di MARIACHIARA MONACO – La Giustizia Riparativa come seconda vita, di questo sì è ampiamente discusso presso il Museo del Presente, grazie alla partecipazione di molteplici professionisti del settore giuridico e sociale, come l’avv. Giovanna Russo (Garante dei detenuti per la Città di Reggio Calabria), la dott.ssa Maria Cristina Ciambrone (Presidente A.I.Me.Pe), la dott.ssa Simona Scidone (Capo Area Misure e Sanzioni di comunità ULEPE Taranto), la dott.ssa Francesca Aloi (Responsabile settore giustizia riparativa UDEPE Reggio Calabria), e l’ospite d’onore, Agnese Moro (Sociopsicologa, figlia di Aldo Moro, e Testimone di Giustizia Riparativa).
Si tratta di un evento organizzato e voluto fortemente dall’Associazione Nazionale Mediatori Penali, per mettere in evidenza l’importanza immane della risoluzione del conflitto, in qualsiasi ambiente, da quello scolastico fino a quello carcerario.
Lo Stato lavora insieme ad altri due soggetti, ovvero la vittima e l’autore del reato, i quali attraverso il paradigma riparativo, se entrambi vi acconsentono liberamente, hanno la possibilità di partecipare attivamente alla risoluzione del reato.
Qui entra in gioco la figura del mediatore, che attraverso dei percorsi dà la possibilità alle vittime, ma anche ai carnefici, di sanare quelle crepe che rimangono intatte nella vita di ogni uomo, senza rimedio. La giustizia italiana attraverso questa misura ha fatto intendere di essere pronta ad affrontare il dolore delle persone, ma non solo, poiché ha dato spazio alle parole e al volto dell’altro.
«Dal 2005 fino alle ultime linee guida del Ministero, abbiamo sempre cercato di migliorare i programmi, su Taranto abbiamo realizzato diversi progetti di Giustizia Riparativa, di cui uno intitolato “Caino e Abele”, l’obiettivo è quello di fornire spunti di riflessione e creare percorsi che portino alla responsabilizzazione. C’è una fase iniziale fondata sull’ascolto individuale, nella quale i mediatori hanno verificato la fattibilità del percorso riparativo, e poi successivamente i soggetti hanno raccontato di sé, raggiungendo livelli di ascolto attivo importanti», ha dichiarato la dott.ssa Scidone.
Luci puntate poi sull’esperienza a Reggio Calabria: «Noi presso l’Istituto di Pena abbiamo creato, attraverso il progetto Cogito ergo sum, dei laboratori artistici all’interno del carcere, coinvolgendo anche le famiglie. L’adesione è stata considerevole, circa trenta detenuti hanno partecipato attivamente. Compito di questa visione è anche curare il rapporto fra il detenuto ed i familiari, così da poter dare vita ad una nuova normalità una volta scontata la pena».
Al centro c’è il reinserimento sociale dei condannati, e soprattutto il superamento dell’idea di reato – castigo, che lascia alle spalle la visione macabra dei sommersi e dei salvati, mettendo tutti dalla stessa parte, quella della giustizia gentile che non vuole lasciare macerie.
Le parole chiave che s’intrecciano sul filo di questa tematica sono diverse, ma forse quella più luminosa è proprio “empatia”, cioè l’immedesimazione nell’altro, senza alcun tipo di timore o pregiudizio. Si tratta di un equilibrio, spesso irraggiungibile, ma allo stesso tempo più vicino di quanto lo si crede.
«Tutto ciò è un contenitore di emozioni, che dipana quel caos che si crea, tra l’autore del reato e la vittima. Abbiamo avuto la testimonianza di un detenuto, che una volta scontati 18 anni di carcere, ha deciso di seguire due volte il corso di formazione insieme a noi, e alla fine del lavoro gli abbiamo consegnato il tesserino da mediatore. Oggi è una persona nuova, lavora e crede fortemente nella giustizia riparativa », confessa la dott.ssa Ciambrone.
Agnese Moro, figlia di Aldo, ucciso il 9 maggio 1978 dalle Brigate Rosse, disegna poi con fermezza i contorni del suo significato di giustizia, che si lega al termine speranza, e che a sua volta è legato al termine ritorno.
Un insieme di sentimenti albergano, in una donna che si è vista strappare dal terrore rosso, il faro di suo padre.
«Di lui mi rimangono l’assenza, il sangue, le immagini. Poi la borsa con le sue cose che ci è stata restituita, i ricordi, le tesi di laurea ancora intrise di agguato. Per molti anni ho provato odio, rancore, rabbia. Ma è normale, il dolore non si può cancellare, si può però disarmare per far sì che non abbia più la forza distruttiva. È un percorso che cambia la natura del dolore, non più scoria radioattiva che toglie vitalità. Dopo la disumanizzazione, si ritorna ad essere delle persone, con delle ferite che a volte si riaprono ».
Una scintilla che si è accesa grazie a Padre Bertagna, che da mediatore, ha portato ad un confronto fra la figlia dell’onorevole Moro e Franco Bonisoli, uno degli autori principali dell’agguato di via Fani.
«Ci si può chiedere: Che cosa può volere una persona che ha già avuto tutto dalla giustizia penale? Che ha visto i mandanti dell’omicidio di suo padre scontare la propria pena?».
Per Agnese Moro, le misure restrittive non sono servite a guarire le ferite provocate dalla perdita di suo padre, le quali si erano cristallizzate nel tempo rischiando di ripercuotersi sui propri cari, attraverso l’incomunicabilità.
Prima dell’incontro con padre Bertagna, afferma: «Nessuno si era interessato al mio dolore, erano passati 31 anni dalla morte di mio padre e vivevo una dittatura del tempo. Grazie a questo spazio di ascolto, sono riuscita a liberare anche i ricordi più belli, quelle fotografie non più sporche di sangue».
Perché il male non avrà mai l’ultima parola. (mm)