SPOPOLAMENTO E CALO DEMOGRAFICO:
LA CALABRIA NON È UN PAESE PER GIOVANI

di DOMENICO MAZZA e GIANLUCA SUCCURRO – Da un’attenta analisi degli indici demografici risultanti dall’ultimo censimento della popolazione, il dato calabrese relativo il decremento di abitanti sta assumendo caratteristiche inquietanti. Alcuni ambiti regionali arrancano più di altri. L’Arco Jonico, fra tutti, ha raggiunto numeri, estremamente, preoccupanti.

Tuttavia le altre aree non vivono certo tempi migliori. Solo per citare alcuni dati e riferendoci ai Comuni più popolati, Reggio Calabria perde circa 10mila abitanti negli ultimi 11 anni. Il Capoluogo di Regione scende sotto la soglia dei 90mila, assestandosi sugli 83mila ab. Cosenza supera appena i 63mila abitanti. Scende Lamezia sotto i 70mila, così come Crotone sotto i 60mila. Drammatico anche il caso di Corigliano-Rossano, che negli ultimi 5 anni perde quasi 5mila abitanti. Dai 78mila ai tempi del referendum pro fusione agli attuali 73mila.

Tutto ciò deve indurci a riflettere ed a capire come poter intervenire per fronteggiare una lenta ed inesorabile desertificazione demografica che non accenna minimamente a diminuire. Anzi, dilaga vertiginosamente giorno dopo giorno.

Certamente uno dei motivi, probabilmente quello principale, scatenante l’azione migratoria è la mancanza di orizzonti occupazionali. La nostra Regione, ad oggi, annaspa nell’offrire una prospettiva ai propri abitanti affinché restino sul territorio. A fianco una domanda di lavoro, costante ed impellente, da parte della popolazione, l’offerta si presenta scarsa ed economicamente poco gratificante.

Si aggiunga la cronica assenza di servizi, il dramma dell’assistenza sanitaria e la difficoltà nei processi di mobilità ed il quadro è completo. Drammaticamante completo. Bisogna correre ai ripari e farlo alla svelta. È necessario discernere le problematiche aggredendole seguendo, pedissequamente, una linea di priorità.

È impensabile continuare a sperare nel miraggio del posto fisso senza pianificare le condizioni affinché le imprese siano incentivate ad investire in Calabria.

Così come non si può immaginare di saziare la fame occupazionale con una gestione arcaica del settore primario. Il prodotto della terra va trasformato in loco sottoponendolo a processi di lavorazione industriale. Non si può continuare ad inviarlo verso altre destinazioni dove si procede alla sua trasformazione.

Tantomeno si può sperare che il ramo turistico possa soddisfare le esigenze di tutti se questo si riduce, nella maggior parte dei casi, ad appena un mese di lavoro su dodici.

Ci piace ricordare il caso Crotone che nel ventennio ’60-’70 risultava essere la realtà più produttiva della Regione, mentre oggi è identificata come una fra le aree più depresse d’Italia. Eppure non ci risulta che in quegli anni la Città pitagorica fosse servita da autostrade o da binari ad alta velocità. Ciò che differiva era un’iniezione di fiducia generata da oltre 5mila salari (più indotto legato alle industrie), che consentivano un circolo economico come poche altre realtà nel Mezzogiorno riuscivano a fare.

Con questo non vogliano dire che in Calabria andrebbe riaperta una stagione d’industria pesante. E parimenti che le pianificazioni infrastrutturali, vitali per acquisire un embrione d’appetibilita sui mercati, debbano essere accantonate.

Tuttavia le ultime richiedono tempo.

Un tempo che la Calabria e lo Jonio soprattutto non hanno. Pertanto, immaginare processi industriali, ecocompatibili ed ecosostenibili, dovrà essere un imperativo se vogliamo realmente cambiare il paradigma di questa Regione.

E, giocoforza, tali processi potranno e dovranno essere pensati in quelle aree naturalmente predisposte allo scopo. E quali realtà meglio del Crotonese e della Sibaritide potrebbero prestarsi alla causa? Riteniamo nessuna, atteso che i Capoluoghi storici da sempre hanno impostato le loro economie sulla gestione pubblica.

È necessario ripartire da quei contesti identificati come aree ZES (zone economiche speciali) lungo l’Arco Jonico. Il riferimento va a Corigliano-Rossano e Crotone. Le uniche aree ZES che coniugano nel territorio il settore agricolo con quello delle aree industriali dismesse.

Oltretutto territori ad altissima vocazione turistica. Il tutto costellato da due infrastrutture portuali ed uno scalo aeroportuale connessi all’indotto agricolo. Ed ancora, al potenziale della rigenerazione industriale e con un futuro che potrebbe elevare i numeri del turismo a livelli molto interessanti.

Ed allora si dovrà procedere su una teoria simile a quella dei vasi comunicanti. Da un lato bisognerà avviare una politica di riadeguamento alla normalità infrastrutturale, parametrata su canoni europei. Dall’altro, stabilendo i presupposti per un rilancio delle filiere agricole-industriali e del marketing turistico, si potrebbe costruire un argine che agisca da deterrente all’esodo incontrollato, ed allo stato attuale ampiamente giustificato, delle persone.

Sarà necessario creare le condizioni affinché i grossi gruppi nazionali ed europei valutino il territorio jonico come appetibile per incrementare i loro interessi in chiave globale.

E non parliamo di Arco Jonico per spirito di partigianeria, ma perché è davvero l’unica area che può prestarsi ad una rinnovata funzione imprenditoriale.

Operazioni di tale portata, chiaramente, richiederebbero la fattuale collaborazione e l’implementazione di forza lavoro attingendo alle maestranze locali e, in generale, di tutta la Regione.

Un po’ come avvenne, sul finire degli anni ’50 e durante tutto il decennio successivo, a Crotone. Al tempo, da tutta la Calabria (e non solo) le persone si riversarono sulla Città e sui Comuni contermini perché gli insediamenti industriali permisero una crescita esponenziale dell’offerta di lavoro.

Una prospettiva lavorativa è una prospettiva di vita!

E la politica deve favorire processi di tale natura. Non può continuare a dimostrarsi refrattaria partorendo idee non propositive e, soprattutto, non generanti i presupposti per arginane i flussi migratori dei cervelli migliori.

Se si creeranno le condizioni per instillare nelle popolazioni un rinnovato tasso di interesse a restare ed investire nella terra natia, l’esodo centrifugo si fermerà e la piaga dello spopolamento pian piano si rimarginerà. Contrariamente saremo una terra destinata all’oblio che non troverà spazio neppure sui libri di storia. (dm/gs)