A Reggio col Centro Agape si parla di giustizia riparativa

Venerdì 10 febbraio, a Reggio, alle 16.30, nella Sala della Formazione degli Avvocati del Palazzo della Corte di Appello, si terrà l’incontro sulla giustizia riparativa, promosso dal Centro Comunitario Agape e dal Gruppo Marianella Garcia.

Coordina Lucia Lipari, degli Avvocati Marianella Garcia.

Dopo i saluti del Presidente dell’ordine degli avvocati, Rosario Infantino e del Tribunale di Sorveglianza Daniela Tortorella, del sindaco Paolo Brunetti, della Garante dei diritti dei detenuti Giovanna Russo e della delegata del centro regionale della giustizia minorile Cinzia Santo, è prevista l’introduzione verso una nuova concezione della pena di Mario Nasone, Presidente Centro Comunitario Agape.

A seguire, le relazioni di Massimo Canale e Carlo Morace Ocf, rete avvocati Marianella Garcia, su nuove norme e prospettive applicative; Stefano Musolino, segretario nazionale di Magistratura Democratica, sul ruolo della magistratura; Rosa Maria Morbegno, Direttore Ussm, su la giustizia riparativa nel settore minorile; Antonio Galati, Direttore Uepe, su il ruolo del Uepe ufficio esecuzione penale esterna; Giuseppe Marino, coordinatore regionale CM, su il ruolo delle Camere Minorili; Luciano Squillaci, portavoce regionale Forum Terzo settore su il ruolo del volontariato e della cooperazione sociale

Invece del carcere è possibile fare un’esperienza di grande importanza. Per comprendere, ma ancora di più per comprendersi. Per elaborare l’errore e, se possibile, per non ripeterlo e cambiare dentro. Per capire, a contatto con le vite degli altri, specialmente quelle più difficili, che un’altra vita oltre l’illegalità e la devianza è possibile. Tecnicamente si chiama giustizia riparativa ed è un’occasione offerta ai soggetti autori di reato di riparare il danno che hanno recato alla comunità e che si vogliono riabilitare aiutando gli altri e svolgendo lavori di pubblica utilità.

Una opportunità che la riforma Cartabia ha ulteriormente ampliato ma che nel nostro territorio da tempo la magistratura di Sorveglianza prevede per i soggetti che chiedono una misura alternativa alla detenzione. In particolare, con l’affidamento in prova al servizio sociale, un beneficio che, quando concesso, richiede, oltre all’obbligo lavorativo e familiare, anche una qualche forma d’impegno verso le vittime del reato o comunque a favore della collettività. Un servizio di volontariato che mette gli affidati a contatto con i più deboli ed i sofferenti (anziani, disabili, poveri) e stimola forme di riflessione, non solo sull’errore commesso ma anche nella percezione di sé stessi per mettersi in discussione e recuperare i valori autentici della vita. Se colui che ha sbagliato entra in contatto con le persone più deboli non imparerà qualcosa solo da loro, ma anche dall’esempio di chi li aiuta come volontario.

Capirà che per cambiare e non solo espiare una pena, esistono altri modelli di riferimento, non solo quelli che un tempo si chiamavano “cattive compagnie”. Se funziona sarà un elemento -assieme ad altri – per la magistratura e per il servizio sociale di verificare la reale volontà di ravvedimento dell’autore del reato e quindi decidere per l’estinzione della pena. La via della giustizia riparativa richiede un maggiore investimento in un campo nuovo in cui non sempre i vari attori istituzionali si sentono preparati. Per funzionare ci deve essere un’adesione convinta dell’autore del reato e la sua motivazione al cambiamento.

Per questo è importante prevedere una formazione specifica ed integrata di tutti gli attori, magistratura, avvocatura, operatori penitenziari e di tutti coloro che interagiscono con questa nuova modalità d’esecuzione penale come il volontariato ed il terzo settore.

Il forum su questo tema organizzato dal gruppo degli avvocati volontari della Marianella Garcia e dal Centro Comunitario Agape con il patrocinio del Coa di Reggio Calabria vuole avviare un confronto su queste tematiche e raccogliere indicazioni su come cogliere al meglio le nuove opportunità offerte dalla riforma, attivando sinergie e collaborazioni tra le varie componenti interessate. (rrc)

A Rende si parla di Giustizia Riparativa con Agnese Moro

di MARIACHIARA MONACOLa Giustizia Riparativa come seconda vita, di questo sì è ampiamente discusso presso il Museo del Presente, grazie alla partecipazione di molteplici professionisti del settore giuridico e sociale, come l’avv. Giovanna Russo (Garante dei detenuti per la Città di Reggio Calabria), la dott.ssa Maria Cristina Ciambrone (Presidente A.I.Me.Pe), la dott.ssa Simona Scidone (Capo Area Misure e Sanzioni di comunità ULEPE Taranto), la dott.ssa Francesca Aloi (Responsabile settore giustizia riparativa UDEPE Reggio Calabria), e l’ospite d’onore, Agnese Moro (Sociopsicologa, figlia di Aldo Moro, e Testimone di Giustizia Riparativa).

Si tratta di un evento organizzato e voluto fortemente dall’Associazione Nazionale Mediatori Penali, per mettere in evidenza l’importanza immane della risoluzione del conflitto, in qualsiasi ambiente, da quello scolastico fino a quello carcerario.

Lo Stato lavora insieme ad altri due soggetti, ovvero la vittima e l’autore del reato, i quali attraverso il paradigma riparativo, se entrambi vi acconsentono liberamente, hanno la possibilità di partecipare attivamente alla risoluzione del reato.

Qui entra in gioco la figura del mediatore, che attraverso dei percorsi dà la possibilità alle vittime, ma anche ai carnefici, di sanare quelle crepe che rimangono intatte nella vita di ogni uomo, senza rimedio. La giustizia italiana attraverso questa misura ha fatto intendere di essere pronta ad affrontare il dolore delle persone, ma non solo, poiché ha dato spazio alle parole e al volto dell’altro.

«Dal 2005 fino alle ultime linee guida del Ministero, abbiamo sempre cercato di migliorare i programmi, su Taranto abbiamo realizzato diversi progetti di Giustizia Riparativa, di cui uno intitolato “Caino e Abele”, l’obiettivo è quello di fornire spunti di riflessione e creare percorsi che portino alla responsabilizzazione. C’è una fase iniziale fondata sull’ascolto individuale, nella quale i mediatori hanno verificato la fattibilità del percorso riparativo, e poi successivamente i soggetti hanno raccontato di sé, raggiungendo livelli di ascolto attivo importanti», ha dichiarato la dott.ssa Scidone.

Luci puntate poi sull’esperienza a Reggio Calabria: «Noi presso l’Istituto di Pena abbiamo creato, attraverso il progetto Cogito ergo sum, dei laboratori artistici all’interno del carcere, coinvolgendo anche le famiglie. L’adesione è stata considerevole, circa trenta detenuti hanno partecipato attivamente. Compito di questa visione è anche curare il rapporto fra il detenuto ed i familiari, così da poter dare vita ad una nuova normalità una volta scontata la pena».

Al centro c’è il reinserimento sociale dei condannati, e soprattutto il superamento dell’idea di reato – castigo, che lascia alle spalle la visione macabra dei sommersi e dei salvati, mettendo tutti dalla stessa parte, quella della giustizia gentile che non vuole lasciare macerie.

Le parole chiave che s’intrecciano sul filo di questa tematica sono diverse, ma forse quella più luminosa è proprio “empatia”, cioè l’immedesimazione nell’altro, senza alcun tipo di timore o pregiudizio. Si tratta di un equilibrio, spesso irraggiungibile, ma allo stesso tempo più vicino di quanto lo si crede.

«Tutto ciò è un contenitore di emozioni, che dipana quel caos che si crea, tra l’autore del reato e la vittima. Abbiamo avuto la testimonianza di un detenuto, che una volta scontati 18 anni di carcere, ha deciso di seguire due volte il corso di formazione insieme a noi, e alla fine del lavoro gli abbiamo consegnato il tesserino da mediatore. Oggi è una persona nuova, lavora e crede fortemente nella giustizia riparativa », confessa la dott.ssa Ciambrone.

Agnese Moro, figlia di Aldo, ucciso il 9 maggio 1978 dalle Brigate Rosse, disegna poi con fermezza i contorni del suo significato di giustizia, che si lega al termine speranza, e che a sua volta è legato al termine ritorno.

Un insieme di sentimenti albergano, in una donna che si è vista strappare dal terrore rosso, il faro di suo padre.

«Di lui mi rimangono l’assenza, il sangue, le immagini. Poi la borsa con le sue cose che ci è stata restituita, i ricordi, le tesi di laurea ancora intrise di agguato. Per molti anni ho provato odio, rancore, rabbia. Ma è normale, il dolore non si può cancellare, si può però disarmare per far sì che non abbia più la forza distruttiva. È un percorso che cambia la natura del dolore, non più scoria radioattiva che toglie vitalità. Dopo la disumanizzazione, si ritorna ad essere delle persone, con delle ferite che a volte si riaprono ».

Una scintilla che si è accesa grazie a Padre Bertagna, che da mediatore, ha portato ad un confronto fra la figlia dell’onorevole Moro e Franco Bonisoli, uno degli autori principali dell’agguato di via Fani.

«Ci si può chiedere: Che cosa può volere una persona che ha già avuto tutto dalla giustizia penale? Che ha visto i mandanti dell’omicidio di suo padre scontare la propria pena?».

Per Agnese Moro, le misure restrittive non sono servite a guarire le ferite provocate dalla perdita di suo padre, le quali si erano cristallizzate nel tempo rischiando di ripercuotersi sui propri cari, attraverso l’incomunicabilità.

Prima dell’incontro con padre Bertagna, afferma: «Nessuno si era interessato al mio dolore, erano passati 31 anni dalla morte di mio padre e vivevo una dittatura del tempo. Grazie a questo spazio di ascolto, sono riuscita a liberare anche i ricordi più belli, quelle fotografie non più sporche di sangue».

Perché il male non avrà mai l’ultima parola. (mm)