L’ATTACCO AL LAVORO IN REMOTO AL SUD
FINANCIAL TIMES, REPLICA LA CARFAGNA

di SANTO STRATI – La parola magica è Southworking è nata durante la prima fase della pandemia: molti lavoratori meridionali, in piena crisi coronavirus, hanno fatto ritorno al Sud e per molti di loro si sono aperte opportunità di proseguire il lavoro in remoto, da casa, attraverso il cosiddetto smart working, detto burocraticamente lavoro agile. Finita la prima fase della pandemia, in molti hanno rinunciato a tornare al Nord, dando la propria disponibilità a continuare a lavorare da casa propria e questo atteggiamento che è stato emulato in modo considerevole è diventato un vero e proprio fenomeno che, appunto, è stato battezzato southworking, (lavoro dal Sud). Mara Carfagna Dalla Bocconi viene una solenne bocciatura del fenomeno, salvo che il ricorso al southworking non sia di breve durata, ma la ministra per il Sud Mara Carfagna, a questo proposito, in un’intervista al prestigioso quotidiano britannico Financial Times ha spiegato che, invece, potrebbe diventare una solida e ampia opportunità se le aziende confermassero la propensione a utilizzare il lavoro da remoto. Certo per ridurre il divario il Sud dovrebbe intervenire sulle infrastrutture digitali che sono scarse e inadeguate. Per questo – ha annunciato al FT – il Sud assorbirà il 48% degli investimenti per destinarlo alla banda ultra larga, è uno dei punti essenziali del Recovery Plan.  Commentando su FB l’intervista, la ministra Carfagna ha detto: «Il Financial Times mi ha interpellato in un’inchiesta sul southworking italiano, con dati-shock sull’esodo dal Meridione nell’ultimo decennio: più di un milione di emigrati dalle regioni del Sud verso il Nord. Tornare al Sud e lavorare da remoto è un’opportunità che stanno scoprendo in tanti e va incoraggiata».

Ci sono– è vero – pro e contro sul lavoro agile e sulle prestazioni per via telematica di dipendenti “meridionali” rimasti al Sud: per molte aziende del Nord il southworking ha significato una migliore produttività dei propri dipendenti collegati in remoto e l’abbattimento di alcuni costi (riduzione degli ambienti di lavoro, minori costi di energia, etc), per altre si sono create perplessità sull’effettiva convenienza del lavoro “agile”, più per una sorta di pregiudiziale infondata che per reali valutazioni sull’efficienza dei dipendenti “connessi” e non presenti in azienda: in genere si lavora di più stando a casa, senza rispettare orari rigidi, quello che importa è il prodotto finale che l’azienda si aspetta. E, naturalmente, si applica solo per determinate categorie di lavoratori: il settore manifatturiero, per esempio, può delegare e assegnare in remoto le mansioni di progettazione e amministrazione, ma la manodopera in fabbrica non è, di fatto, sostituibile.

Come in tutte le cose, c’è ovviamente, anche chi ha costruito opinabili teorie di efficienza ridotta e danni alle imprese. È una docente di Management e Tecnologia all’Università Bocconi di Milano, Rossella Cappetta, che si è lanciata a stroncare il southworking: «Danneggia imprese, lavoratori e società: il Sud non dev’essere il dormitorio del Nord», ha detto con intuibile animosità verso i meridionali. In un’intervista al giornale web Business Insider Italia, la Cappetta ha spiegato perché è, al contrario di quanto sostiene la Svimez che plaude al fenomeno, è contraria al lavoro in remoto (stando a casa propria, al Sud): «Le imprese moderne – ha detto – sono nate per affrontare situazioni di grande complessità. Questo vuol dire che danno il massimo e generano valore solo in questa condizione. Che non si verifica se i suoi dipendenti operano da remoto. Solo un pezzo del coordinamento può essere effettuato a distanza – ha specificato -. Inoltre non è pensabile abbandonare del tutto l’ufficio. L’ideale sarebbe creare un equilibrio che consenta di stare a casa due giorni e in azienda i restanti tre». Sarebbe un mix ideale se non ci fossero distanze incolmabili tra i lavoratori che scelgono di restare al Sud e la localizzazione delle aziende (in genere tutte al Centro-Nord).

Secondo la docente, «Questa forma di flessibilità può essere sostenibile adesso, in piena pandemia, ma non è ipotizzabile nel futuro. Non è possibile amministrare a distanza il cento per cento del lavoro». Vale, ovviamente, per i dipendenti ma non per i professionisti: «I lavoratori autonomi potrebbero trovare nel southworking un bilanciamento fra vita professionale e vita privata. Già molti grandi studi professionali hanno consulenti esterni che vivono dove preferiscono».

Nel caso delle aziende, la situazione – secondo la prof.ssa Cappetta – è diversa: «Le imprese sono comunità sociali, svolgono funzioni educative proprio come fa la scuola , ma questi meccanismi funzionano solo in presenza. Il southworking li distruggerebbe». Secondo la docente della Bocconi, «Le aziende risparmierebbero i costi di affitto, ma quelli necessari per organizzare il lavoro a distanza sarebbero molto maggiori. Inoltre verrebbe a mancare la formazione continua delle persone. Tutto questo si tradurrebbe in una flessione della produttività e quindi del fatturato. Ecco perché il southworking non può che essere una logica di breve periodo». E i lavoratori? «Si sentirebbero soli, isolati dai colleghi, avulsi dal contesto. Potrebbero perdere occasioni di avanzamento di carriera e perfino soldi».

Qualcuno obietta che i lavoratori del southworking scelgono piccoli borghi, località balneari, cittadine del Sud dove la qualità della vita è decisamente superiore a quella del Nord, ma è in fondo questa la motivazione che ha spinto a rimanere al Sud. Cosa importa da dove si lavora, visto che le tecnologie permettono questa agevole alternativa, se il risultato finale è ugualmente e qualitativamente ottimo? Se ci fossero opportunità d’impiego al Sud, in Calabria – per esser chiari – molti nostri giovani tornati perché costretti dalla pandemia avrebbero anche cambiato azienda, felici di produrre efficacemente per il territorio che li ha visti nascere e crescere. In attesa che il sogno si realizzi, ben venga, dunque, il southworking con grande soddisfazione dei lavoratori che respirano aria di casa e sono tornati a vivere in famiglia, tra amici e conoscenti, aspettando di poter costruire un futuro nella propria terra che già appare meno improbabile. (s)