L’ESEMPIO DI MONGIANA: UN ‘SACCHEGGIO’
POST UNITARIO CHE AVVIÒ IL DIVARIO A SUD

di PAOLO BOLANO – Mongiana è una località situata nell’appennino calabrese. Qui prima dell’Unità d’Italia circa duemila tra operai, tecnici, ingegneri e dirigenti lavoravano a un grande polo siderurgico che produceva armi. Era il fiore all’occhiello di tutto il Regno. Dopo l’Unità le ferriere di Mongiana sono state trasferite a Terni senza alcuna giustificazione.

Oppure, diciamo cosi, invece di rimodernare la fabbrica, renderla competitiva, si è deciso di chiuderla e trasferirla altrove con grande danno per i calabresi. La domanda a questo punto sorge spontanea: così la nuova Italia cominciava a recuperare i ritardi Nord-Sud? Dei duemila operai rimasti a spasso una parte emigrò e l’altra andò a ingrossare le file dei briganti in montagna. Come vedete la politica, dopo l’Unità, non fece nulla per questa prima operazione di rapina perpetrata ai danni della Calabria.

Una politica che enfatizzava la “questione meridionale” per avere risorse, non per lo sviluppo, ma per alimentare le clientele. Ne sappiamo qualcosa anche oggi. La chiusura del centro siderurgico di Mongiana contribuì a creare insanabili difficoltà politiche al nascente Stato Unitario e portò dritto dritto alla terribile “guerra sociale” o mancata rivoluzione agraria etichettata col nome di “brigantaggio meridionale”, che insanguinò per anni le nostre contrade meridionali e calabresi.

Ci fu sgomento a Mongiana e dintorni, incredulità, risentimento, proteste, saccheggi, vandalismi ai danni della ferriera. I lavoratori e le loro famiglie si ribellarono al nuovo potere politico che portava via il polo siderurgico che dava pane a migliaia di famiglie nel cuore dell’appennino calabrese. Era la prima dimostrazione lampante che la destra e la sinistra che governavano in quel periodo non erano in grado di affrontare e risolvere la “questione meridionale”, che come esigenza primaria aveva la questione sociale. Fu questa la molla che scatenò appunto l’esplosione del vastissimo fenomeno noto come “brigantaggio meridionale”, che per anni ha impegnato mezzo esercito per combatterlo.

La “legge Pica” ha permesso lo “stato d’assedio” in molti paesi del sud , dove le rappresaglie nei villaggi furono violente e sanguinose. Ci furono fucilazioni di massa di contadini poveri considerati fiancheggiatori dei briganti. Era povera gente che protestava per avere un tozzo di pane, un pezzo di terra da coltivare, l’unica speranza per ricavare un piatto caldo per se e per la famiglia. Era un tempo difficile, la borghesia agraria purtroppo acquisiva i modelli feudali, comprava terre dall’aristocrazia, quelle terre che lor signori avevano arraffato dal demanio pubblico. Si stava riorganizzando il vecchio teatrino che per secoli aveva inchiodato i contadini alla miseria più assoluta.

Nessuno voleva capire che il mondo stava cambiando e bisognava girare pagina per scrivere una nuova storia che contemplasse al posto di comando anche i contadini poveri. Per questo comunque si intuisce che servirà ancora un secolo di lotte dure per fare capire alla nuova classe dirigente che gli interessi della Calabria e del mezzogiorno venivano prima dei propri interessi. Certamente anche Mongiana ci fa capire che l’Unità d’Italia non ha risolto il problema meridionale ma congiunse due diverse formazioni economiche e sociali caratterizzate da un differente grado di sviluppo.

I ritardi non furono superati, ancora oggi sono li che aspettano soluzioni, mentre l’intreccio di allora tra liberismo e autoritarismo aggravò il problema mettendo in campo lo stato d’assedio e le leggi eccezionali non per combattere i delinquenti comuni, il mezzogiorno era pieno, ma per colpire le masse contadine povere che non ce la faceva più a pagare tasse e a essere sfruttate. Come si fa a considerare questi poveri contadini nullatenenti “briganti”? Una vergogna che la storia deve cancellare! Al Sud serviva più attenzione, non più tasse, leva obbligatoria che costringeva i contadini meridionali a lasciare le terre e combattere accanto all’odiato esercito piemontese. Il trasferimento dell’industria siderurgica di Mongiana era la goccia che aveva fatto traboccare il vaso. Bisognava analizzare meglio, studiare a fondo i problemi meridionali e calabresi in quel lontano 1880 quando gran parte del patrimonio industriale del tempo era stato spazzato via mettendo sulla strada migliaia di famiglie povere.

C’è da aggiungere la voracità fiscale dei nuovi governanti, gli interessi commerciali delle nuove potenze industriali come l’Inghilterra che facevano da contorno. Il capitalismo liberale ha usato ragioni di mercato e libero scambio per nascondere le politiche di sfruttamento e di sottrazione di risorse al sud. È semplicistico indicare il mezzogiorno come “palla al piede” senza fare un’analisi accurata del territorio, senza capire che chi ha governato per secoli lo ha fatto solo per fini personali. Sia chiaro a tutti, anche ai polentoni responsabili dei ritardi del sud rispetto al Nord.

Lor signori hanno affossato una grande industria siderurgica in Calabria che dava lavoro a moltissimi calabresi. Mongiana è stata sacrificata sull’altare dell’Unità. L’annessione forzata al nord poteva essere una bella cosa, anzi lo è stato. Ma il sud in quel momento non poteva sopportare tutte quelle tasse. Dopo l’Unità si erano aggiunte altre 24 balzelli d’importazione piemontese compresa la tassa sul macinato. I poveri contadini non ce la facevano più a pagare. Un sud afflitto dunque non poteva reggere. Dal 50 per cento di tasse si era arrivati all’87 per cento. Una vera follia. Meglio “briganti” che morti di fame.

È stata una tragedia. Anche agli opifici mancarono i capitali e per la metalmeccanica fu un colpo mortale. Più tasse e poco commesse dal nascente Stato Unitario sono stati l’anticamera della chiusura degli stabilimenti siderurgici di Mongiana. Una Calabria che ha pagato un alto prezzo per entrare nella grande famiglia italiana. Mongiana è un esempio da non dimenticare. Nessuno ha mai parlato di questo dramma calabrese. Nessun ricercatore, giornalista, professore ecc. Si comincia a parlare solo dopo cento anni circa, nel 1973, quando parte l’indagine sulle ferriere di Mongiana.

L’obiettivo della ricerca era quello di scoprire le prime fasi dell’industrializzazione in Calabria. Disciplina nata in Inghilterra e nota come archeologia industriale. Studiare, capire, catalogare il patrimonio di fabbriche e attrezzature siderurgiche sparse sul territorio calabrese. Certo, il profitto ha cancellato in questi ultimi 250 anni il passato industriale calabrese senza riflettere e senza assegnare le colpe che non sono quelle di una generica Calabria fannullona e incapace di produrre e spendere i denari per lo sviluppo. Le ferriere di Mongiana sono una esaltante impresa industriale meridionale. Si affianca alle seterie di San Leucio, alla manifattura d’armi di Torre Annunziata, ai cantieri navali di Castellammare di Stabia, alle Officine Ferroviarie di Pietrarsa e altre realtà meno note. Possiamo qui dire senza essere contraddetti che il passaggio delle ferriere di Mongiana dall’Amministrazione borbonica a quella sabauda è stata una vera tragedia. Mongiana si spopola di tutte le molteplici attività legate alla ferriera sotto l’indifferenza totale della corona. 

Bisogna ricordare che la fatica degli operai era dura e i fattori ambientali pesavano su tecnici e maestranze che dalla ferriera traevano lavoro e sostentamento. Le categorie più numerose e meno qualificate protestavano ripetutamente per i bassi salari e le dure condizioni di lavoro. Comunque nel cuore dell’appennino i calabresi in tempi difficili facevano funzionare la più grande industria siderurgica del Regno legata alle materie prime locali. Eppure non si capisce perché il tempo poi e la mano dell’uomo hanno cancellato questa importante realtà. Certo questa ferriera ha procurato enormi danni ambientali, i boschi sparivano dentro gli altiforni.

Quando l’area boschiva mancava l’altoforno si spostava fino a mangiarsi tutta la foresta vicina. Comunque, i liberisti del tempo non erano contenti perché sostenevano che la ferriera non era efficiente al massimo, che i costi erano altissimi e i finanziamenti dello Stato si bruciavano con pochissimi risultati. In 15 anni di Unità il capitolo siderurgico calabrese ebbe fine, non reggeva al mercato era la motivazione. Invece, secondo me, la responsabilità era di una gestione incapace. La gente che prestava la propria opera coinvolta in un sistema politico chiuso, aveva comunque espresso, ottime capacità sul terreno del lavoro industriale. Altro che “palla al piede”. L’incapacità del governo della Corona non si poteva riversare sugli operai. 

Purtroppo si è giunti alla fine. Il 25 Giugno 1874 lo Stato Sabaudo, a Catanzaro, per mezzo dell’Amministrazione del demanio e delle tasse vendette lo stabilimento di Mongiana all’asta. 50 alloggi civici, una caserma, diversi altiforni e forni di seconda fusione, segherie, boschi, terreni e miniere nel territorio tra Mongiana, Ferdinandea e Pazzano di Reggio Calabria. All’asta acquistò un ex garibaldino, Achille Fazzari, già deputato al parlamento Regio d’Italia. Compra a un milione di lire.

Si aprì una speranza tra la popolazione del luogo che presto svanì. Il garibaldino non riuscì più ad avere commesse dalla Stato, il mezzogiorno era ormai segnato, abbandonato al suo destino, restava soltanto  la via dell’emigrazione, unica speranza per cercare lavoro. Così tristemente finì la grande storia dell’industria siderurgica in Calabria. Le considerazioni fateli voi. Bisogna riprendere il cammino lasciato allora. Ancora oggi la  “questione meridionale” è li davanti agli occhi di tutti, la classe politica è in testa alle responsabilità. Sappiamo tutti che in Calabria servono centomila posti di lavoro per fermare l’emorragia dell’emigrazione iniziata da allora e mai fermata da nessun governo.

Anzi, nel dopoguerra lo stesso De Gasperi capo del governo invitava i calabresi e i meridionali a studiare le lingue ed emigrare. Nessuno fino a oggi è stato in grado di programmare il domani. Mettiamoci tutti assieme noi calabresi, approfittiamo che sul palco manca la politica , saliamo noi e recitiamo a memoria quello che da secoli recitano i nostri avi: pane e lavoro per tutti a casa nostra. Non vogliamo più emigrare per arricchire altri popoli e fare morire i nostri borghi.

Questa volta siamo decisi. Ce la faremo tutti assieme. Serve una nuova classe dirigente però che guardi al nuovo Mediterraneo, che assuma la guida di questo obbligato motore di crescita che analizzi bene il passato con tutti gli errori fatti e pensi seriamente a rilanciare il domani della Calabria che con un occhio deve guardare all’Europa e l’altro al mediterraneo e l’Africa, il nostro futuro. (pab)