EDILIZIA SCOLASTICA IN CALABRIA ANCORA
C’È TROPPO DA FARE TRA DIVARI E RITARDI

di ANTONIETTA MARIA STRATI – In Calabria a poco a poco si stanno rendendo più sicure e moderne le scuole. Si tratta certamente di un importante risultato, ma questo non è abbastanza per poter dire che nella regione le Scuole stanno bene, perché non è così. A certificare lo stato di salute degli edifici in Calabria e in tutta Italia, la 14esima edizione del report Ecosistema Scuola di Legambiente, in cui sono emersi dati molto interessati.

Ad esempio, Vibo Valentia è tra le città che hanno realizzato maggiori interventi di adeguamento sismico, mentre Cosenza è tra quelle che hanno realizzato i maggiori interventi di messa in sicurezza dei solai nelle proprie scuole negli ultimi 5 anni, oltre ad avere – assieme a Crotone – il maggior numero di scuole servite da pedibus. La città bruzia, inoltre, brilla per il maggior numero di scuole raggiungibili in bicicletta grazie alle piste ciclabili. Catanzaro, invece, viene “rimandata” per non aver fornito dati gli impianti di energia rinnovabile nelle scuole, mentre Vibo, se da una parte è stata virtuosa contro i terremoti, dall’altra viene “bocciata” per non avere impianti di energia. Il capoluogo e Crotone rientrano, anche, tra le scuole che non hanno fornito dati sul monitoraggio amianto. Sempre Vibo, è tra le città che spendono di pi ù nel servizio di pre e post scuola. Reggio Calabria, invece, non compare in nessuna classifica.

Dati importanti, considerando che i dati sulle certificazioni ci restituiscono una situazione a livello nazionale poco rassicurante, visto che ancora oggi solo 1 edificio su 2 dispone del certificato di agibilità (49,3%) e di collaudo statico (47,5%). Nello specifico, il 68,8% degli edifici del Nord dispongono del certificato di agibilità, mentre solo il 22,6% di quelli del Sud e il 33,9% delle Isole.

Nel Report, infatti, sono raccolti i dati del 2023 di 100 Comuni capoluogo su 113  e che riguardano 7.024 edifici scolastici di loro competenza, tra scuole dell’infanzia, primarie e secondarie di primo grado, frequentati da una popolazione di oltre un milione e 300mila studenti, offre un’analisi dettagliata sullo stato di salute delle scuole confrontandola con i servizi essenziali di prestazione, i cosiddetti Lep previsti dall’autonomia differenziata, e che per le scuole riguardano edilizia scolastica, digitalizzazione e servizi mensa, denunciandone ritardi ed emergenze da affrontare anche per quel che riguarda trasporti, palestre e sostenibilità energetica, tre servizi non contemplati dai Lep riguardanti l’istruzione.

«Con l’autonomia differenziata – ha commentato Claudia Cappelletti, responsabile nazionale scuola di Legambiente – si rischia di aumentare i divari tra le scuole del nord e sud. Di questo passo senza un investimento sui Lep, rischiano le aree più fragili del Paese, come il sud e le aree interne, non solo di non recuperare i ritardi sull’edilizia scolastica ma anche di restare indietro sui servizi scolastici. Se si vuole lavorare su una didattica inclusiva e innovativa l’organizzazione e la progettazione degli spazi è rilevante, bisogna che ci siano laboratori, palestre, mense, nuovi ambienti di apprendimento».

«Ma anche le condizioni di lavoro sono fondamentali – ha aggiunto – gruppi classe più piccoli, un isolamento termico che consenta di stare in classe senza disagi, scelte di sostenibilità che migliorino lo stato generale degli edifici. Tutto questo potrebbe essere realizzato se la messa a terra dell’autonomia differenziata aprisse una stagione con al centro un grande piano di rigenerazione partecipata delle scuole per connettere bisogni e azioni».

«Per ridurre il gap con il resto d’Italia – si legge nel rapporto – ma soprattutto per mettere in sicurezza le scuole, si rende, quindi, urgente dedicare maggiori fondi al Sud e Isole ma, soprattutto, aiutare le amministrazioni a realizzare gli interventi necessari per la messa a norma degli edifici scolastici di loro competenza.

«È giunto il tempo – ha detto Mariateresa Imparato, presidente di Legambiente Campania – di “alzare l’asticella della qualità”, con obiettivi e prestazioni da raggiungere che garantiscano davvero la sostenibilità ambientale e la salubrità degli edifici, la qualità indoor, il benessere e la salute. La vera sfida consiste nel promuovere nei fatti un grande cantiere di innovazione, dove convogliare idee e risorse per progettare e realizzare scuole innovative, sostenibili, più sicure e inclusive».

Infatti, nella Penisola una scuola su tre ha bisogno di interventi di manutenzione urgenti, un dato che nel Sud e nelle Isole sale al 50%, 1 scuola su 2. Un’emergenza ormai cronica, che non migliora, nonostante nel 2023 a livello nazionale siano stati stanziati maggiori fondi per la manutenzione straordinaria (media per singolo edificio), 42milax euro, rispetto a quelli medi degli ultimi 5 anni, 36mila euro. Senza contare che persiste un forte gap tra quanto viene stanziato e quanto le amministrazioni riescono effettivamente a spendere: nel 2023 considerata la media a edificio scolastico su 42.022 euro stanziati ne sono stati spesi 23.821 euro. Preoccupano, anche, i ritardi su digitalizzazione, trasporti, servizi per lo sport ed efficientamento energetico e in questo quadro l’autonomia differenziata rischia di non aiutare la scuola.

Ma non solo: a pesare sullo stato di salute  degli edifici scolastici sono anche i ritardi che si registrano sul fronte della sicurezza – solo il 50% delle scuole ha tutte le garanzie (ossia i certificati di sicurezza) – ma anche sul fronte servizi come, ad esempio, sull’innovazione digitale con poco più di 1 scuola su 2 che dispone di reti cablate e Wi-Fi.Le mense restano un servizio di qualità ma ancora non presente in tutte le aree del Paese. Il dato medio di 76,7% di edifici con mensa a livello nazionale, al Nord e al Centro sale rispettivamente al 92,2% e all’80,9%, mentre nel Sud e nelle Isole si ferma rispettivamente al 54,3% e al 41,2%. Preoccupa la poca attenzione alla sostenibilità, nel 64,9% delle mense vengono impiegate stoviglie monouso. Sul fronte trasporti solo il 19,7% delle scuole dispone di un servizio di mobilità collettiva come lo scuolabus; sui servizi per lo sport un impianto su quattro necessita di manutenzione urgente.

Le palestre aperte oltre l’orario scolastico sono oltre il 70% nei capoluoghi di provincia del Centro-Nord, per ridursi al 30,3% nelle Isole al Sud e ridimensionarsi a poco più del 40% nelle città del Sud delle Isole. Relativamente all’energia, solo il 20,9% degli edifici scolastici utilizza fonti di energia rinnovabile, con un picco al Nord (24,3%) e un minimo nelle Isole (14,1%), solo il 16,4% delle scuole ha visto realizzati interventi di efficientamento negli ultimi 5 anni e di tutti gli edifici scolastici, solo il 6,7 % si trova in classe A.  Per Legambiente è una grave mancanza che i Lep relativi all’istruzione non considerino tre servizi come trasporto scolastico, palestre e sostenibilità energetica. Si tratta di servizi indispensabili per garantire il diritto allo studio, l’accessibilità a strutture sportive pubbliche e ambienti qualitativamente vivibili anche da un punto di vista climatico.

Nel rapporto, poi, viene rilevato come «persiste, nella Penisola, il divario tra Nord e Sud anche in termini di capacità progettuale, di reperimento dei fondi e di finalizzazione della spesa. In particolare, per quel che riguarda i fondi nazionali per l’edilizia scolastica per interventi di diversa tipologia, nel 2023 nel Nord e nel Sud la media dei fondi nazionali ricevuti per edificio scolastico è stata di circa 1,4milioni di euro, nel Centro il dato scende a poco più di 600mila, per arrivare a meno di 300mila euro a edificio nelle Isole. Fondi esigui, quest’ultimi, per la messa in sicurezza e l’efficientamento degli edifici scolastici. Differenti anche i tempi di durata dei cantieri, se in alcune regioni del Nord possono essere di 8-10 mesi dallo stanziamento della risorsa all’opera ultimata, in diverse regioni del Sud possono invece arrivare a 24 mesi. Sul fronte nuova edilizia scolastica, negli ultimi 5 anni stando ai dati inviati dalle amministrazioni, nella Penisola sono solo 41 le scuole nuove costruite».

Alla luce dei dati emersi dal Report, Legambiente ha presentato dieci proposte che hanno come filo rosso un grande piano di rigenerazione partecipata delle scuole a partire da una manutenzione, gestione, organizzazione e qualità della scuola migliore. Primo intervento importante da mettere in campo, attivare da parte degli Enti Locali processi di amministrazione condivisa sulla base di patti educativi di Comunità. A seguire tra gli interventi prioritari per Legambiente occorre ampliare la funzione dell’anagrafe scolastica rendendo trasparenti le informazioni sullo stato di avanzamento degli interventi per l’edilizia scolastica e relativi finanziamenti, creare una struttura di governance per facilitare accesso e gestione dei fondi per l’edilizia scolastica da parte degli Enti Locali e garantire il funzionamento dell’Osservatorio per l’edilizia scolastico. (ams)

CONTRO L’EMIGRAZIONE GIOVANILE SI DEVE
PUNTARE A COLMARE IL DIVARIO NORD-SUD

di PIETRO MASSIMO BUSETTAVale 134 miliardi il capitale umano uscito con i giovani italiani emigrati: dalla Lombardia 23 miliardi, dalla Sicilia 15 e dal Veneto 12, e la quota dei laureati che vanno via diventa sempre più consistente. Così in una nota, firmata Lorenzo Di Lenna, ricercatore junior e Luca Paolazzi, direttore scientifico della Fondazione Nord Est, viene calcolato il costo del deflusso di giovani dal nostro Paese.

Nei tredici anni 2011-23 il valore del capitale umano che se ne è andato dall’Italia, e riguardante i giovani 18-34 emigrati, è pari a 133,9 miliardi, con la Lombardia a primeggiare per perdita (22,8 miliardi), seguita dalla Sicilia (14,5), dal Veneto (12,5) e dalla Campania (11,7). 

In realtà il dato assoluto in questo caso non ha alcun senso. Se invece esso viene rapportato alla popolazione residente in ciascuna regione ci si accorge facilmente che la classifica è diversa e vede il valore dei giovani meridionali che abbandonano quello più elevato. E questo calcolo riguarda soltanto il movimento rispetto ai trasferimenti in altre nazioni d’Europa e del mondo. Non tiene conto invece dei trasferimenti all’interno del nostro stesso Paese. Possiamo aggiungere allora che ogni anno le regioni del Sud “regalano” a quelle del Nord una cifra vicina ai 20 miliardi di euro, considerato che ogni ragazzo che viene formato fino alla scuola media superiore ha un costo che viene calcolato in circa 200.000 € e che ogni anno si trasferiscono dal Mezzogiorno verso il Nord del Paese 100.000 giovani, la maggior parte dei quali sono laureati e che quindi hanno un costo maggiore dei 200.000 € che sono stati riportati prima. 

Lanciare un grido d’allarme per evidenziare che il nostro non è un Paese attrattivo è corretto. Spesso le remunerazioni sono molto basse, vedasi cosa accade con i medici, che trovano convenienti le condizioni complessive offerte altrove. I diritti a cui si può accedere sono più ampi all’estero, si pensi al welfare di cui godono le giovani mamme o spesso ad una sanità che da noi non è all’altezza delle aspettative, soprattutto nel Mezzogiorno.

Insomma non solo un lavoro meglio retribuito, ma anche un welfare più consistente sono le motivazioni alla base della scelta di chi preferisce abbandonare l’Italia e trova conveniente spostarsi. Ma una distinzione tra coloro che abbandonano il Mezzogiorno e quelli che abbandonano il Centro Nord va fatta.

Infatti non si tratta dello stesso tipo di trasferimento. Nel Nord si assiste ad un processo, che peraltro può essere anche virtuoso, perché consente ai giovani italiani di acquisire skill che magari in Italia avrebbero più difficoltà a conseguire. 

Si chiama mobilità ed è un processo in genere bidirezionale, da un paese all’altro, ed arricchisce entrambi i territori. Il giovane inglese viene a lavorare in Italia e il suo collega italiano va a Londra. Nel loro percorso di vita ci potrà essere un ritorno nelle loro aree di origine, perché non sarà difficile per l’ingegnere che si è specializzato in un’azienda londinese trovare la possibilità di essere accolto in una altrettanto bell’azienda brianzola, nella quale potrà continuare il lavoro che svolgeva nella prima. 

Caratteristiche diverse ha l’abbandono dei territori meridionali: in tal caso si parla di emigrazione, che è quel fenomeno che riguarda i paesi poveri, che li depaupera delle migliori energie, che non hanno alcuna possibilità di trovare collocazione nel sistema imprenditoriale esistente. 

In quel caso si tratta di una perdita netta perché senza ritorno: essendovi un sistema manifatturiero imprenditoriale molto carente, le professionalità che vanno via difficilmente potranno trovare collocazione in un eventuale loro, desiderato, ritorno, che avverrà probabilmente soltanto nella fase della pensione.

Per cui il danno sarà doppio: la prima volta lo si avrà quando si perde il costo della formazione sostenuto dalla Comunità di appartenenza, la seconda volta al loro ritorno nelle terre di origine, perché queste dovranno farsi carico di fornire le prestazioni sanitarie, che, come è noto, sono molto più frequenti quando si raggiunge una certa età. 

Peraltro il Nord del Paese, in ogni caso si rifà di eventuali perdite di capitale umano formato attraendo i giovani meridionali, spesso con operazioni di comunicazione scientifiche e programmate. Il Sud invece ha performance simili a quelle dei Paesi in via di sviluppo, come Tunisia, Marocco, Libia.

La differenza è che dal Nord Africa o dall’Africa Centrale arrivano con i barconi, dal Sud basta un volo low cost, ma il depauperamento è uguale.    

Certo consentire un tipo di abbandono come quello di cui si è parlato senza che lo Stato di appartenenza possa rifarsi perlomeno in parte dei costi sostenuti per “l’allevamento“ di tali giovani è un percorso che va rivisto. Anche se in una libera Europa, dove merci e persone possono muoversi liberamente, pensare a rimborsi dovuti allo Stato da chi lascia la propria nazione è assolutamente inimmaginabile, come lo è però la cannibalizzazione che viene fatta nei confronti di alcuni paesi, tipo per esempio la Croazia. 

I meccanismi seri che possono alla base evitare tali processi che impoveriscono alcune aree riguardano soltanto lo sviluppo di esse, le eliminazioni dei divari, che poi è quello su cui l’Europa sta cercando di lavorare più alacremente. Ma è anche il percorso più difficile. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’altravoce dell’Italia]

L’INGIUSTIFICATA NECESSITÀ DEL MINISTRO
FITTO DI RIESAMINARE IL PNRR PER IL SUD

di PIETRO MASSIMO BUSETTA – «La Commissione Europea ha versato all’Italia la quinta rata del Pnrr, pari a 11 miliardi di euro. Il pagamento segue la valutazione positiva, adottata formalmente lo scorso 2 luglio, connessa al conseguimento di 53 traguardi e obiettivi della quinta rata del Pnrr italiano».

Questa la notizia delle Agenzie che riguarda un fatto estremamente importante, che viene confermato da numeri inoppugnabili: vi è un versamento nelle Casse dello Stato italiano di una cifra considerevole. Parliamo di 11 miliardi che certamente aiutano il bilancio. 

Giancarlo Giorgetti sarà molto soddisfatto e grato nei confronti di Raffaele Fitto, che porta a casa già oltre 100 miliardi. Con l’incasso della quinta rata, infatti l’Italia ha ricevuto ad oggi il 58,4% delle risorse complessive del Pnrr, pari a 113,5 miliardi di euro su un totale di 194,4 miliardi. 

Già il 2 luglio Bruxelles aveva approvato una valutazione preliminare positiva delle 53 tappe e obiettivi richiesti, per sbloccare la rata da 11 miliardi, tra cui l’attuazione di 14 riforme e 22 investimenti, in settori quali il diritto della concorrenza, gli appalti pubblici, la gestione dei rifiuti e dell’acqua, la giustizia, il quadro di revisione della spesa e l’istruzione.

L’Italia ha già richiesto a Bruxelles il pagamento della sesta rata da 8,5 miliardi di euro, ed è al lavoro per la verifica e rendicontazione dei 69 traguardi e obiettivi previsti per la settima rata del Pnrr, equivalenti a 18,2 miliardi di euro.  

I rumors della minoranza che parlano di gioco delle tre carte perché il Pnrr sarebbe solo al «37% del totale del cronoprogramma» non fanno breccia. Né può essere preso sul serio un Angelo Bonelli, leader di Europa Verde, che pensa che il Governo non sia impegnato «a risolvere i problemi reali del Paese». 

Troppa generica l’accusa e l’attivismo della Premier va proprio nel senso opposto, qualcuno addirittura chiederebbe che avesse meno iniziative. E allora tutto bene? Intanto non vi è dubbio che è meglio incassare le risorse che sono state destinate all’Italia provenienti dal debito comune che invece non essere in condizione di esigerle. 

Ma qualche considerazione più ampia deve essere fatta. Le notizie circa il fatto che a livello territoriale le risorse non stanno arrivando nel Mezzogiorno, nella quantità destinatagli dal Paese, che è inferiore a quella che sarebbe toccata se l’algoritmo europeo fosse stato applicato senza alcuna correzione, sono molto frequenti e da fonti diverse. 

 Lo stesso Raffaele Fitto ha parlato della necessità di rivedere il piano per quanto attiene il Sud, con una rimodulazione che rivela alcune difficoltà, peraltro attese, considerato lo stato degli uffici tecnici delle istituzioni locali dopo anni di “dimagrimento”.  

«Dovremo garantire che il 40% delle risorse del Pnrr vengano spese al Sud e su questo bisognerà interrogarsi. Ci sarà l’esigenza di valutare qualche altra ulteriore revisione? Forse sì». Cosi il Ministro,  in una recente audizione presso le Commissioni Riunite Bilancio e Affari Europei di Camera e Senato, nella quale non ha escluso un’ulteriore modifica al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. 

Forse siamo andati nel senso delle proposte indecenti di Giuseppe Sala e Luca Zaia, che si offrivano di spendere loro le risorse, visto che avevano progetti esecutivi e capacità di spesa? 

E che dimenticavano entrambi che il primo obiettivo del Pnrr era di diminuire i divari non di aumentarli, e che solo perché esiste il Sud sono arrivate risorse consistenti, senza dimenticare che in parte sono a debito e quindi dovranno essere restituiti da tutti gli italiani, ovviamente in modo progressivo rispetto al reddito prodotto, concetto che alcuni “nordici” non riescono ad accettare e forse capire. E che prevede che a parità di reddito si paghi lo stesso importo di tasse e che, indipendentemente da ciò che si versa, si abbia diritto agli stessi servizi essenziali, quelli che sono stati definiti come Lep (Livelli Essenziali di Prestazioni) e che invece dovrebbero essere Lup (Livelli Uniformi di Prestazioni ). 

Ma se “bisognerà” interrogarsi sulla garanzia che il 40% delle risorse del Pnrr vengano spese al Sud allora vuol dire che nel raggiungimento degli obiettivi non è prevista alcuna clausola territoriale.  Se così fosse l’Unione confermerebbe una disattenzione alla quale ormai siamo abituati, e confermerebbe un assenza di governance sull’utilizzo corretto dei fondi strutturali provenienti dall’Europa. 

È accaduto che per anni i fondi strutturali siano stati sostitutivi dei fondi ordinari, che dovevano arrivare nel Mezzogiorno, tanto che il pro-capite che avrebbe dovuto essere superiore nel Sud, per l’utilizzo dei fondi aggiuntivi dell’Europa, sia risultato poi invece, malgrado questi, inferiore, senza che ciò fosse in qualche modo rilevato e sanzionato da parte della Commissione, sempre molto attenta invece  a controllare l’andamento di altri indicatori. 

E non per per una piccola cifra ma per oltre 60 miliardi annui, come è stato ampiamente documentato dal Il Quotidiano del Sud, sulla base dei dati del Dipartimento per le Politiche di Coesione voluto da Carlo Azeglio Ciampi

Bene se il raggiungimento degli obiettivi, che hanno fatto pagare la quinta rata, seguisse la stessa logica, sottovalutando il tema della territorialità, motivo per cui i vari Sala e Zaia non si lamentano più, sarebbe molto grave. 

Perché come al solito avremmo eluso il vero obiettivo che l’Unione si era data, quando per stabilire gli importi da destinare a ciascuno aveva utilizzato tre parametri: il tasso di disoccupazione, il reddito pro capite e la popolazione. 

È chiaro che la Commissione può essere disattenta rispetto ai divari territoriali, considerato che il solo vero Paese duale in Europa,  nel quale coesistono due realtà opposte,  é l’Italia, e che gli altri, che hanno problemi simili, hanno avuto sempre una considerazione estrema, come la Spagna e la Germania, delle loro realtà periferiche. 

Ciò non toglie però che l’Unione pagando le varie rate senza controllare la destinazione territoriale, come sembrerebbe stia facendo,  in realtà diventerebbe  complice del possibile fallimento  dello strumento, che invece di diminuire i divari li aumenterebbe. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud  – L’Altravoce dell’Italia]

TROPPE INFORMAZIONI ERRATE SUL SUD
CHE FAVORISCONO LE REALTÀ DEL NORD

di PIETRO MASSIMO BUSETTAEsiste una vulgata sul Sud  che propala informazioni errate. Da quelle relative a un Mezzogiorno che è stato inondato di risorse, a quella che elegge una classe dirigente inadeguata. 

Per il primo tema basta guardare i conti economici territoriali voluti da Ciampi per contestare tali affermazioni. Per il secondo tema si dimentica che si tratta spesso  di elezioni che individuano una classe dominante estrattiva, che non ha come obiettivo il bene comune ma quello di alimentare le proprie clientele. Ma ciò avviene con la collusione e il sostegno della classe dirigente del Paese, che ha interesse ad avere una classe ascara sulla quale fare riferimento per le tante esigenze.

Tale classe dominante, “che ha i voti”, al momento opportuno, si tratti delle pale eoliche o degli impianti solari, o negli anni sessanta di localizzare le raffinerie, costituisce la terza colonna pronta a dare una mano per gli interessi settentrionali. 

Classico “amico all’Avana”, che serve per sparigliare le carte quando si vuole dire no a un rigassificatore a due passi dalla valle dei Templi, o dare autorizzazioni per parchi eolici o per parchi solari utili ad un Nord energivoro. Uno schema tipo delle realtà colonizzate esistenti all’interno di un Paese, solo formalmente unito, ma in realtà spaccato in due per reddito procapite, per tassi di occupazione, per contributo all’occupazione dell’industria manifatturiera, per dimensione dell’industria turistica, per contributo all’export. 

In tal senso esiste un Partito Unico del Nord, che al momento opportuno si compatta per utilizzare anche all’interno dei diversi Partiti lo stesso schema, in cui la rappresentanze meridionali contano in modo molto contenuto se non inesistente. Quando si parla di responsabilità dei meridionali e della loro incapacità di scegliere una classe dirigente adeguata si dimenticano poi le responsabilità dello Stato centrale, che non ha investito adeguatamente nella formazione e nella scuola, consentendo una dispersione scolastica al 30%, oltre che una carenza di asili nido scandalosa e una discriminazione nella scuola del tempo pieno tale che al Nord esiste e al Sud è solo un’idea lontana o la mancanza di domanda di lavoro che porta a cercare vie alternative.

Controbattere tali fake in modo adeguato è estremamente complesso, in assenza di quotidiani  che abbiano diffusione nazionale, di televisioni che possano controbattere quelle che hanno sede e testa al Nord; in assenza del servizio pubblico che, visto che viene pagato per un terzo dal Sud dovrebbe ritornare  in cambio una informazione equilibrata, ma che viene gestito a favore delle realtà settentrionali, sia in termini di spot, per tutto ciò che accade nel Centro Nord, che in termini di opinione. 

Tale informazione parziale trova una colonna “armata” che mette in campo  una strumentazione scientifica importante, con professionalità di altissimo livello e che entra nel dibattito a gamba tesa per sostenere alcune posizioni che difficilmente i Centri di Ricerca del Sud, o le stesse Università meridionali, riescono a confutare. 

La difficoltà poi di mettersi contro spesso una Comunità Scientifica che trova nell’appoggio e nelle citazioni vicendevoli un punto di forza per affermare le proprie posizioni porta molti “sudici” a non  sbilanciarsi troppo, per non ritrovarsi in una isolata minoranza. 

Esempi recenti di tale approccio si verificano quando si parla di Autonomia Differenziata. L’esigenza di dare forza alle posizioni favorevoli porta alcune volte ad affermazioni a dir poco discutibili. Un esempio recente riguarda la posizione dell’Istituto Bruno Leoni che afferma in un suo editoriale recente: «Il dibattito sull’Autonomia Differenziata si sta facendo sempre più rovente. I suoi avversari hanno raccolto, nel giro di qualche settimana, centinaia di migliaia di firme per indire un referendum abrogativo della legge Calderoli».

«I critici dell’Autonomia raccontano un mondo che non esiste: le nuove disposizioni possono piacere oppure no, ma raccontarle come l’anticamera della secessione è semplicemente ridicolo… In particolare, l’autonomia non potrà determinare alcuna differenza nella distribuzione delle risorse economiche tra le regioni né darà luogo ad alcun cambiamento della ripartizione dei denari tra le regioni che accedono all’autonomia e quelle che non lo fanno. Questo è un punto fermo della legge Calderoli, che infatti prende le mosse dalla definizione dei Livelli essenziali di prestazione e affida a essi il ruolo di guida dell’intero processo…, fino a quel momento, si litiga sul nulla». 

Affermare in modo così apocalittico che  una parte dell’intellighenzia meridionale, che si è schierata contro, vive in un mondo irreale (un mondo che non esiste), offendendo pesantemente molti ricercatori seri che hanno preso posizioni (raccontarla come l’anticamera della secessione é semplicemente ridicolo), utilizzando termini che manifestano una spocchia ingiustificata, dimostra la sicurezza che l’avversario non ha gli stessi mezzi per difendersi.     

Affermazioni che non hanno alcun fondamento nemmeno nelle motivazioni leghiste che hanno portato all’approvazione della legge che invece sono molto chiare (né darà luogo ad alcun cambiamento della ripartizione dei denari tra le regioni che accedono all’autonomia e quelle che non lo fanno). 

Nel comunicato numero 733 del 30 aprile 2010 del portale della regione del Veneto il presidente Zaia affermava «Ogni anno almeno 50 miliardi di euro partono da Veneto, Lombardia, Piemonte ed Emilia Romagna – le regioni più virtuose – diretti al Sud Italia. Si tratta dell’85% del totale dei trasferimenti Nord – Sud. Il Veneto, da solo, spende annualmente non meno di dieci miliardi di euro per coprire i disavanzi nei bilanci delle regioni del Mezzogiorno. Risorse che, con il federalismo, potranno essere destinate a migliorare la vita dei veneti e di tutti coloro che responsabilmente, attraverso il loro lavoro, pretendono servizi pubblici adeguati».

«Il tasso di spreco medio – che al Nord resta sotto il 15% – cresce al Sud e nelle Isole fino ad arrivare al 50% in Sicilia, Calabria, Basilicata e Sardegna».

Anche sulle  altre affermazioni (Lep) ci sarebbe molto da ridire, ma quello che è manifesto e che in qualunque occasione il Sud è quel famoso vaso di coccio in mezzo ai vasi di ferro, che come scelta ha solo quello di farsi trasportare in maniera isolata altrimenti il suo destino è di rompersi. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]

IL PARADOSSO DEL SUD CHE MIGLIORA IN
REPUTAZIONE MA LA CRESCITA È BLOCCATA

di ERCOLE INCALZA – Una serie di comunicati stampa ha fatto presente un dato senza dubbio noto ma che non immaginavamo così preoccupante, mi riferisco alla sostanziale crescita del nord rispetto ad una stasi del Sud. Riporto sinteticamente il dato: il Mezzogiorno tra il 2007 ed oggi ha cumulato un differenziale negativo di crescita rispetto al Nord di 9 punti e questo ha fatto sì che il Prodotto Interno Lordo del Sud è ancora 7 punti sotto rispetto ai livelli che precedono la crisi del debito pubblico scoperta nel 2008. E, cosa ancora più preoccupante, è da ricercarsi nel fatto che il recupero integrale dello shock subito dal Paese sempre nel 2008 avvenuto con un ritardo di oltre dieci anni nel nostro Paese rispetto alla Germania e alla Francia riguarda solo il Nord.

Eppure in questi ultimi anni gli indicatori sulla occupazione nel Sud, sulle eccellenze imprenditoriali del Sud, sulla serie di interventi infrastrutturali attivati proprio nell’ultimo biennio dopo dieci anni di stasi, sulla crescita rilevante del comparto turistico e sulla forte impennata della produzione agro alimentare, lasciavano ben sperare.

D’altra parte questa nuova narrazione positiva del Sud era emersa in occasione del Festival Euromediterraneo di Napoli sia del 2023 che del 2024 e, senza dubbio, era ed è una narrazione vera in quanto questa serie di fattori aveva prodotto un aumento sostanziale della occupazione ma non aveva, in nessun modo, incrementato la partecipazione alla formazione del PIL da parte delle singole Regioni. Infatti, come ho ricordato più volte:

Le otto Regioni del Sud sono tutte all’interno dell’Obiettivo Uno della Unione Europea, cioè tutte hanno un PIL pro capite inferiore al 75% della media europea

Nessuna delle otto Regioni supera la soglia del 5% nella formazione del Pil nazionale. Il Pil pro capite nelle otto Regioni non supera la soglia dei 22 mila euro e addirittura in alcune si attesta su un valore di 17 mila euro; al Centro Nord si parte da una soglia di 26 mila euro per arrivare addirittura ad 40 mila euro.

Ma allora sicuramente ci sono delle cause o delle condizioni che bloccano la crescita del Mezzogiorno, cause che da sempre abbiamo cercato di scoprire ma che in modo quasi paradossale sono rimaste sempre rimaste all’interno di interessanti ricerche, di interessanti approfondimenti ma mai siamo stati capaci di misurare e, soprattutto, di leggere in modo trasparente; come ho ribadito più volte, dopo una diagnosi superficiale, abbiamo fatto sempre ricorso ad una terapia ridicola: quella basata su una assegnazione percentuale elevata, almeno il 30%, delle risorse assegnate dallo Stato per interventi infrastrutturali. Invece stiamo solo oggi capendo che questo assurdo paradosso: si cresce su alcuni comparti ma non si implementa il Pil, è legato ad una serie di elementi che questo Governo, proprio perché ha tutte le caratteristiche di essere un Governo di Legislatura, deve necessariamente affrontare; mi riferisco in particolare a: I Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP) all’interno delle otto Regioni sono indifendibili; per la offerta di servizi socio – assistenziali si passa da 22 euro pro capite in Calabria ai 540 euro nella Provincia di Bolzano. La spesa sociale del Sud è di 58 euro pro capite, mentre la media nazionale è di 124 euro.

Il livello di infrastrutturazione del Sud produce un danno annuale nella organizzazione dei processi logistici superiore a 58 miliardi di euro. Nelle otto Regioni esiste solo un interporto quello di Nola – Marcianise, nel Centro Nord ne esistono sette (interporti veri, vere eccellenze logistiche); Nelle otto Regioni esiste solo un porto transhipment, quello di Gioia Tauro, con una rilevante movimentazione di container; La distanza dell’intero Mezzogiorno dai mercati del Nord d’Italia e del centro Europa è un vincolo alla crescita per tutte le otto Regioni.

Di questi punti il primo, a mio avviso, rappresenta quello che sicuramente rappresenta la causa più incisiva di ciò che prima ho definito un folle paradosso perché, in realtà, i consumi delle famiglie del Sud e le attività legate anche a forme di risparmio sempre delle famiglie, sono sempre più limitati perché nelle varie attività i margini prodotti sono limitati ed inoltre questa crescita della produttività, non trovando adeguati Hub logistici, viene gestita da imprenditori del Nord veri attori chiave nella gestione delle attività logistiche ed in questo caso il Prodotto Interno Lordo (Pil) del Sud si trasforma in Prodotto Esterno Lordo (Pel), come ho ricordato spesso, del sistema imprenditoriale del Nord.

Ma, insisto, quei dati relativi alla offerta di servizi socio – assistenziali che in Calabria non supera pro capite la soglia di 22 euro pro capite e che nella Provincia di Bolzano si attesta su un valore di 540 euro o il dato relativo alla spesa sociale del Sud di 58 euro pro capite contro una media nazionale di 124 euro, producono un dato che rimane quasi fisso dal dopo guerra ad oggi (sì da oltre settanta anni): il reddito pro capite medio del Sud si attesta su un valore medio di 21.000 euro (negli anni sessanta era di17.000 euro) mentre nel Nord si attesta su un valore medio di 39.000 euro con soglie superiori ai 42.000 euro.

Di fronte a queste banali considerazioni ho più volte proposto che le otto Regioni del Sud utilizzino il comma 8 dell’articolo 117 della Costituzione che consente il ricorso a forme federative e chiedano, in modo coeso ed unitario, con la massima urgenza al Governo di affrontare e risolvere questa assurda discrasia che, da sempre, penalizza la crescita del Sud e, cosa ancor più strana, offre una immagine falsa dello stato socio economico del Mezzogiorno: di un Mezzogiorno che da settanta anni assicura una crescita di altre realtà del Paese. Con questo non voglio assolutamente denunciare il settentrione del Paese di “parassitismo”, voglio solo però fare presente che le azioni del Governo devono essere capillari e devono essere caratterizzate da un vero Action Plan, cioè da uno strumento che affronti contestualmente sia le carenze legate ai servizi offerti, sia la costruzione organica di reti e nodi capaci di ridimensionare la distanza dell’intero Mezzogiorno dai mercati del Nord e del centro Europa.

Lavorando in tal modo molti, in modo critico, diranno che si ricreano le condizioni definite da Gabriele Pescatore e da Pasquale Saraceno attraverso la istituzione della Cassa del Mezzogiorno, io ritengo che aver spento un simile strumento è stato a tutti gli effetti un atto incomprensibile ed irresponsabile che, a mio avviso, ha danneggiato molto di più lo stesso sistema economico ed imprenditoriale del settentrione del Paese. (ei)

AMICI DEL NORD, LA BATTAGLIA CONTRO
L’AUTONOMIA È DA COMBATTERE INSIEME

di MIMMO NUNNARICarissime amiche e carissimi amici del Nord dobbiamo fermarci prima del precipizio che abbiamo davanti, non solo chi vive al Sud ed è “meridionale con difficoltà”, come diceva Sciascia con riferimento alla Sicilia, perché il Sud è notoriamente terra di contrasti e contraddizioni e il popolo è un popolo che soffre, perché dominato da secoli, lasciato ai margini della comunità nazionale per colpe che non conosce, e patisce insieme all’assedio mafioso soffocante di un deficit civile di proporzioni altissime, conseguenza principalmente del vivere senza gli stessi diritti e opportunità dei connazionali dei territori del Nord.

Il precipizio nel quale rischiamo di cadere tutti, per una serie di ragioni interne: scarsa competitività, corruzione, invecchiamento della popolazione, inefficace politica di rilancio economico, ma anche esterne – declino globale, allontanamento dall’etica e dalla morale che da anni permea la società occidentale – riguarda anche voi, che che state al Nord, e in teoria avreste meno problemi dei meridionali, almeno materiali.

La vostra situazione è la situazione non buona dell’Italia degli ultimi decenni nascosta come la polvere sotto il tappeto, che nel 1992, in un saggio che ho avuto l’onore di scrivere insieme al cardinale Carlo Maria Martini e all’arcivescovo Giuseppe Agostino [“Nord Sud l’Italia da riconciliare” edizioni Paoline], l’allora arcivescovo di Milano impietosamente così: «Siamo di fronte ad una società percorsa da forze dissolutrici, gravemente intaccata da corruzione e illegalità, sovente incapace di trovare le vie di una vera convivenza civile; e il pericolo è di credere che tutto sia così, che tutto sia marciume, che non ci sia più alcuna forza positiva, che manchino le persone oneste e capaci». 

È un ritratto, quello fatto da Martini trent’anni fa, purtroppo ancora attuale. Abbiamo tutti perciò un problema, al Nord e al Sud, ma voi al Nord ne avete uno in particolare, che vi deve far riflettere, e riguarda la qualità della classe politica settentrionale ormai da molti anni pessima.  Spesso il Sud vi serve come alibi per non parlare della vostra classe politica impresentabile, specchio della vostra indifferenza, non certo della vostra cultura e intelligenza. Di quella del Sud sappiamo: è suddita, nel senso che pensa che i diritti debbano arrivare per elemosina, è portatrice insana di consensi elettorali, per convenienza personale, un incarico, una prebenda. 

Ma che sia scarsa la classe politica del Nord è qualcosa davvero difficile da spiegare non solo all’Italia ma anche all’Europa. Perché se il Nord che ha le migliori Università, una ricerca eccellente, una buona sanità, un’impresa che vola in alto,  un diffuso benessere, esprime una classe dirigente mediocre, scarsa, qualche problema c’è. E quando parliamo di mediocrità non parliamo dell’aurea mediocritas, che per i latini aveva una connotazione positiva, significava stare in una posizione intermedia tra l’ottimo e il pessimo, tra il massimo e il minimo, ed esaltava il rifiuto di ogni eccesso, ma parliamo di quella poco lucente mediocritas simbolo di ignoranza, di vuoto a perdere, che invade ogni sfera della vita sociale.

Prendo in prestito la battuta di un caro e illuminato amico del Nord (ne ho tantissimi) che a proposito di cultura costituzionale mi dice sconsolato: «Siamo passati da Calamandrei a Calderoli». Calamandrei, giurista, scrittore e uomo politico ha lasciato pensieri profondi: «La libertà è come l’aria. Ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare». Frase che pronunciò nel suo celebre discorso sulla Costituzione agli studenti di Milano del 26 gennaio 1955. Di Calderoli, chirurgo maxillofacciale, triumviro della prima Lega e più volte ministro, la frase che probabilmente sarà tramandata ai posteri sarà: «La legge elettorale? L’ho scritta io, ma è una porcata». Outing, fatto da Enrico Mentana durante la trasmissione Matrix, che poi Calderoli spiegò meglio: «…Una porcata, fatta volutamente per mettere in difficoltà destra e sinistra, che devono fare i conti col popolo che vota».

Qualche domanda lassù al Nord dovreste farvela, per capire in che mani siete finiti. Potreste rileggere per fare un esame di coscienza un testo teatrale di Marco Giacosa, dedicato ai fratelli Terroni che votano: «Vent’anni fa ci furono i gazebo per l’indipendenza della macro-regione del Nord, si dibatteva se un marchigiano era un terrone e andava fatto affondare nei debiti della sanità, o salvato nella gloriosa Padania…. Secondo me, terroni, dovreste vergognarvi a votare Salvini. Almeno quanto noi del Nord, certo… Ma voi, terroni, Salvini proprio no. Comunque, contenti voi». Si parlava in quel testo breve di teatro a nuora (Sud) perché suocera (Nord) intendesse.

Ecco, siamo ancora fermi lì, ad arrovellarsi su quanto bisogna vergognarsi al Sud a votare Salvini, ma anche a ragionare su come abbia fatto il Nord a sperperare il patrimonio di cultura, competenza e dignità, ereditato dai giganti della politica che hanno operato nel dopoguerra. Pensiamo, per fare un solo esempio, non alle prime file, ai grandi leader, ma al lavoro intelligente di quanti hanno pensato, scritto e attuato programmi sociali ed economici per la nuova Italia nata dalla Resistenza, come gli economisti valtellinesi Ezio Vanoni, Pasquale Saraceno, Sergio  Paronetto, Tulio Bagiotti, Bruzio Manzocchi;  alcuni dei quali – come Saraceno – concepivano il problema dell’unificazione economica dell’Italia anzitutto come una questione etico-politica. Saraceno, pensava che l’obiettivo del superamento del divario tra il Nord e il Mezzogiorno chiamava in causa responsabilità dello Stato, e che il permanere del divario poteva alla lunga riflettersi negativamente sulla stessa unità nazionale, con conseguenze che potevano risultare esiziali anche dal punto di vista politico e degli equilibri sociali.

Il suo era un pensiero profetico. Come il Nord abbia potuto dimenticare quelle pagine gloriose per arrivare alle rappresentazioni di oggi bisognerebbe studiarlo, interrogarsi su come sia potuto accadere. Cari amici del Nord la battaglia contro l’Autonomia differenziata bisogna dunque combatterla assieme. La sfasatura del dualismo Settentrione Meridione, pesa, in maniera preoccupante, e dietro l’angolo c’è il caos, cioè il disordine, il disorientamento. L’Autonomia è una via di fuga dalle responsabilità, irresponsabile e pericolosa. Le guerre civili sono nate a volte per cause imponderabili. La soluzione è la riconciliazione del Paese, non una spaccatura ulteriore.

È l’unica strada percorribile la riconciliazione in questa fase di fragilità della storia italiana. E Il primo banco di prova per quest’Italia debole e smarrita è il “No” all’Autonomia voluta dal Governo Meloni che definire antipatriottico e antiunitario è il minimo. (mnu)

PUR AVENDO INGRANATO LA MARCIA GIUSTA
IL MEZZOGIORNO FA I CONTI COL DIVARIO

di LIA ROMAGNO – C’è un Mezzogiorno che ha ingranato la marcia, guida la crescita del Paese – +1,3% il Pil nel 2023, a fronte dello 0,9% del Paese (nel Settentrione il +1% del Nord Ovest è il valore più alto) – e dà il contributo maggiore all’aumento dell’occupazione (+2,5% contro +1,8 la media italiana, +2% il Nord Est).

E c’è un Mezzogiorno che continua a fare i conti con divari che lo lasciano ancora lontano da quel Centro Nord su cui ha segnato il sorpasso. I numeri dell’Istat certificano l’uno e l’altro scenario. Sul gap territoriale, in particolare, l’Istituto ha puntato i riflettori in occasione dell’audizione in Commissione alla Camere nell’ambito dell’Attività conoscitiva sull’attuazione e sulle prospettive del federalismo fiscale. Dal reddito pro capite alla sanità, dall’accessibilità alle scuole agli asili nido e ai servizi di assistenza, dai trasporti all’erogazione dell’acqua la disparità tra le due Italie resta ancora grande – e il solco è destinato a diventare ancora più profondo con l’attuazione dell’autonomia differenziata -. Molte di queste voci spiegano anche il declino demografico che al Sud è più marcato che altrove, un dato su cui incidono le migrazioni interne, ovvero le partenze in cerca di fortuna al Nord: -4,7% a fronte del “trascurabile” – 0,3% del Centro Nord, -1,8% il dato italiano.

Pil e Reddito pro capite

La distanza la misura intanto il Pil pro capite che – come emerge dalle stime dei Conti territoriali del 2022 – nelle regioni del Nord Ovest è circa il doppio di quello del Mezzogiorno: 40,9mila euro contro 21,7mila euro: 11,3mila sotto la media nazionale che è pari a 33mila euro. Nel 2007 la differenza tra il dato meridionale e quello nazionale era pari a 9mila euro, segno, sottolinea Stefano Menghinello, direttore della Direzione centrale dell’Istat per l’analisi e la valorizzazione nell’area delle statistiche economiche e per i fabbisogni del Pnrr, che “le distanze tra il Mezzogiorno e il resto del Paese si sono ampliate”.

Nel Nord Est e nel Centro il Pil pro-capite è, rispettivamente, 39,3 e 35,1mila euro. In cima alla classifica la Provincia autonoma di Bolzano con 54,5mila euro. All’estremo opposto la Calabria con 19,4mila euro, un gradino più su la Sicilia con 20,1mila euro. Il Rapporto annuale 2024 mostra poi come negli ultimi 20 anni non ci sia stato un processo di convergenza dei territori italiani, quelli più svantaggiati soprattutto, verso il dato medio della Ue: tutti tra il 2000 e il 2022 hanno sperimentato tassi di crescita del Pil pro capite in parità di potere d’acquisto (Ppa) inferiori al dato europeo. La fotografia non cambia se si prende in considerazione il reddito disponibile delle famiglie: la media nazionale è pari a 21,1mila euro per abitante, le regioni del Nordovest raggiungono i 24,8mila euro contro un valore di 16,1mila euro nelle regioni del Mezzogiorno. La Provincia di Bolzano e la Lombardia vantano i differenziali positivi maggiori rispetto alla media (+7,4mila e +4,5mila euro), Calabria e Campani quelli negativi maggiori (-6,1mila euro e – 5,7mila euro).

Ospedali e Scuole

Se guardiamo all’accessibilità di servizi essenziali, come gli ospedali e le scuole, emerge che in Calabria, Basilicata, Molise, Sardegna, ma anche in Valle d’Aosta una quota di popolazione tra il 5,2% e il 20,3% impiega oltre 30 minuti per raggiungere una struttura ospedaliera. Divari tra Centro Nord e Mezzogiorno si rilevano anche per l’accessibilità degli edifici scolastici. Per il Mezzogiorno si osserva sia una maggiore consistenza di scuole con un livello critico di raggiungibilità (36,4% contro 19,5%), sia di scuole che possono essere raggiunte solo con il ricorso a mezzi di trasporto privati (20,9% contro 13,2%).

La qualità dei servizi

Una spaccatura profonda emerge anche dall’analisi degli indicatori Bes (Benessere equo e sostenibile) al dominio “Qualità dei servizi” che hanno per oggetto servizi d’interesse per l’attuazione del federalismo fiscale. Cominciamo dal servizio idrico. Calabria e Sicilia sono le regioni con i valori peggiori, le famiglie che dichiarano irregolarità nell’erogazione dell’acqua in Calabria (38,7%) superano di oltre quattro volte la media nazionale e in Sicilia il valore è più che triplo (29,5%); all’opposto si colloca la provincia autonoma di Bolzano, dove solo l’1,5% delle famiglie denunciano interruzioni del servizio idrico.

Una forte variabilità a scapito del Mezzogiorno si registra anche per l’accesso ai servizi essenziali per il cittadino: in Campania la quota di famiglie che hanno difficoltà ad accedere ai servizi essenziali è quasi doppia rispetto alla media delle famiglie italiane (8,8% rispetto a 4,9%), seguite dalle famiglie residenti in Calabria (7,7%) e in Puglia (7,1%); all’estremo opposto, tali difficoltà sono dichiarate solamente dal 2,5% delle famiglie della provincia autonoma di Bolzano Le regioni del Nord godono di migliori livelli di benessere anche per gli indicatori di mobilità, sia in termini di offerta di trasporto pubblico locale (Tpl) sia per la soddisfazione della domanda. Ad esempio, l’offerta di Tpl in Lombardia è più del doppio del dato nazionale, in Molise quasi 12 volte più bassa.

Per i servizi socio-sanitari e socioassistenziali la Campania, con 19,5 posti letto residenziali per 10.000 abitanti, si posiziona all’ultimo posto della graduatoria regionale (-70% di posti letto rispetto al dato Italia) mentre la provincia autonoma di Trento, con 152,8 posti letto per 10.000 abitanti, si attesta al primo posto.

Spesa per il Welfare

Importante anche il divario nella spesa per gli interventi e i servizi sociali (8,4 miliardi, di cui 1,3 per asili nido e servizi per la prima infanzia). Un tema centrale per il federalismo fiscale. Nel Sud la spesa pro-capite per il welfare territoriale è di 72 euro, al Centro 151, al Nord Ovest 156, Nord Est 197. A livello regionale le differenze sono ancora più marcate: in Calabria e Campania, ad esempio, la spesa è pari rispettivamente a 37 e 66 euro pro-capite, in Provincia Autonoma di Bolzano, 592 euro. Capitoli servizio sociale professionale e asili nido. Nel 2021 sono stati presi in carico dagli assistenti sociali oltre 2,185 milioni di utenti. Si va da un minimo di 2 su 100 abitanti al Sud a un massimo di 5 nel Nord Est, a fronte di una media nazionale di 4 utenti. Quanto agli asili nido nel Sud e nelle Isole (17,3 e 17,8 posti per 100 bambini residenti) la disponibilità pro capite è circa la metà di quella delle regioni del Nord (37,5 nel Nord Est, 35 nel Nord Ovest, 38,8 nel Centro). La spesa dei Comuni per i servizi di prima infanzia “varia notevolmente”, sottolinea Menghinello: in media per ogni bambino sotto i tre anni i comuni del Centro hanno speso 1.803 euro al Centro, 1.728 al Nord-est, 1.091 euro al Nord-ovest, 470 euro nelle Isole e 417 euro al Sud (1.116 euro la media nazionale). Per i servizi destinati agli anziani al Nord Est la spesa pro capite è quattro volte di più che al Sud: 166 a 38; 91 euro nel Centro, 85 nel Nord Ovest, 63 nelle isole.

Risorse per la sanità

Per il Servizio sanitario nazionale le Regioni nel 2022 hanno potuto contare – in termini di finanziamento effettivo – su 127,5 miliardi di euro, con un aumento medio dal 2017 dell’1,8%. Dall’analisi  regionale emergono “discrete differenze” in termini di risorse economiche disponibili: Emilia-Romagna e Liguria sono le regioni con il finanziamento pro capite più elevato, rispettivamente 2.298 e 2.261 euro. In generale i livelli più bassi di finanziamento effettivo si riscontrano nelle regioni del Mezzogiorno, in particolare in Campania e Sicilia, con 1.994 e 2.035 euro pro capite. (lr)

(Courtesy Il Quotidiano del Sud / L’Altravoce dell’Italia)

IL MEZZOGIORNO MAI PIÙ “PALLA AL PIEDE”
PER LA CRESCITA E LO SVILUPPO DEL PAESE

di PIETRO MASSIMO BUSETTA –  Questo stato di cose non durerà; la nostra amministrazione nuova, agile, moderna cambierà tutto. Così Chevalley si rivolge al Principe di Salina Don Fabrizio, che non vuole accettare l’offerta del Regno di diventare senatore e che manifesta tutte le sue perplessità sul nuovo corso prospettato dai nuovi regnanti.

Era il 1860 e da poco i mille garibaldini, aiutati dalle baronie che volevano liberarsi dai Borbone e dagli Inglesi che non volevano competitori nel Mediterraneo, avevano “liberato” il Meridione d’Italia. Vi credevano invece i “ picciotti” e i “cafoni” che rimarranno delusi da promesse che non si avvereranno. 

Dopo la seconda guerra mondiale, con la sconfitta e la distruzione di molte parti del Paese e  qualche dubbio sulla correttezza della conta del verdetto, si ha la Repubblica. Un ragazzo napoletano, dopo le votazioni, chiedeva al nonno, noto monarchico borbonico, come mai avesse votato per la Repubblica. E il nonno rispose deciso: cosi ci siamo liberati dai Savoia.  

E nasce quella Repubblica fondata su una Costituzione che afferma nel suo incipit: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. 

Sappiamo come è andata. Potremmo dire che tale assunto é simile a quello della pasta con le sarde dei poveri di Palermo. Chiamata pasta con le sarde …a mare. Nel senso che le sarde non le potevano comprare e mettevano lo stesso condimento nella pasta senza le sarde. L’Italia diventa una repubblica fondata sul lavoro… all’Estero o al Nord per quanto attiene il Sud.  

Ma il discorso è analogo per tutti i diritti di cittadinanza. L’unificazione politica risale al 1860, quella economica non è ancora avvenuta. E l’approccio più recente di chi ci governa è quello di statuire che tutto questo si può costituzionalizzare con l’autonomia differenziata, che in realtà si potrebbe chiamare “chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato”.  

Perché la teoria del mantenere le risorse nelle Regioni che le incassano presenta molti limiti. A parte tutta la problematica del soggetto che alla fine paga le tasse vi è il grande contributo dato dal Sud alla cosiddetta locomotiva, dal piano Marshall in poi.  

In termini di risorse, concentrate tutte in una parte, destinataria di grandi interventi per esempio per l’Autostrada del Sole e l’Alta Velocità Ferroviaria, al grande apporto di 100.000 persone all’anno formate trasferite al Nord, con un costo per le Regioni di provenienza di 20 miliardi l’anno. Alla spesa storica che prevede ogni anno un trasferimento dal Sud verso Nord di oltre 60 miliardi, se l’attribuzione pro capite fosse uguale. E al contributo culturale a un Paese repubblicano che diventava protagonista della nuova Europa, voluta da Spinelli, rilanciata da Ventotene.  

Non si sono fatti tanti sacrifici, anche umani, per consentire a pochi furbetti del quartierino senza visione  di spaccare il Paese tenendo il malloppo accumulato negli anni, investito nei grandi trafori, nel Mose di Venezia, nella Tav da completare, nella infrastrutturazione complessiva fatta per consentire alla locomotiva di correre con le risorse della fiscalità generale.       

Che tanto, era nella convinzione di molti, avrebbe trainato tutto il resto. Adesso che la locomotiva si é fermata e accumula ritardi incredibili rispetto ai grandi Paesi europei qualcuno ha pensato bene di sganciare i vagoni, perché ritiene che sono quelli che rallentano la corsa, non capendo che invece serve una seconda locomotiva che spinga da dietro tutto il convoglio.  

Solo degli inadeguati possono pensare che un Paese possa competere lasciando il 40% del territorio e il 33 % della popolazione fuori dal circuito produttivo. Lo ha capito così bene la Germania che ha riversato un mare di marchi nella ex Ddr, da avviare a soluzione un problema incancrenito da decenni di comunismo. 

Lo avevano capito prima gli Stati Uniti d’America che hanno fatto diventare la California una realtà produttiva importante. E invece noi ci accontentiamo di avere una colonia interna, che poco produce e poco dà a tutto il Paese, lasciandola nella mani di una classe dominante estrattiva locale, con la quale si è stabilito un accordo scellerato che tiene il Sud in una condizione di sottosviluppo.  

Per questo la Repubblica è stata tradita, per questo i meridionali sono stati gabbati con la promessa di uno Stato nel quale essere cittadini alla pari di tutti gli altri.

Per questo è necessario un cambio di passo per completare l’unificazione del nostro Paese. Il Presidente della Repubblica, che rappresenta l’unità nazionale, queste cose le ha dette nell’ultimo periodo molto decisamente. Ma bisogna che se ne rendano conto anche i Ministri che spesso più che giocatori della squadra Italia sembrano appartenere a un un team virtuale che si chiama Nord. 

Adesso che il Mediterraneo è ridiventato sempre più centrale, ci si rende conto che una parte ha bisogno dell’altra, così come l’Europa ha bisogno dell’Africa. Ma non in termini estrattivi, ma per moltiplicare con la collaborazione i risultati desiderati. Riuscire a capire che il gioco può prevedere che si perda tutti o che si vinca la battaglia insieme non è né semplice né scontato, ma è assolutamente necessario. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]

IL PAESE CRESCE MA IL SUD S’IMPOVERISCE:
IN 20 ANNI PERSI QUASI 1 MLN DI RESIDENTI

di PIETRO MASSIMO BUSETTA –  Quasi un milione  in meno nel Sud, dal 2004 al 2024, in un Paese che complessivamente cresce nello stesso periodo  di poco più di un milione di residenti. Crescono infatti tutte le ripartizioni tranne Sud e Isole. 

 Le regioni più esteticamente dinamiche la Lombardia, ( +847.000), il Lazio (+534.000), il Veneto (+229.000), l’Emilia-Romagna (+375.000); quelle più penalizzate la Sicilia (-183.000), la Puglia (-144.000), la Campania(-141.000). 

Dicevo esteticamente dinamiche perché il loro tasso di crescita è sempre molto basso e l’aumento della loro popolazione deriva da una forma di cannibalismo nei confronti del sud del Paese, che nasconde il problema importante di una realtà  in declino. 

Le motivazioni che stanno alla base della decrescita delle due parti non sono totalmente differenti. In realtà vi è una base comune ed è la mancanza di politiche attive per la famiglia, che rendono la procreazione non un interesse collettivo ma esclusivamente un bisogno del singolo, che poco interessa alla società. 

Politiche attive totalmente dimenticate e che ci rendono differenti dagli altri grandi paesi europei. Francia, Gran Bretagna e Italia che  fino a qualche anno fa avevano la stessa popolazione. Oggi le altre due cugine si avviano verso i 70 milioni, anche per una maggiore presenza di extracomunitari, mentre noi ci discostiamo sempre più dai 60 milioni raggiunti nel 2010( 60.626. 000). 

Capire che la famiglia non è solo un bene dei singoli ma anche un bene collettivo è un passaggio che solo recentemente ha  cominciato ad essere un pensiero condiviso. Fino a soli pochi anni fa sembrava che lo Stato dovesse essere indifferente alle nascite  e quindi non dovesse assistere e proteggere le coppie nella fase procreativa.  

Con lo sviluppo economico, come accade in tutti i paesi del mondo, si pensi che addirittura in Cina hanno legiferato per imporre alle famiglie un solo figlio quando erano poveri, sono cominciate a diminuire le nascite. Per cui tutti i paesi occidentali, industrializzati, hanno cominciato con politiche di protezione delle famiglie e di assistenza alle giovani coppie per incoraggiarle a procreare. 

Tra tali provvedimenti vanno ovviamente compresi quelli relativi alla disponibilità di posti pubblici  negli asili nido, che  aiutano le famiglie a crescere i figli con costi più contenuti, e che al Sud sono stati sempre molto carenti. 

Per fortuna con il Pnrr, modificato recentemente,  adesso gli asili nido non dovrebbero andare più al bando, come era stato previsto nella prima fase, ma come é corretto le nuove strutture vengono assegnate alla realtà che ne sono più carenti, cioè inferiore al livello essenziale di prestazione fissato dal 2022 a 33 posti ogni 100 bambini di età 3-36 mesi. Finalmente un provvedimento che recupera 735 milioni di euro e li mette a disposizione di 401 Comuni, con l’obiettivo di realizzare oltre 30mila nuovi posti.

Al Sud ai tassi di fecondità, che andavano diminuendo, e che portavano a una diminuzione delle nascite si é  aggiunto l’effetto dei tassi di emigrazione,  che sono progressivamente aumentati. 

Ogni anno ci dice la Svimez che 100.000 mila ragazzi formati, con un costo complessivo per le realtà di riferimento di oltre 20 miliardi, vanno via dal Mezzogiorno, con un “regalo” a carico delle realtà regionali meridionali, che si ritrovano a dover affrontare i costi che vanno dalla procreazione fino al momento in cui i ragazzi diventano produttivi, per poi regalare il frutto di tanti sforzi alle regioni settentrionali e spesso anche a molti altri paesi comunitari, che offrono condizioni complessive di diritti di cittadinanza più interessanti. 

D’altra parte pensare di trattenere i giovani nelle loro realtà di provenienza quando non trovano lavoro, non hanno un diritto alla mobilità, né ad una sanità adeguata ,diventa impossibile. 

Non si vive di solo sole, mare e aria pulita. Complessivamente il Paese, pur avendo discreti incrementi nelle regioni settentrionali, perde peso all’interno dell’Unione Europea sia in termini demografici che di conseguente Pil prodotto. 

Ma è un ragionamento che parte dal Nord, che poi è la  classe dirigente che indirizza il nostro Paese, che non riesce a capire e che pensa di salvarsi guardando al proprio giardino di casa, esaltando una loro supposta etnia di Veneti o di Lombardi o di Emiliani Romagnoli, con la ricerca di un’autonomia differenziata che pensano potrà salvarli, non capendo che in realtà il processo sul quale siamo incamminati fa affondare tutti. 

La risposta vera al declino demografico del nostro Paese va data su due piani: il primo è quello di politiche attive per la famiglia che rendano la procreazione una gioia così come dovrebbe essere e non un impegno economico che la impoverisce.

Il secondo piano è quello relativo ad un migliore equilibrio economico che aiuti i giovani meridionali a rimanere nelle loro realtà, dove peraltro hanno una rete familiare di aiuti, costituita anche dai nonni.

L’occasione del Pnrr, che è stata data al nostro Paese fondamentalmente per diminuire i divari, malgrado una vulgata interessata che tenta con azioni conseguenti di distorcere gli obiettivi per riportare le risorse alla, una volta chiamata, locomotiva del Paese, costituita dall’apparato Tosco, Emiliano Romagnolo, Lombardo, Veneto, va, con azioni simili a quella recente sugli asili nido, che supera le difficoltà dell’amministrazione periferiche meridionali.

Oltre che a fare in modo di potenziare le tre gambe su cui dovrebbe basarsi lo sviluppo del Mezzogiorno costituite dalla logistica, dal manifatturiero e dal turismo, in modo da offrire a molti più giovani la possibilità di un progetto di vita, eliminando la tentazione sempre presente di essere estrattivi rispetto ad un territorio che, grazie anche agli ascari abbondanti presenti, non riesce a difendersi adeguatamente. 

Guardare al positivo che nasce non ci deve far dimenticare che i problemi strutturali sono talmente rilevanti e riguardano un territorio così ampio che il rischio della sindrome delle eccellenze, che vanno adeguatamente raccontate e valorizzate, può diventare estremamente pericolosa. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]

 

IL SUD TRADITO DAI SUOI PARLAMENTARI
PER L’AUTONOMIA LA LOTTA SARÀ LUNGA

di PINO APRILE – La trappola in cui il Paese si è messo da solo, il progetto scellerato dell’Autonomia differenziata, è approdato alla Camera dei deputati, dopo aver incassato l’approvazione del Senato, grazie alla quinta colonna terrona nella maggioranza di governo, che ha votato contro il Sud. Non uno di loro ha avuto un residuo conato di dignità che gli permettesse di ricordare in nome e per conto di chi siede su quei banchi (e se poi il partito lo punisce non ricandidandolo, chi glieli ridà ventimila euro al mese?). Se dei parlamentari del Sud dovessero sostenere (ce ne sono) di aver votato contro la loro gente “secondo coscienza”, stessero attenti, che se uno speleologo riuscisse a rintracciarla, la coscienza, potrebbe denunciarli per diffamazione.

E non c’è da aspettarsi sorprese positive dai deputati meridionali di maggioranza. Né avveniva qualcosa di diverso, quando la maggioranza era un’altra: il più acceso pro Autonomia differenziata era il presidente dell’Emilia Romagna, Stefano Bonaccini e, nel suo Pd, chi azzardava distinguo, era di fatto messo a tacere; l’allora segretario nazionale Letta prometteva ai veneti più Autonomia differenziata della Lega.

Cchiù pila (‘a pila, in Calabria, sono i soldi) p’ tutti! E poi Fassino, e tanti altri. In tutti i partiti (pure qualcuno nella Lega) c’è la consapevolezza che l’Autonomia differenziata sfascerà definitivamente il Paese, creerà tali e tanti scontri, che sarà impossibile continuare a tenerlo unito, sia pur così fintamente e malamente come è stato finora. Il folle disegno di legge di Calderoli (noto produttore di porcate, come lui stesso ammise, per la riforma elettorale; esternatore di bordate razziste contro i meridionali; autore di gesti clowneschi, come il falò delle leggi inutili a cui furono costretti, perché lui ministro, incolpevoli vigili del fuoco), quel folle disegno, dicevo, porterà alle stelle, nel nostro Paese, le disuguaglianze. Gli studiosi di questa branca dell’economia mostrano che, non importa con quali regimi, quando il livello delle disuguaglianze supera quota 40 nella scala del coefficiente di Gini (che le misura), è la violenza a ridurle: terrorismo, sommosse, colpi di stato, rivolte, guerre civili, rivoluzioni. Esagero? Il terrorismo lo abbiamo già avuto e stagioni di grandi disordini (vedi la lunga battaglia per le terre usurpate) pure.

E l’Italia è già il Paese, con Stati Uniti, Gran Bretagna, in cima alla classifica per disuguaglianze (ci ho scritto un libro su: Tu non sai quanto è ingiusto questo Paese). L’Autonomia differenziata porterà le disuguaglianze fuori controllo. E cosa avverrà dopo è immaginabile. Chiudere gli occhi, liquidare il rischio con un giudizio di timori eccessivi sventolati da chi non vuole la delittuosa riforma (perché clamorosamente incostituzionale), è gettarsi la questione alle spalle, per non affrontarla. Ma pur di imbarcare i voti tossici della Lega (dai cinquestelle a Draghi, con dentro pure il Pd, e ora Meloni), le si è consentito di portare avanti questo scempio, con il retropensiero di farlo arenare prima o poi (lo stesso Salvini sospettato di questo, nel partito) e adesso ci si rende conto che si è superato il punto di non ritorno e ci si trova con una bomba con la miccia accesa fra gambe. Persino molti dei peggiori sostenitori di questa porcheria sanno che sarà un disastro o, nella migliore delle ipotesi, un salto nel buio. Ma hanno promesso troppo, per troppo tempo, e non possono tornare indietro, devono tenere il piede sull’acceleratore, pur sapendo che si va contro un muro.

L’Autonomia differenziata è una mossa disperata del Nord: si sono venduti tutto, pure le squadre di calcio e reggono il livello di vita saccheggiando le casse statali con ogni scusa, Expo, Olimpiadi invernali, autostrade inutili o dannose (dalla Brebemi alle Pedemontane lombarda e veneta) e opere pubbliche che hanno il solo compito di continuare a succhiare soldi (vedi il Mose), pure le avversità atmosferiche, dalla siccità, se non piove per tre giorni, all’alluvione, se piove per tre giorni. Ora fanno pure pagare il biglietto per entrare a Venezia, dove l’acqua alta porta indennizzi milionari (le inondazioni a Sud, solo danni). Il gioco di far rimbalzare a Nord i soldi nazionali ed europei destinati al Mezzogiorno, non regge più, perché è stato così esasperato, che i terroni hanno mangiato la foglia della “spesa storica” e ora si vuol rendere il furto “costituzionale”. Come legalizzare le rapine, se i rapinatori sono scoperti. La fregatura è incartata bene con la parola “Autonomia”, tanto da far dimenticare quella che segue: “differenziata”. Che tradotto è: ognuno fa i cavoli suoi, ma non alla pari, a me sempre più, quasi tutto, e a te sempre meno, quasi niente.

I colonizzati mentali del Sud, persino qualcuno in buona fede (il che spiace), dicono che il Sud, con l’Autonomia, potrà giocare la sua partita. Ma “differenziata”, vuol dire che le Regioni più ricche (con i soldi di tutti) scendono in campo in 33 contro 11 (forse), l’arbitro e i segnalinee comprati, e poi “Vinca il migliore”. La posta in gioco però resta quella: la cassa comune. Le Regioni più ricche vi infileranno le mani prima, con l’Autonomia differenziata, e porteranno via gran parte del malloppo “legalmente” (oggi, per fotterne meno, devono ricorrere a trucchi vari). E non lasceranno manco gli occhi per piangere. I complici meridionali in Parlamento (fatti salvi pochi in buona fede, ma la fede par di capire sia l’unica cosa buona, se ci credono) ripetono a pappagallo le puttanate che la Lega spaccia da decenni: “Così anche il Sud dovrà darsi una classe dirigente più responsabile”.

Sì, e sarà tre volte Natale. Da dove spunterebbero ‘sti dirigenti miracolosamente pronti grazie a un ulteriore furto di risorse meridionali? E come sarebbero: come Roberto Formigoni o Giancarlo Galan e quindi vedremo pure loro in galera? O come i dirigenti leghisti che mirano al Guiness dei primati di condannati e inquisiti e hanno fatto sparire 49 milioni persino dalla cassa del partito? O come il presidente della Lombardia, Attilio Fontana, e il suo ex assessore alla Sanità che hanno gestito così bene la pandemia, da fare della loro regione la peggiore al mondo, nella circostanza? Ma di che parlano? “Gestiremo le nostre risorse”, si illudono.

Già, perché fanno tutto ‘sto casino per rubartele e poi te le lasciano? Succederà come già avviene per l’energia, il petrolio: quello che è del Sud diventerà “nazionale” (magari pure le spiagge, i beni archeologici, la mozzarella di bufala se la sono quasi presa e così via sino alle orecchiette e cime di rapa) e quello che è del Nord, è del Nord. Contrattare con questi razzisti e loro complici, per poi vantarci di aver ottenuto che la catena che ci mettono al collo è più lunga e quindi siamo più liberi? E farci dire, quando la bestialità di un apartheid all’italiana mostrerà i suoi effetti: “Ma c’eravate anche voi, lo abbiamo deciso insieme!”.

Sullo scempio di questa legge hanno lanciato i loro allarmi l’Unione europea, la Corte dei Conti, i maggiori costituzionalisti, la Banca d’Italia, l’Ufficio parlamentare del Bilancio, Confindustria, Ordini professionali come quello dei medici, sindacati e dirigenti della scuola, l’Associazione dei sindaci del Sud, la Svimez, le maggiori università, la Conferenza episcopale… Eh, ma Calderoli dice… Ah, be’, allora, se l’ha detto lui, sotto processo per razzismo, esponente del partito che ha il segretario nazionale condannato per razzismo contro i napoletani, che invia “governatori” leghisti a tenere per le redini i pur proni dirigenti terroni e quando dei giovani leghisti lucani (Padre perdona loro. O falli neri, ch’è meglio) osarono obiettare qualcosa, il gauleiter padano in terra infidelorum minacciò: «Vi piscio in faccia». Contenti loro: “la pioggia dorata”.

Ricordate il detto: “E gli alberi votarono per l’ascia, perché aveva il manico di legno”? Da lunedì 29, alla Camera, è cominciata la discussione sull’Autonomia differenziata. Ci si aspetta che l’opposizione si opponga. Sotto osservazione, quindi, ci saranno i parlamentari meridionali della maggioranza. Racconteremo ai loro elettori cosa faranno (hanno già votato un ordine del giorno per far pagare meno gli insegnanti al Sud). Se volete fare le porcherie, metteteci la faccia. E se non lo fate voi, lo faremo noi del Movimento Equità Territoriale (Met), perché chi vi ha eletto, sappia. Dovreste esser contenti che si sappia, se convinti di aver fatto bene. In caso contrario, perché non vorreste: ve ne vergognate? Magari!, sarebbe un bel segno. Pur se molti di voi sembrano aver perso, da mo’!, la capacità di farlo. (pa)