MERCATO DEL LAVORO: LA GRANDE CRISI
IN CALABRIA TRA FRAGILITÀ E DIVERGENZE

di FRANCESCO AIELLO Osservare le dinamiche del mercato del lavoro è come comprendere l’evoluzione di un sistema economico. Analizzare la forza lavoro, chi trova occupazione e chi ne resta escluso significa cogliere aspetti cruciali della crescita economica, della coesione sociale e delle aspettative individuali. Nel caso della Calabria, questo esercizio assume un valore ancora più rilevante. Qui, più che altrove, le dinamiche occupazionali hanno riflesso – e in parte alimentato – una stagnazione di lungo periodo. Tra il 1995 e il 2024, mentre l’Italia ha vissuto fasi alterne, con segnali di crescita e di adattamento, i dati della Calabria raccontano una storia di distacco strutturale rispetto al resto del Paese, che non si è colmato nemmeno nelle fasi espansive.

Sebbene molti dei contenuti illustrati in questa nota possano risultare familiari, soprattutto a chi studia o insegna materie economiche, l’osservazione di un periodo esteso consente di cogliere con maggiore chiarezza la direzione delle trasformazioni avvenute. Il confronto trentennale tra Calabria, Mezzogiorno, Centro-Nord e Italia aiuta a leggere in profondità le traiettorie divergenti che hanno caratterizzato il mercato del lavoro regionale.

Tre sono le domande guida: la Calabria ha recuperato o perso terreno? Ha seguito un’evoluzione simile o divergente rispetto al resto del Paese? E soprattutto: cosa ci dicono questi dati sulla possibilità, oggi, di immaginare uno sviluppo diverso?

La dinamica della popolazione in età lavorativa (15-64 anni)

Nel trentennio 1995–2024, la Calabria ha sperimentato una progressiva contrazione della popolazione in età lavorativa (15–64 anni), passando da oltre 1,296 milioni di individui nel 1995 a circa 1,163 milioni nel 2024. Si tratta di una perdita netta di circa 133.000 persone, pari a un calo di oltre il 10%, il più marcato tra tutte le macroaree italiane. Se confrontata con il resto del paese, in Calabria queste dinamiche sono particolarmente severe. Nel 2024 la popolazione in età lavorativa è diminuita del 4,2% in Italia, dell’1,6% nel Centro-Nord, ma dell’8,8% nel Mezzogiorno.

La Calabria, con il suo -10,3%, si conferma come una delle regioni in cui la fragilità demografica si è espressa in modo più netto. Questo dato riflette una duplice fragilità: la prima è legata a dinamiche demografiche (progressivo invecchiamento della popolazione e il calo delle nascite), mentre la seconda è associata ai saldi migratori negativi, in particolare di giovani e adulti in età da lavoro. Questa combinazione ha ridotto non solo il numero di potenziali partecipanti al mercato del lavoro, ma anche la qualità complessiva della forza lavoro, svuotando la regione di competenze e capitale umano.

La popolazione in età lavorativa comprende i residenti attivi, ossia la forza lavoro (occupati e disoccupati in cerca di lavoro), e gli inattivi, cioè coloro che non lavorano né cercano attivamente un impiego. Nel 2024, la forza lavoro calabrese ammonta a 601.755 persone, mentre gli inattivi tra i 15 e i 64 anni sono 561.170.

In altri termini, nel 2024 circa il 48% della popolazione calabrese in età da lavoro risulta inattiva. Si tratta di una quota molto elevata per un contesto regionale inserito in un’economia avanzata, e che riflette una vulnerabilità del modello economico. Il fenomeno, però, non è nuovo né transitorio. Già nel 1995, la forza lavoro regionale era pari a 656.905 unità, mentre gli inattivi erano 639.138. Su una popolazione complessiva in età lavorativa di circa 1.296.000 persone, quasi il 49,3% risultava inattivo. Si tratta di valori medi che caratterizzano l’intero periodo osservato, anche se non sono mancati momenti di parziale riequilibrio: tra il 1997 e il 2002 si registra una crescita della forza lavoro e una riduzione degli inattivi, mentre dal 2003 in poi le due dinamiche si invertono. Il divario si amplia negli anni successivi, fino a culminare con la crisi del 2008, quando il numero degli inattivi supera stabilmente quello della forza lavoro.

La persistenza di questa dinamica nel corso di trent’anni indica un problema radicato e sistemico, che limita la capacità della Calabria di generare crescita economica, alimenta la dipendenza da trasferimenti pubblici e ostacola la sostenibilità delle finanze pubbliche locali e nazionali. La presenza di centinaia di migliaia di persone in età attiva ma completamente disimpegnate dalla partecipazione economica, rappresenta uno dei principali vincoli allo sviluppo della regione. Per comprendere meglio l’effettiva mobilitazione del capitale umano disponibile, è utile analizzare l’andamento della partecipazione al mercato del lavoro, ovvero il grado di attivazione della popolazione in età lavorativa.

Tendenze del tasso di attività (1995–2024)

L’indicatore che meglio sintetizza la “vitalità” del mercato del lavoro è il tasso di attività. Il tasso di attività della Calabria – ovvero il rapporto tra forza lavoro e popolazione in età 15–64 anni – si è mantenuto su livelli cronicamente inferiori rispetto alla media nazionale, senza alcun segnale di convergenza. Nel 1995 il dato regionale era pari al 50,7%, mentre a livello italiano si registrava un tasso attorno al 59%. Ventinove anni dopo, nel 2024, il tasso di attività in Calabra è rimasto pressoché immobile, oscillando intorno al 51,7%, a fronte di un aumento tendenziale del dato nazionale che ha superato il 66% nei migliori anni pre-pandemici, per poi stabilizzarsi su valori comunque più elevati.

L’andamento del tasso calabrese evidenzia una stabilità su livelli bassi, con variazioni cicliche contenute e senza rimbalzi significativi neanche nelle fasi espansive del ciclo economico nazionale. A differenza di altre regioni meridionali che hanno conosciuto una moderata crescita della partecipazione dal 2015 in poi, la Calabria ha mantenuto un andamento piatto, con il tasso di attività che raramente ha superato il 53% (massimo toccato nel 1999). La situazione è progressivamente deteriorata nel decennio successivo alla crisi del 2008, con un calo più marcato della forza lavoro a partire dal 2017: tra il 2010 e il 2024, la forza lavoro è calata in valore assoluto, passando da 620.000 a circa 602.000 persone, anche per effetto della riduzione della popolazione residente in età lavorativa.

È evidente il dualismo dell’economia del Paese: l’area centro-settentrionale registra una dinamica crescente del tasso di attività, che nel 2024 si attesta al 72%, e il Mezzogiorno d’Italia, al contrario, mostra timidi segnali di crescita in ristrette fasi temporali, ma che nel complesso registra un ampliamento significativo del divario con resto del paese: nel 1995 la differenza del tasso di attività tra le due  macro-regioni era di 9.6 punti percentuali, passati addirittura a 15.9 nel 2024).

Il confronto con il Centro-Nord – l’area più dinamica dell’economia italiana – conferma il ritardo strutturale della Calabria: nel 2024 il divario nel tasso di attività è di ben 21 punti percentuali. Va, inoltre, sottolineato che la Calabria presenta un tasso di attività inferiore anche rispetto alla media delle altre regioni meridionali.

Questi dati rivelano una debolezza strutturale profonda: in Calabria, una quota consistenze della popolazione in età lavorativa si è progressivamente allontanata dal mercato del lavoro. Si tratta di un fenomeno radicato, che riflette disillusione, scarsità di opportunità e disallineamento tra offerta e domanda di competenze.

Nel confronto con il Centro-Nord, la distanza appare ancora più netta: mentre in quell’area la partecipazione al mercato del lavoro è aumentata, in Calabria la struttura si è cristallizzata in un modello a bassa partecipazione. È una situazione che indebolisce gravemente il potenziale di crescita della regione.

Per approfondire l’andamento della partecipazione, conviene ora esaminare come si è composta nel tempo la forza lavoro, osservando il peso relativo di occupati e disoccupati. Iniziando dal dato complessivo sulla forza lavoro, possiamo osservare le principali tendenze di lungo periodo che hanno caratterizzato la partecipazione economica in Calabria.

Andamento della forza lavoro nel periodo 1995-2024

La forza lavoro in Calabria ha seguito un trend decrescente. Nel 1995, le persone in età 15–64 anni attive nel mercato del lavoro erano circa 657 mila, scese a 602 mila nel 2024. Un calo strutturale dell’offerta di lavoro, già delineato nei paragrafi precedenti, conferma l’erosione della base attiva su cui si regge il sistema economico regionale. Dopo una temporanea espansione nei primi anni 2000, la forza lavoro ha intrapreso un percorso di regolare declino, che riflette la debolezza endemica del sistema economico regionale, incapace di generare opportunità tali da trattenere o attrarre risorse umane.

Nel confronto con le altre aree del Paese, la traiettoria calabrese appare ancora più anomala. Dal 1995 al 2024 la forza lavoro in Italia è cresciuta complessivamente di circa il 10%, con una dinamica più marcata nel Centro-Nord (+13%), più contenuta nel Mezzogiorno (+3%) e nettamente negativa in Calabria (–8%).

Anche nei momenti di ripresa a livello nazionale, la regione evidenzia segnali di debolezza. A partire dal 2004, anno in cui la Calabria registra il suo massimo storico nella partecipazione al mercato del lavoro (circa 700 mila attivi), inizia una fase discendente che si intensifica dopo il 2008. Con una dinamica divergente sia rispetto al Nord che alle medie meridionali, in Calabria il trend si inverte strutturalmente. Ne risultano una perdita secca di capitale umano e una riduzione della base attiva su cui fondare la crescita.

Questi dati indicano che la regione non solo crea meno occupazione, ma coinvolge sempre meno persone nei processi economici e produttivi. Si tratta di un segnale allarmante, perché la riduzione della forza lavoro non è solo effetto dell’invecchiamento demografico o delle dinamiche migratorie, ma è soprattutto il sintomo di un disallineamento profondo tra offerta e domanda di lavoro.

Una tendenza così marcata alla riduzione della partecipazione rischia di trasformarsi in un circolo vizioso, alimentando la stagnazione e impoverendo ulteriormente il tessuto socioeconomico regionale. In un contesto in cui l’offerta di lavoro si contrae, è rilevante analizzare i dati degli occupati. È proprio sul fronte dell’occupazione che si colgono con maggiore evidenza gli effetti della debolezza strutturale del mercato del lavoro calabrese.

Dinamiche dell’occupazione

L’andamento del numero di occupati evidenzia la persistenza di una traiettoria instabile, segnata da fragili progressi e brusche battute d’arresto.

Nel 1995 gli occupati in età 15–64 anni erano 558 mila; nel 2024 sono 521 mila: una riduzione netta di 37 mila unità (–6,6%) che, al netto delle fluttuazioni intermedie, fotografa un’economia incapace di generare occupazione in modo duraturo. Il primo decennio mostra un leggero incremento: dopo un avvio debole nella seconda metà degli anni ’90, si registra una fase espansiva tra il 2000 e il 2004, con un picco di circa 604 mila occupati nel 2004, massimo storico della serie. Questa crescita si rivela effimera: già nel 2005 inizia una fase di declino che, con la crisi finanziaria globale del 2008 e le politiche di austerità successive, determina un progressivo peggioramento. Tra il 2008 e il 2014 la Calabria perde circa 73 mila occupati, passando da 573 mila a 500 mila, con un crollo che riflette i limiti persistenti del contesto produttivo. Nel periodo 2015–2019 si osserva un recupero modesto ma costante, con un incremento di circa 25 mila occupati in cinque anni. Questa fase viene però interrotta dalla pandemia, che nel solo 2020 fa perdere oltre 22 mila posti di lavoro. A partire dal 2021 si assiste a un nuovo parziale recupero, che riporta il numero di occupati sopra le 520 mila unità nel 2024, ma senza superare i livelli del 2019. Nel complesso, nel 2024 il mercato del lavoro calabrese si presenta ancora su livelli inferiori a quelli raggiunti vent’anni prima.

Il dato più rilevante, tuttavia, è la tendenza di lungo periodo: in trent’anni la Calabria ha perso occupazione in valore assoluto, in un contesto nazionale e meridionale che, pur tra molte difficoltà, ha visto una lieve crescita. Dal 1995 al 2024, gli occupati sono aumentati del +18% nel Centro-Nord, del +4% nel Mezzogiorno, mentre in Calabria si è registrato un calo del 7% (Figura 6). Si tratta di una doppia divergenza: verso il Nord, che ha beneficiato di una crescita più stabile, e verso lo stesso Mezzogiorno, che nell’ultimo decennio ha mostrato una maggiore capacità di tenuta. La traiettoria calabrese evidenzia una condizione di progressiva marginalizzazione, in cui le crisi hanno effetti duraturi e una ripresa più lenta, debole e selettiva. Per completare il quadro, esaminiamo ora le dinamiche della disoccupazione, che è l’indicatore di sintesi del disallineamento tra offerta e domanda di lavoro.

Trent’anni di disoccupazione in Calabria: livelli e confronti

Nel trentennio 1995–2024, la disoccupazione in Calabria si è attestata su livelli persistentemente elevati, segnando uno dei tratti più distintivi e problematici dell’economia regionale. Calcolato come rapporto tra disoccupati e forza lavoro, il tasso di disoccupazione mostra tre fasi ben distinte.

Nella prima fase (1995–2007), il tasso cresce inizialmente fino a un picco del 22,2% nel 1999, per poi avviare una lenta discesa fino al 10,8% nel 2007 (Figura 7). L’andamento riflette un contesto economico in lenta ripresa, con un leggero miglioramento della domanda di lavoro, ma anche con dinamiche di scoraggiamento che iniziano a ridurre la forza lavoro. Nella seconda fase (2008–2014), in corrispondenza della crisi economico-finanziaria globale e della successiva recessione europea, la disoccupazione in Calabria aumenta in modo considerevole, passando dal 12,1% nel 2008 al 24,2% nel 2014, valore massimo della serie. Nel 2014 su 100 persone attive sul mercato del lavoro, ben 24 erano prive di una collocazione lavorativa. Questo picco coincide con una drastica perdita di occupati e con l’incapacità del sistema produttivo regionale di assorbire la forza lavoro in eccesso. La terza fase (2015–2024) mostra una riduzione graduale del tasso di disoccupazione: si passa dal 23,2% del 2015 al 13,3% del 2024.

È necessario verificare da cosa siano determinate le variazioni del tasso di disoccupazione, ossia se sono attribuibili alla contrazione della forza lavoro o a creazione di nuova occupazione. I dati in valore assoluto aiutano a interpretare meglio l’evoluzione del fenomeno.

La riduzione del tasso di disoccupazione riflette più un ritiro dal mercato che una ripresa occupazionale (Figura 4). I disoccupati erano poco meno di 100.000 nel 1995, raggiungono un picco di oltre 135.000 nel 2014, e calano a circa 80.000 nel 2024. Tuttavia, questo calo della disoccupazione non riflette un’espansione occupazionale: tra il 2014 e il 2024, infatti, gli occupati aumentano di appena 11.000 unità, mentre la forza lavoro si riduce di oltre 40.000. In altri termini, una parte della popolazione attiva ha cessato di cercare lavoro, determinando una flessione del tasso di disoccupazione solo apparente. Il calo del tasso di disoccupazione, quindi, non è segno di un miglioramento strutturale, ma il risultato combinato di debole dinamica occupazionale e ritiro dal mercato del lavoro, un fenomeno che impoverisce ulteriormente il tessuto produttivo e limita le prospettive di crescita regionale.

Il confronto con il resto del Paese conferma l’anomalia del mercato del lavoro calabrese. Nel 1995, la disoccupazione in Calabria era al 15%, contro l’11% dell’Italia e l’8% del Centro-Nord. Il divario si è mantenuto stabile nei decenni successivi, ampliandosi nei momenti di crisi: nel 2014, la Calabria ha toccato il 24,2%, mentre il tasso italiano era fermo al 13% e quello del Centro-Nord al 10%. Anche il confronto più recente restituisce una dinamica divergente: nel 2024, la disoccupazione in Calabria è ancora al 13,3%, contro l’8% della media nazionale, il 4% del Centro-Nord e il 12% del Mezzogiorno. La distanza dal Nord è oggi di quasi 10 punti, segno di una persistente fragilità strutturale. Come già osservato per la forza lavoro e l’occupazione, anche in questo ambito, la regione si conferma tra le più vulnerabili del Sud.

Sintesi finale: una lettura combinata degli indicatori

L’analisi congiunta dei principali indicatori del mercato del lavoro calabrese nel trentennio 1995–2024 restituisce un quadro di persistente fragilità strutturale. Nel 2024, la Calabria presenta un tasso di attività del 51,7% e un tasso di occupazione del 43,7%, valori che segnalano una scarsa inclusione della popolazione in età lavorativa nel circuito produttivo. Ciò implica che quasi la metà degli adulti tra i 15 e i 64 anni è inattiva, mentre tra chi è attivo, i disoccupati sono il 13,3%. Nel confronto nazionale, le distanze sono ampie e crescenti: nel Centro-Nord, il tasso di attività raggiunge il 73,1% e quello di occupazione il 69,1%, con un’incidenza dell’inattività decisamente inferiore. Questo divario non è solo quantitativo, ma qualitativo, e riflette una diversa capacità dei territori di attrarre, valorizzare e trattenere risorse umane. Particolarmente significativo è il dato relativo alla disoccupazione: il calo del tasso osservato tra il 2014 e il 2024 (dal 24,2% al 13,3%) è in larga parte dovuto alla contrazione della forza lavoro, più che alla creazione di nuovi posti di lavoro. In dieci anni, a fronte di appena 11.000 occupati in più, la forza lavoro si è ridotta di oltre 40.000 unità. È probabile, quindi, che parte dei disoccupati abbia abbandonato il mercato, determinando una riduzione del tasso senza che corrisponda un miglioramento delle condizioni economiche.

In estrema sintesi, la dinamica occupazionale calabrese segnala una fragilità strutturale del mercato del lavoro, incapace di assorbire la forza lavoro disponibile e soggetto a continui fenomeni di scoraggiamento degli “occupabili”. Il confronto con le altre aree del Paese conferma che non si tratta di una crisi ciclica, ma di una divergenza strutturale. In assenza di politiche mirate a rafforzare la base produttiva, creare nuove opportunità occupazionali, ridurre l’inattività e migliorare la qualità della domanda di lavoro, la Calabria rischia di consolidare ulteriormente il proprio ritardo. È necessario promuovere un cambiamento strutturale che favorisca lo sviluppo di settori ad elevata produttività, capaci di competere sui mercati globali delle merci e dei servizi. Solo una trasformazione profonda del modello di sviluppo potrà evitare che in Calabria si consolidi uno squilibrio territoriale persistente, con effetti cumulativi su crescita, coesione e sostenibilità sociale. (fa)

IN CALABRIA È INVERNO DEMOGRAFICO
NEL 2024 I NATI SONO IL 4,5% IN MENO

di CLAUDIO VENDITTI – Preoccupa il quadro delineato dall’Istat nel rapporto “Indicatori demografici Anno 2024” dal quale emerge, a livello nazionale, un calo demografico delle nascite, pari al -2,6%.

Il tasso di natalità in Calabria è stato del 6,9 mentre quello di mortalità dell’11,3 con un saldo naturale (nascite/decessi) di -4,4. I nati in Calabria nel 2024 sono stati 12.700, nel 2023 erano stati 13.282 e nel 2022 13.451.  In calo anche il numero medio di figli per donna, stimato dall’Istat per il 2024 in 1,18 a livello nazionale in Calabria 1,25 e siamo ai minimi storici.

L’età delle neomamme a livello nazionale è del 32,6 in Calabria 32,4 media delle partorienti è di 32,4 anni, Con 1,18 figli per donna nel 2024 il tasso di fecondità è ai minimi storici. Il saldo naturale, ovvero la differenza tra nascite e decessi, continua a essere fortemente negativo (-8.034).

Stiamo sprofondando nelle sabbie mobili, ed è evidente che quanto stiamo mettendo in campo, come sistema-Italia, è del tutto insufficiente per garantire un minimo equilibrio demografico. Da anni si chiede una rivoluzione che il nostro Paese non è ancora disposto ad assumere, vittima di priorità che sono sempre altre, di mancate convergenze transpartitiche, di fragilità di alleanze tra politica, amministrazione locale, lavoro associazionismo e scuola.

A tal fine mi faccio portavoce nel chiedere una Conferenza Regionale sulla famiglia. Ma anche politiche asfittiche e vincolate a patti di bilancio stringenti che invece si fanno flessibili per altre urgenze. L’anno della famiglia sembra sempre essere il prossimo in agende ormai attanagliate da crisi mondiali che oggi ci portano anche a parlare di guerra, militare o di dazi, come una possibilità di scenario ordinario. Cresce ancora anche il numero di italiani che lasciano il Belpaese.

Nel 2024 sono stati 156mila, un +36,5% con un impatto significativo per la Calabria gravata anche dal fenomeno delle migrazioni interne: -8.376. La popolazione residente in Calabria al 1° gennaio 2025 è di 1.838.568 di cui circa 106 mila di nazionalista straniera.  L’Istat ci dice che il numero medio di componenti per famiglia è sceso a 2,2, rispetto ai 2,6 di venti anni fa.

Oggi circa un terzo delle famiglie anagrafiche in Italia è costituito da una sola persona evidenziando che il tema delle solitudini cresce in modo preoccupante. Le coppie con figli rappresentano meno del 30%, mentre aumentano le famiglie monogenitoriali (10,8%) e quelle senza figli (20,2%).

Stiamo consumando il futuro in un’epoca che si fa vanto di cercare sempre la sostenibilità è il commento del presidente del Forum. Urgono politiche strutturali, generose ed universali orientate a famiglia e giovani. In tal senso, serve il coraggio, l’unità e la capacità di programmare per fare, da subito, le scelte operative conseguenti, considerando la spesa per far crescere il figlio, non come un costo individuale ma come investimento per il futuro dell’intera comunità.

Occorre cambiare cultura e supportare la famiglia come soggetto sociale che, se messo nelle condizioni, è capace di generare benessere per tutto il Paese. (cv)

[Claudio Venditti è presidente del Forum famiglie della Calabria]

SPOPOLAMENTO E INVERNO DEMOGRAFICO
LA CALABRIA STA PERDENDO LA SUA GENTE

di FRANCESCO AIELLO – Nel periodo compreso tra il 2010 e il 2020, il tasso annuo di crescita composto della popolazione italiana è stato pari a -0,59%. Questo significa che, nei 7.908 comuni analizzati, la popolazione residente è diminuita complessivamente del 5,9%, passando da 60,58 milioni nel 2010 a 59,23 milioni di abitanti nel 2020. Lo spopolamento ha continuato a manifestarsi anche negli anni successivi: al 1° gennaio 2024, la popolazione italiana si è ulteriormente ridotta a 58,99 milioni di residenti.

L’analisi delle statistiche comunali permette di esaminare le dinamiche demografiche per specifici gruppi di comuni, aggregando i dati per localizzazione, dimensione e zona altimetrica. Questo approccio consente di verificare regolarità empiriche sullo spopolamento, offrendo una descrizione più chiara di come il fenomeno possa essere più pronunciato in determinate categorie di comuni o aree geografiche. Per esempio, se da un lato osserviamo che nel periodo 2010-2020 lo spopolamento è diffuso in tutta Italia, le variazioni dei residenti sono diverse a seconda dell’area geografica considerata. Il Sud e le Isole risultano le aree più colpite, con un calo medio annuo dello 0,88%, seguite dal Centro (-0,67%) e dal Nord (-0,42%). Nei dieci anni considerati, la popolazione residente nei comuni del Sud è diminuita complessivamente dell”8,8%, quella del Centro del 6.7% e quella del Nord del 4,2%.

Differenze molto marcate si osservano anche quando i comuni si raggruppano in due categorie, a seconda se ricadono o meno in un’area interna. In media, si ottiene che i comuni di aree interne registrano una riduzione demografica più elevata dei residenti (-0,85% all’anno) rispetto allo spopolamento delle aree urbane (-0,24% all’anno). Analoghe differenze dei valori medi nazionali si ottengono aggregando i comuni per zona altimetrica. In tale ambito, le zone montane registrano una contrazione della popolazione dello 0,83% annuo, mentre nelle zone collinari il calo è dello 0,63%. Per i comuni localizzati in pianura lo spopolamento esiste sì, ma è più contenuto, con una riduzione demografica dello 0,26% annuo. Un ultimo elemento che è utile considerare è la dimensione dei comuni. I comuni più piccoli sono quelli che soffrono maggiormente il fenomeno, registrando un tasso di spopolamento dell’1,35% annuo nel caso dei 998 nano comuni italiani (13% del totale), ossia quelli con una popolazione inferiore nel 2020 a 500 abitanti. In questi comuni, la popolazione è complessivamente diminuita del 13,5%. Man mano che cresce la dimensione dei comuni, il tasso di decrescita si attenua; i comuni con oltre 10.000 abitanti, infatti, presentano tassi di diminuzione molto più contenuti.

Questi dati mostrano chiaramente che il declino demografico è, in media, più accentuato nelle aree interne, montane e nei piccoli comuni, rispetto a quelli urbani, pianeggianti e di maggiori dimensioni. Tuttavia, nonostante questa analisi evidenzi importanti tendenze generali, non permette di distinguere le dinamiche demografiche tra diverse tipologie di comuni, come quelle delle aree interne del Sud rispetto al Centro-Nord. Classificazioni più granulari dei comuni consentirebbero di ottenere informazioni utile per verificare, per esempio, se i piccoli comuni delle aree interne del Sud si spopolano più rapidamente rispetto ai piccoli comuni del Centro-Nord. Oppure se le aree interne del Nord presentano andamenti diversi da quelle del Sud al variare della popolazione comunale. La figura 2 riporta alcuni risultati che aiutano a comprendere meglio la “geografia” dello spopolamento dei comuni italiani.  La figura mostra il tasso annuo di crescita composto della popolazione nei comuni italiani tra il 2010 e il 2020, suddiviso per area geografica (Centro, Nord, Sud-Isole), dimensione (classi di popolazione residente) e classificazione Snai (Poli e Comuni Cintura rispetto alle Aree Interne).

Emerge, chiaramente, che sia la collocazione geografica sia la dimensione dei comuni influenzano il fenomeno dello spopolamento. Tuttavia, l’effetto dimensione sembra prevalere. Infatti, in tutti i contesti geografici e territoriali, i comuni più piccoli subiscono le perdite demografiche più consistenti, con tassi di declino che superano l’1% annuo. È un fenomeno che è più accentuato nel Mezzogiorno d’Italia rispetto al resto del paese. Al contrario, i comuni più grandi (oltre 10.000 abitanti) registrano tassi di spopolamento molto più contenuti e, in alcuni casi, stabili, qualsiasi sia l’aggregazione territoriale che si considera. Le Aree Interne mostrano una maggiore vulnerabilità, con i piccoli comuni che soffrono le perdite più significative, mentre i poli urbani e i comuni cintura tendono a subire un calo più moderato (Figura 2). Tuttavia, anche all’interno delle Aree Interne, la dimensione del comune resta un fattore determinante: i piccoli centri sono i più colpiti, mentre i comuni più grandi riescono a mitigare gli effetti dello spopolamento.

L’analisi esplorativa dei dati sulla popolazione comunale evidenzia come la dimensione dei comuni sia un elemento cruciale per rappresentare meglio la distribuzione dello spopolamento. I maggiori tassi di riduzione della popolazione si registrano, infatti, nei comuni più piccoli, indipendentemente dalla loro posizione geografica, mentre quelli di maggiori dimensioni mostrano una maggiore resilienza. Una prima implicazione di questa analisi è la necessità di ripensare la tradizionale suddivisione tra aree interne e non interne come criterio per spiegare la distribuzione dello spopolamento in Italia.

L’approccio dicotomico “aree interne-aree non interne” potrebbe non essere del tutto adeguato per comprendere la complessità del fenomeno. Piuttosto, sembra che la dimensione del comune svolga un ruolo importante nel determinare la vulnerabilità allo spopolamento. Di conseguenza, la seconda implicazione è che l’attenzione dovrebbe essere rivolta ai vincoli e ai costi gestionali ed organizzativi che emergono nell’offerta di servizi pubblici nei piccoli comuni. Questi vincoli di inefficienza derivano proprio dalla loro ridotta dimensione e possono essere affrontati attraverso una riforma della governance territoriale, ridefinendo gli assetti istituzionali dei piccoli comuni. Indipendentemente se ricadono in aree interne. (fa)

[Francesco Aiello è professore ordinario di Politica Economica all’Unical]

(Courtesy OpenCalabria)

QUANTO PESERÀ L’INVERNO DEMOGRAFICO
SULLE FUTURE GENERAZIONI DI CALABRESI

di PIETRO MASSIMO BUSETTA“Il nostro inverno demografico”, che è una definizione che fa un po’ paura, è cominciato da molto. E  sa tanto  di un letargo lungo, che non prelude però ad una primavera, ma invece ad un processo inesorabile di involuzione verso l’estinzione. 

 In realtà,  gli Italiani che vivono nel nostro Paese rappresentano soltanto meno dell’1 × 1000 della popolazione complessiva mondiale. La nostra estinzione potrebbe essere irrilevante e certamente, in ogni caso,  laddove si producono dei vuoti immediatamente essi vengono riempiti. Ma che è un popolo, voglia continuare ad avere una sua identità, ad avere una politica demografica tale da non estinguersi, con tutte le sue tradizioni e la sua storia,  è non solo legittimo ma certamente opportuno. 

Per questo è stata salutata con molto entusiasmo l’incontro sulla natalità che si è svolto a Roma. E Papa Bergoglio e  la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni bene hanno fatto ad essere stati ospiti della giornata conclusiva degli Stati Generali della Natalità. Insieme sul palco dell’Auditorium della Conciliazione hanno parlato di famiglia. 

Anche se non dobbiamo dimenticare che tutto quello che si farà da oggi in poi avrà effetto soltanto, per esempio sul mercato del lavoro, fra diciotto- vent’anni. E che il prossimo futuro demografico, quello più vicino a noi, è stato già scritto.  

La mancanza di figli stimola psicologi e sociologi a cercare le motivazioni profonde di un processo che riguarda in generale tutte le popolazioni che, laddove raggiungono livelli economici più avanzati e tenore di vita più confortevoli,  sono portati a diminuire il numero di figli, o a non averne  addirittura. 

D’altra parte qualcuno dice che oggi avere figli è un privilegio di chi se lo può permettere, considerato che una filiazione consapevole prevede un impegno, non solo economico, estremamente rilevante. Ma se l’Italia nel suo complesso piange il Sud è in un affanno più grande. 

L’inverno demografico che colpisce l’Italia, e non ci si deve stupire che sia diventato il Paese a più basso indice di natalità in Europa, riguarda oggi soprattutto il Sud. E i dati sono a dir poco allarmanti. Il  decremento è di -6,3 per mille residenti a fronte di -2,6 per mille al Centro e di -0,9 del Nord. Evidentemente su questi dati vi è l’influenza dell’emigrazione economica verso le realtà settentrionali. 

Le Regioni meridionali sono tutte nelle prime posizioni della classifica della perdita  della popolazione. Mettendo a confronto i dati relativi ai nuovi nati e ai deceduti la Basilicata  nel 2022 ha un tasso di natalità per mille abitanti di 6 e di mortalità di 13, il Molise 5,8 nati e 14,7 deceduti, Sardegna 4,90 contro 13 e Calabria 7,30 su 12,4 decessi. Arretra anche la Puglia con 6,7 nati su 11,4 morti, la Campania  con 7,9 nuovi nati e 10,9 decessi e la Sicilia con 7,6 nuovi nati e 12,3 decessi. 

È chiaro che su tale processo  incide molto la mancanza di servizi sociali. Il numero limitato di asili nido, che spesso non consentono alle donne di lavorare, i pochi sostegni alle madri, che in altri paesi come la Francia sono molto consistenti. Ma anche la mancanza di lavoro che fa sì che al massimo in una famiglia ci sia un componente che ha una occupazione. 

La maggior parte di coloro che fanno parte della non forza lavoro sono proprio donne, magari istruite, alle quali non viene dato alcuna opportunità di un lavoro che sia consono al loro livello sociale ed alla loro formazione. Tale evidenza fa riflettere ancor di più sulle conseguenze di uno sviluppo anomalo del nostro Paese, che registra un processo migratorio importante da una parte all’altra,  che certo non aiuta ne incoraggia coloro che vogliono formarsi una famiglia. E che spesso si trovano a dover emigrare in realtà nelle quali, oltre alla carenza di welfare pubblico, viene a mancare anche la rete di protezione sociale rappresentato dalla famiglia.

Che certamente, parlo dei nonni, degli zii, se presente, costituisce un aiuto non indifferente soprattutto nei primi anni di vita dei bambini. Nel 2022 la diminuzione del numero medio di figli per donna riguarda sia il Nord 1,26,  sia il Centro pari a 1,16, che il Mezzogiorno che  si attesta anch’esso a 1,26. 

Purtroppo abbiamo distrutto quella tradizione di famiglia patriarcale, esistente ancora in passato nelle comunità meridionali, per cui in molti di noi vi è il ricordo di una nonna che aveva avuto anche otto-dieci figli. Per il Sud si prospetta una società che non riesce a mantenersi, per la mancanza di equilibrio tra nuove e vecchie generazioni, per cui diventa difficile il sostegno anche pensionistico di una popolazione con una vita media, per fortuna, sempre più lunga, ma proprio per questo con esigenze sempre più rilevanti di una sanità adeguata.

Peraltro la situazione è aggravata anche dal fatto che coloro che sono andati via per mancanza di lavoro, spesso, ritornano, dopo il pensionamento, nella loro terra di origine. Aggravando l’esigenza di sanità, già non adeguata per coloro che sono stati sempre residenti. 

Riflettere sulle condizioni già presenti, ma che si aggraveranno ulteriormente nei prossimi anni, non è un esercizio di puro studio ma deve avere conseguenze operative immediate che riguardino l’esigenza di una crescita consistente in tutte le parti del Paese, ed in particolare in quelle che hanno più possibilità di crescita.

Cosa assolutamente scontata tanto che lo stesso Luigi Einaudi già in un articolo  del 23 giugno del 1900 sul Corriere della Sera affermava riferendosi al Sud: «quando su un campo si sono già impiegati rilevanti capitali, torna più conveniente applicare i nuovi capitali non su di esso ma su nuovi campi trascurati prima perché ritenuti troppo sterili». 

Al di là di fattori sociali, di un sentire diffuso, l’aspetto economico di sopravvivenza, di servizi alla persona di diritti di cittadinanza diffusi ed adeguati diventano un elemento fondante di qualunque politica attiva per le famiglie. Compreso quel reddito di cittadinanza, ormai quasi cancellato, che darebbe ai cosiddetti occupabili maggiori certezze di poter affrontare periodi di difficoltà avendo un ombrello protettivo per superare momenti difficili.

Ma tutto questo prevede che vi sia una produzione di reddito adeguata alle tante esigenze di una società evoluta. L’Italia non può più accontentarsi di crescere allo zero  virgola qualcosa ma deve puntare a tassi di incremento consistenti. Per questo è necessario ripensare in grande, e in questa visione anche il Ponte sullo Stretto di Messina diventa oltre che lo strumento per il recupero dei traffici mediterranei anche il simbolo di una volontà di giocare negli scacchieri  internazionali un ruolo che ormai da anni abbiamo perso. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]

IL LUNGO INVERNO DEMOGRAFICO D’ITALIA
IN CALABRIA SI RIVELA ANCORA PIÙ RIGIDO

di GIUSEPPE DE BARTOLO – Il Papa, il giorno dell’Epifania, durante l’Angelus, presentando la “lettera agli sposi”, è ritornato, con grande preoccupazione, sulla denatalità, sull’inverno demografico che colpisce molti paesi e soprattutto l’Italia. “Sembra che tante coppie- ha detto Papa Francesco- preferiscano rimanere senza figli o con un figlio soltanto”. Ed ancora: “Facciamo tutto il possibile per riprendere una coscienza, per vincere questo inverno demografico che va contro le nostre famiglie, contro la nostra patria, anche contro il nostro futuro”. Mattarella nel suo discorso di fine anno ha anch’egli sottolineto l’urgenza di “invertire i dati allarmanti sulla natalità”. Queste preoccupazioni si basano, com’è noto, su dati ormai ben consolidati: i rapporti che con regolarità l’Istat pubblica sulla natalità mettono in evidenza ogni volta un nuovo record negativo e non fa eccezione il Report pubblicato il 14 dicembre scorso che certifica il calo delle nascite anche nel 2021, calo che la pandemia ha ulteriormente accentuato. Nel 2020 i nati sono stati 404.892, 15 mila in meno rispetto al 2019 e, secondo i primi dati, ancorché provvisori, nei primi nove mesi del 2021 le minori nascite sono già 12mila e 500, quasi il doppio di quanto osservato nello stesso periodo del 2020. Il numero dei figli per donna nel 2020 è sceso a 1,24 rispetto al valore di 1,44 del periodo 2008-2010, periodo in cui si è registrato il massimo relativo della fecondità. Se poi si considera la fecondità delle donne residenti l’indice precipita addirittura a 1,17 figli, uno degli indici di fecondità più bassi al mondo! Se si pensa che per avere a la semplice sostituzione delle madri con le figlie è necessario un livello di fecondità di 2,1 figli, si comprende come sia “severo” nel nostro Paese l’inverno demografico richiamato da Papa Francesco e menzionato da Mattarella nel suo discorso. Ricordiamo che dal 2008 le nascite sono diminuite di ben 172mila unità nella quasi totalità dovute al calo delle nascite da coppie con entrambi i genitori italiani. È vero che dall’anno duemila questo trend è stato temperato dall’immigrazione straniera, ma va sottolineato che anche l’apporto positivo dell’immigrazione sta perdendo di efficacia man mano che invecchia il profilo per età di questa popolazione.

La bassa fecondità, che ha segnato gli ultimi quarant’anni, insieme con l’aumento della sopravvivenza – ricordiamo che la vita media alla nascita rispetto a mezzo secolo fa è aumentata di ben 10 anni – ci consegnano un Paese con un elevato invecchiamento demografico, tratto che condizionerà fortemente il prossimo futuro. Infatti, entro il 2050 si prevede che gli ultrasessantacinquenni potrebbero rappresentare ben il 35% della popolazione complessiva e ciò renderà ancora più necessario e urgente adattare le politiche di protezione sociale ad una quota di popolazione anziana sempre più numerosa.

In questo quadro la Calabria si troverebbe in un “inverno demografico” ancora più rigido. Infatti, nel 2050, secondo lo scenario mediano costruito dall’Istat, la nostra Regione potrebbe perdere 367mila residenti, pari al 19,4% della sua popolazione odierna, quasi il doppio di quell’11% in meno che l’Italia intera avrebbe nello stesso periodo. Inoltre, l’indice di vecchiaia, ovvero il rapporto tra anziani e giovanissimi aumenterebbe da 169% di oggi al 336% del 2050. Ricordiamo che oggi vaste zone della nostra Regione soffrono di un forte spopolamento e sono segnate da un invecchiamento molto severo che è destinato ad aumentare nel tempo, mettendo in grande difficoltà il debole tessuto economico-sociale già provato dalla pandemia in corso. Per esempio, in provincia di Cosenza il primo gennaio 2021 nel Comune di Alessandra del Carretto a fronte di un giovanissimo ci sono ben 12,5 ultrasessantacinquenni, a Carpanzano il rapporto è di 1 a 11, a Castroregio di 1 a 9; in provincia di Reggio Calabria, a Roccaforte del Greco il rapporto è di 1 a 11; in provincia di Crotone, a Carfizzi è di 1 a 8,7 e a San Nicola dell’Alto di 1 a 6.

Questo declino, come è stato sottolineato anche in altre occasioni, potrà essere contrastato solo se la questione demografica sarà assunta a vera e propria emergenza nazionale, costruendo una vera politica sociale e economica che aiuti la popolazione anziana ad avere un ruolo attivo nella società, che sostenga la famiglia e la procreazione e che non consideri l’immigrazione come un problema ma come una risorsa da valorizzare attraverso l’accoglienza e l’integrazione. (gdb)

[Giuseppe De Bartolo è professore di Demografia all’Università della Calabria]