6 MILIONI DI NUOVI OCCUPATI NON BASTANO
SI DEVE FERMARE LA MIGRAZIONE DAL SUD

di PIETRO MASSIMO BUSETTA Un dato che vede superare, anche se di poco, i 6.300.000 occupati nel Sud non può che essere un traguardo da salutare con soddisfazione. Mentre vedere scendere i disoccupati al di sotto del milione risulta anche esso un goal messo in porta. Che poi il tasso di disoccupazione si attesti al di sotto del 15% può essere un altro elemento di soddisfazione.  

Ma per evitare di non comprendere la realtà e doversi stupire quando i richiedenti di reddito di cittadinanza, come è avvenuto, si dimensionano in oltre 600.000 in Campania e in oltre 500.000 in Sicilia,  non bisogna dimenticare il rapporto esistente tra popolazione complessiva  e occupati. 

Perché se è vero che gli occupati aumentano dell’1,2%, e i  disoccupati diminuiscono dell’1,5%, sul 2022, continua a essere altrettanto vero che il rapporto tra popolazione complessiva ed occupati, compresi i sommersi,  é ancora vicino a quell’uno su quattro che caratterizza una realtà a sviluppo ritardato. 

Che di strada da fare, per utilizzare al meglio le proprie risorse umane ed evitare quello stillicidio, meglio fuga, di 100.000 persone ogni anno che dal Sud, per cercare lavoro e diritti,  sono costrette a lasciare i propri territori,  c’è ne è molta. E che tale fenomeno contribuisce  in maniera consistente a quella desertificazione che non si limita a un fenomeno di abbandono delle campagne e delle aree montane, ma che si sostanzia anche in una emigrazione anche dalle realtà urbane. 

Che riguarda prevalentemente quel capitale umano formato, dalle spesso ottime università meridionali che, in vista di una mancanza di lavoro, si sposta già per frequentare le università del Nord, con una conseguente perdita dei costi affrontati dalla famiglia per la loro frequenza ( danno emergente),  ma anche del lucro cessante,  considerato che professionalità formate lasciano i territori permanentemente, e che più le competenze sono elevate, in assenza di un tessuto manifatturiero ampio di livello, e più sarà difficile rientrare. 

Per essere più chiari é difficile  per un ingegnere, con professionalità elevate, rientrare perché le possibilità di inserimento o le posizioni lavorative a livello richiesto sono molto rare, ed è difficile che si possano trovare nel manifatturiero meridionale. 

Per questo bisogna stare attenti ad immaginare che i 3 milioni di nuovi occupati, quel numero necessario per avere un rapporto adeguato tra popolazione e occupati,  si occupi in   un’agricoltura, che continuerà nelle previsioni a perdere addetti, o in un settore turistico che, anche se moltiplicherà la sua capacità di accoglienza e quindi le presenze registrate, non potrà  mai nella quantità soddisfare le esigenze per arrivare a un rapporto popolazione occupati delle realtà a sviluppo compiuto, e nella qualità non potrà offrire, a tutte le specializzazioni che si vanno formando, possibilità di inserimento adeguato.

Ed anche se l’export del Sud, che è un indicatore interessante della dinamica del manifatturiero è in crescita e ha superato i 66 miliardi di euro nel 2022, il suo potenziale è ancora molto ampio: solo il 14% degli esportatori a livello nazionale risiede al Sud e contribuiscono all’11% dell’export nazionale. Se poi si confrontano con le esportazioni italiane di beni che hanno raggiunto la cifra record di circa 620 miliardi di euro (+19.8% rispetto al 2021) si capisce quali sono i margini di crescita.

Per questo ben vengano le occasioni come quella organizzata da Svimez e Laterza a Bari su “Mezzogiorno reale, Mezzogiorno immaginato. Perché pur con le tante eccezioni positive nelle imprese e nel mondo associativo, c’è un Mezzogiorno reale – quello del disagio economico e sociale, delle carenze infrastrutturali, dei divari irrisolti di reddito, istruzione e sanità – che da tempo, sostengono gli organizzatori,  di fatto, è assente nel dibattito pubblico”. 

In realtà tale affermazione non è totalmente condivisibile. Anche per merito delle campagne che il Quotidiano Del Sud ha intrapreso, a cominciare da quelle riguardanti lo scippo di 60 miliardi l’anno, e a continuare con gli approfondimenti sull’autonomia differenziata che hanno portato, se non ad un blocco, certamente ad un rallentamento del processo legislativo relativo. 

Il Mezzogiorno invece è tornato ad essere centrale rispetto a politiche, giuste o sbagliate che siano, ma che lo riguardano  direttamente, come per esempio con la Zes unica. 

Come sosteneva anche recentemente Massimo Villone: «l’effetto positivo dell’autonomia differenziata è che in ultima analisi ha portato alla luce un dibattito e un contributo sui problemi reali che per anni la politica ufficiale ha cercato con successo di coprire con una coltre di silenzio. E viaggiava appena dissimulato il topos secondo cui il divario Nord-Sud alla fine era colpa del Sud propaggine della terra africana giustapposta al nord virtuoso ed efficiente«.

Anche Il mio Il lupo e l’agnello, del 2021 edizioni Rubbettino, premio Rhegium Julii 2022, metteva già proprio in evidenza come le colpe erano di chi aveva avuto la guida del nostro Paese. Quella classe dirigente nazionale che, con la collusione della classe dominante estrattiva meridionale, aveva consentito che la questione economica non si risolvesse e che le azioni portate avanti fossero assolutamente incongruenti rispetto alla dimensione della problematica. 

Finalmente peraltro, solo recentemente, si è cominciato a guardare agli aspetti quantitativi del fenomeno Sud, dopo tanti anni in cui l’approccio era stato soltanto sociologico e spesso parolaio. 

Il passo in avanti notevole  che si è fatto rispetto alle problematiche, grazie ad alcuni studiosi che hanno cominciato ad approfondire numeri e quantità, é quello di avere un approccio quantitativo. 

Anche sui diritti negati, per cui si comincia a far riferimento al rapporto per esempio posti negli asili nido su popolazione complessiva. No! Non siamo più all’anno zero e la consapevolezza collettiva, di un Sud spesso emarginato e maltrattato, è diventata maggiore. Se riuscirà tutto questo a portare ad una rappresentanza politica meno ascara, un grande passo in avanti sarà stato fatto. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]

LAVORO AL SUD: SERVE UNA “RIVOLUZIONE”
PER RENDERE COMPETITIVO IL TERRITORIO

di GIUSEPPE NUCERA – La visita nella Locride dei vertici delle sigle sindacali ha rappresentato una occasione importante per il nostro territorio, anche alla luce del fatto che due dei tre segretari (Sbarra e Bombardieri) sono figli proprio di questa terra. Impossibile non cogliere la valenza simbolica di un simile evento, che ha visto il mondo del lavoro presenziare in uno dei territori più poveri e in difficoltà dell’intera nazione.

Ma non è stato sempre cosi, la situazione attuale si presenta capovolta rispetto ai secoli scorsi. Il Meridione nell’Italia preunitaria rappresentava la locomotiva del paese, era più avanti sia da un punto di vista storico e culturale che economico. Per rendersi conto di quanto appena affermato invito a visitare il Museo delle Ferriere Borboniche a Mongiana. Successivamente, una politica fatta di dazi e favori al Nord ha completamente ribaltato i valori e il Sud da decenni si trova costretto a vivere in uno stato di forte arretratezza.

Ai tre Segretari delle sigle sindacali dico che per cambiare davvero le cose bisogna andare in profondità, capire come si può rendere davvero attrattivo e competitivo un territorio, specie se così complesso come quello della Calabria e del Mezzogiorno in generale.

Da Presidente di Confindustria Reggio Calabria, mi sono spesso confrontato con le più importanti realtà industriali del Nord Itali, proponendo loro di investire in Calabria. Il più delle volte, notavo scarsa conoscenza delle potenzialità della nostra regione e anche superficialità nel trattare il solito tema della ‘ndrangheta, in realtà ben più presente al Nord dove gli interessi economici sono superiori.

Per far imprimere davvero una svolta al Mezzogiorno sul tema del lavoro, serve una rivoluzione fatta di scelte forti e anche provocatorie. Ai tre Segretari delle sigle sindacali, dall’alto della loro esperienza e degli incarichi prestigiosi che ricoprono, suggerisco di riconsiderare il costo del lavoro tra Nord e Sud.

In alcuni ambiti si è faticato molto a ottenere la parità salariale, in questo momento storico ritengo che un abbassamento del costo del lavoro al Sud possa portare benefici al Mezzogiorno d’Italia. Con un costo della vita decisamente inferiore e la possibilità di rimanere nella propria terra, sono convinto che ogni meridionale accetterebbe uno stipendio leggermente più basso pur di evitare il trasferimento al Nord. Allo stesso tempo, le aziende non avrebbero necessità di delocalizzare all’estero potendo così effettuare investimenti importanti al Sud.

Comprendo perfettamente come la mia proposta vada controcorrente. Qualcuno potrebbe pensare al ripristino delle “gabbie salariali”. L’intento non è questo, la volontà è quella di dare un nuovo e diverso valore alle regole del mercato del lavoro, che non sono di parte. Da ex sindacalista, conosco bene le tematiche relative al mondo del lavoro, specie se declinate alla realtà della Calabria. Ritengo sia arrivato il momento di compiere scelte coraggiose, utili a far risorgere il Sud riportandolo più vicino agli antichi splendori e ben lontano dalla triste situazione in cui si trova. (gnu)