di FRANCO CIMINO – Ho conosciuto Lillo Manti in anni, ahimè, assai lontani, sebbene io fossi più giovane di lui di circa dieci anni. A Catanzaro lo conobbi. Nella sede della Democrazia Cristiana, al secondo piano di galleria Mancuso. Fu in occasione del passaggio di carica di delegato regionale del Movimento Giovanile tra Mario Tassone, ora non ricordo se divenuto segretario regionale o deputato, e lui, reggino, già al limite d’età per quell’incarico che mantenne, forse per questo, per breve tempo.
A prima vista, ovvero a primo udito, diciamo, non mi piacque. O meglio non mi fece simpatia. E non perché fosse di Reggio Calabria, città allora lontanissima sotto tutti gli aspetti da Catanzaro, contestato capoluogo per giunta, ma per essere lui distante mille miglia da me. E sotto ogni profilo. Abituato all’oratoria effervescente e appassionata di Mario, mi apparve un grave difetto quel che poi si rivelò invece un suo pregio e anche un suo prezioso strumento di lavoro. Immodificabile. Parlava piano, tono monocorde, tempi e concetti ristretti all’essenziale. E spirito di una tale concretezza che lo rendeva quasi incompatibile con qualsiasi pur tenue esprit de finesse. “Andiamo bene”, mi dissi. “ Andiamo bene”, dissi apertamente.
L’impressione che mi fece Lillo era di una personalità politica di quelle che non avrebbero avuto molto da dire e molto da recitare sul proscenio della politica calabrese. Il solito pragmatico “ aggiustatavoli” dietro le quinte, la mia presunzione e arroganza giovanile mi portarono a pensare. E a dire apertamente. E, poi, anche a lui stesso quando prendemmo confidenza e “amichevolezza” ( mi scuso della forzatura lessicale) di rapporti, che però, purtroppo, non si trasformarono mai in amicizia. Ci fu tra di noi, tuttavia, simpatia tanta e rispetto tantissimo nell’eguale reciproca stima. Un fatto identico, doloroso e personale, accaduto nelle nostre vite ci unì in una sorta di solidarietà a distanza, che accrebbe la stima, portando lui, in un momento particolare, a rivolgermi consigli assai premurosi e sinceri. Lo fece, anche qui con quel suo stile che d’impatto all’inizio non mi piacque. Discreto, delicato, pacato, umile, attento, mi disse tanto. E mi disse parole che ora mi ritornano con maggiore affettuosità.
difetto, quindi, fu invece una dote, la sua, quasi esclusiva. Uno strumento del suo lavoro. Una delle molteplici qualità che lo portarono al successo pur non ricevendo, qui però a causa della sua umiltà, le più alte cariche che avrebbe meritato. Lillo era molto intelligente, aveva grande intuito politico. Con esse riusciva ad arrivare prima di tanti altri a comprendere la realtà e a trovare la soluzione al problema, che generosamente offriva.
Egli era dotato di un forte senso tattico che ben impiegava in quella sua visione strategica della politica cui collegava ogni iniziativa. Il suo spiccato senso pratico era frutto di una lucida razionalità, talvolta apparsa spenta di emozioni, fino a coprire, ingannando chi non lo conosceva abbastanza, la sua profonda sensibilità. Una sensibilità anche delicata con cui veicolava il suo spiccato senso dell’amicizia e quel fortissimo sentire la lealtà come elemento imprescindibile del vivere la politica. Una persona buona, dunque, un politico eccellente, un democristiano convinto, appassionato, fedele e coerente. Un uomo pacifico che mal sopportava divisioni e posizioni belligeranti. E anche qui con una visione alta del partito, della Politica e delle istituzioni. La rottura e la divisione all’interno dello stesso corpo sociale erano per Lillo il male più rovinoso. Per la Calabria, innanzitutto. Per il suo partito, la guida che avrebbe dovuto rivelarsi sempre attenta e sicura dei processi di cambiamento della Regione.
Per tutte le forze politiche e tra le forze politiche, necessarie alla costruzione di un tessuto democratico più forte, qui da noi. Rovinose divisioni, per le istituzioni tutte, quelle territorialmente più piccole maggiormente. Per questa sua idea dell’unità possibile e necessaria, Lillo Manti si adoperava, vieppiù e quando gli veniva richiesto, per il superamento delle “ guerre diverse” calabre. Fu quindi l’uomo delle mediazioni. Un ruolo che anche gli piaceva, come e di più gli piaceva riuscirci. Cos’altro dire senza scadere nella retorica da cui rifuggiva? Beh, diciamoglielo adesso, ché quel bel po’ di vanità glielo lo farà apprezzare.
Era un bell’uomo, dall’invecchiamento impossibile. Sempre elegante in quei suoi abiti classici corredati da camicie ben stirate e cravatte griffate. A volte la pochette nel taschino. Quei capelli neri e lisci e lucidi sempre ben “imbrillantinati”. E quei baffetti alla Clark Gable, che aggiungevano fascino alla bellezza autentica. Ciao Lillo. (fci)