacrifica ogni istante della propria esistenza per un figlio, un cristiano che non si discosta dalla fede pagandone il prezzo, la persona che si consacra alla sua missione ogni giorno senza suonare la tromba davanti a sé. Ecco: tutti costoro testimoniano la grandezza della loro anima e incarnano un eroismo quotidiano, fatto di piccole cose. In un tempo in cui impera ciò che fa notizia sensazionale, sottrarsi a una responsabilità, magari modesta ma continua, è tentazione forte che si trasforma a volte in viltà, perché a venir meno non è l’indignazione o la spinta all’atto eroico, solenne e unico, ma al coraggio del giorno dopo giorno. Vince, insomma, il desiderio di cavarsela col minore sforzo possibile, a tutela di una vita quieta. E senza coscienza, senza comprensione della propria personalità e dei propri doveri, viene meno la cultura, si schiude la via alla subalternità.
E la Calabria, un po’ alla volta, inesorabilmente muore.
*Vincenzo Bertolone, presidente della Conferenza Episcopale Calabrese, è arcivescovo della Diocesi di Catanzaro-Squillace