LA CALABRIA E 55 ANNI DI REGIONALISMO
TANTE LE RIFORME ANCORA DA ATTUARE

di DOMENICO CRITELLI – Nel 2025 stiamo girando la boa del 55mo anniversario di Regionalismo Calabrese.

Un passaggio ordinario, ormai, di funzionalità della legislazione differenziata e concorrente. Sarebbe stato opportuno, dopo oltre 50 anni, fare un bilancio dei miglioramenti o dei deficit, dei punti di forza e dei punti di debolezza. Di tutto ciò che si poteva fare, e si potrebbe ancora fare, per rendere i calabresi cittadini normali.

Un dato storico il 1970 allorquando si inserì, nella Costituzione, il sesto pilastro del nostro impianto Repubblicano (Corte Costituzionale, Parlamento, CSM, Regioni, Province, Comuni). Ogni anno, puntualmente, si dibatte dei Moti di Reggio successivi a quell’evento. Due narrazioni che si intrecciano e correlate fra di esse, in quanto ad implicazioni politiche e Istituzionali.

La ricostruzione che ne fa Calabria.Live, puntuale e oggettiva, aiuta il “guidatore” (il legislatore odierno) esattamente come uno “specchietto retrovisore”. Non vi si può tenere costantemente lo sguardo, perché si rischia di andarsi a schiantare.
Ma neanche ignorarlo del tutto, per evitare di essere orientati solo da revisionismo fine a se stesso o dalla riproposizione, de quo, di fatti e accadimenti ormai lontani e metabolizzati.

Una occhiata rapida, giusto per calibrare i giudizi, aiuterebbe a rendere più mirati i cambiamenti dell’impalcatura istituzionale ed amministrativa della Calabria, ma, soprattutto, geopolitica. Non è ordinario provare ad aprire un confronto su come rilanciare temi nazionali ma dalle implicazioni territoriali.

L’autonomia differenziata ed il Ponte sullo Stretto, senza perdere di vista la prospettiva di una maggiore coesione, questa volta politica, anche delle Istituzioni Europee.
Non è nemmeno pretenzioso, da parte mia, legare fatti transnazionali con prospettive di macroarea. Intanto, perché tutto si tiene insieme.

Poi, perché ne abbiamo titolo, essendo la Calabria, fra le altre, a comporre la Comm.ne InterMediterranea e ad esprimerne il Presidente, nella persona di Roberto Occhiuto.
E, in ultima istanza, perché sono temi dei quali mi appassiono e scrivo da anni. Il Mediterraneo, non un Oceano, ma con una rilevanza che lo tiene sempre al centro degli equilibri mondiali e ne fa parlare con la stessa dovizia e visione prospettica del Pacifico o dell’Atlantico.

Indubbiamente spazi acquei sterminati che, oltre a collegare continenti, sono sempre stati ritenuti baluardi anche di difesa degli Stati bagnati, per come sostiene Tim Marshal nel suo libro “Le 10 mappe che spiegano il mondo”. Lo stesso Mediterraneo con i suoi “affluenti” (Sicilia, Sardegna, Tirreno, Jonio, Adriatico etc.) potremmo assumerlo come il “nostro” oceano, dacché Mare Nostrum.

Assolutamente rilevante, anche perché in esso si svolge oltre il 25% dell’intero traffico commerciale e turistico del mondo. Senza attardarci in statistiche o citazioni, per venire rapidamente alla “provocazione ma non tanto”, bisognerebbe avere l’ambizione di superare la storica suddivisione di Calabria Citra e Calabria Ultra, dalle quali discesero, qualche millennio dopo, e fino al 1993, le tre Province di emanazione Sabauda (Catanzaro Cosenza Reggio Calabria): la “Calabria dei due Mari”.

Unica Regione italiana ad essere completamente avvolta da due mari, pur non essendo un’isola ma collegata alla terra dall’Istmo di Catanzaro. Si tratterebbe di ridare dignità, o anche di risarcire, l’intera fascia Jonica (Sibari, Corigliano Rossano, Crotone etc.) che, nei millenni successivi alla dominazione Magno Greca, hanno visto perdere sempre più rilevanza fino a ridursi in una terra di passaggio e di sempre meno residenza, fagocitata dai centralismi Regionali ed extra Regionali.

Ecco perché Autonomia e Ponte sullo Stretto potrebbero offrire la stura a rilanciare la MacroRegione Mediterranea, con zoccolo di partenza, Sicilia Calabria e Basilicata, e Capoluogo la “Città dello Stretto” unite dalla più grande opera ingegneristica del mondo, almeno in quanto a lunghezza e temerarietaà geostatica. La seconda Regione d’Italia con i suoi poco più di 7 mln di abitanti.

Una opportunità irripetibile per rilanciarci, affidandoci a noi stessi e, soprattutto, alla nostra testardaggine: quella positiva, ovviamente.
Non trascurerei neppure il fatto che le tre Regioni hanno la stessa maggioranza politica e la guida affidata a 3 Liberalpopolari che affondano, nell’autonomismo Sturziano, la cultura di Governo che li orienta. Saremmo competitivi e da primato su diverse materie quali Energia, Turismo, produzioni agricole, beni archeologici, enogastronomia mediterranea e Contee vitivinicole. E poi, artigianato e industrie eco-sostenibili.
Una sfida quotidiana ad elevare la qualità della vita, tra gli altri, dei Calabresi e di quelli Jonici, alla pari.

Sopratutto tornare ad essere attrattivi anche per tutti i nostri figli che hanno deciso di mettere subito a reddito i sacrifici di anni di studio, emigrando. L’articolazione Amministrativa fra funzioni legislative (Comm.ne Europea, Stato e Macro Regione) e di coordinamento (Province) potrebbe applicare, sul principio di densità demografica e contiguità territoriale, l’estensione e/o la contrazione di Province preesistenti ma dalle dimensioni sproporzionate, anche rispetto alla rivisitazione dell’ultima legge di Riforma, Del Rio, che pone un tetto(300 mila abitanti) oltre il quale il territorio finisce per essere sterminato e ingovernabile.

Allo stesso modo, sperequativo, Province piccole come Crotone e Vibo, o, addirittura, di pochi Comuni, 6 (sei) come nel caso della Provincia Toscana di Prato.
Le riforme nazionali, che procedono a rilento, fra scontri di casta o ideologici, come la Giustizia, il Premeriato e la stessa Autonomia fiscale, non possono non trovare applicazione che dialogando con il territorio.

In Calabria, invece, tutto si stà riaccorpando secondo la vecchia articolazione istituzionale delle 3 grandi Province preesistenti al 1993: aree nord, centro e sud.
Da ciò, le Camere di commercio, le organizzazioni di categoria, i Sindacati confederali etc.

Un “usato sicuro”, per molti, ma senza riscontro del sentimento popolare e delle ricadute politiche, infrastrutturali ed economiche.

A questo sommiamo la contestuale assenza dei partiti, ultraventennale, che non ha generato classe dirigente con capacità critica o autonoma visione del futuro, ma ambascerie periferiche, in taluni casi, vere e proprie sotto-prefetture del consenso.
Questo è, in buona parte, responsabilità della mia generazione che anziché porsi al servizio e basta, si è posta al servizio se.

Ma poi per fare cosa!? Per ritornare tutti abbracciati e, magari, anche saltellando, alla vecchia Provincia di Catanzaro? E chi lo stabilirebbe, il Consiglio Regionale o la Comm.ne parlamentare ?
Avevo proposto, già nel 2020, una consulta Regionale Interistituzionale aperta al mondo delle professioni e dell’associazionismo, per avviare, ad origine della legislatura, un confronto che avesse l’ambizione di aprire una stagione Riformista e innovatrice dell’articolazione Istituzionale amministrativa e territoriale della Calabria.

Cercando anche di evitare che questi 32 anni trascorsi dalla riforma delle autonomie locali (1993), si risolvessero alla Fantozzi (il comico): abbiamo scherzato. Se così dovesse essere, la forzatura sarebbe solo responsabilità dei tanti epigoni che calcano la scena nazionale e Regionale, senza interrogare o rendere partecipe il territorio.

Al netto delle preferenze personali – sono sempre stato per l’autonomia da Catanzaro fin dal 1979 anno di ingresso nella DC e, da qualche anno, sostengo la costituzione della Provincia della Magna Grecia – credo che il territorio vada costruito seguendo direttrici di sviluppo che riducono la perifericità dei territori e affidandosi, tra le altre infrastrutture, anche a Città policentriche o territorio.

Da ciò la fusione dei 6 Comuni rivieraschi di Crotone, Isola Capo Rizzuto,Cutro, Scandale, Rocca di Neto e Strongoli in un unico grande Comune di oltre 100 mila abitanti e ad una incidenza, e rilevanza geopolica, della più grande Città dello jonio calabrese, da Sibari a Locri, e del 3 territorio più esteso d’Italia dopo Roma e Ravenna(612 kmq).
Catanzaro, invece, è stata una Città “Centralista”.

Tutto avveniva subordinatamente agli interessi del Capoluogo. Da ciò la domanda di autonomia istituzionale, anticipata da quella politica, della mia generazione che, mi auguro, i “nuovi” sapranno difendere. Rispetto a questi temi riscontro, purtroppo, un fatalismo e una mancanza di idee, anche diverse, – chissà che non mi si convinca del contrario – che non lascia ben sperare, anzi!!

Le prossime elezioni Amministrative (2026) dovranno servire proprio per far crescere e condividere dal basso queste tematiche. Diversamente si continuerà a dibattere di Bonifica in termini reazionari e populisti senza neanche sapere di cosa si parla e quante opportunità si sono perse in attesa di Godot. Anche in questo caso, non mi fido dei nuovi e nemmeno di quelli della mia generazione che hanno attraversato gli ultimi 30 anni osservando o generando cumuli di rifiuti tossici e radioattivi ma utilizzando, nei mandati elettorali a loro discrezione per la Città, le Royalties.

E lo hanno fatto anche i cosiddetti Comuni Rivieraschi del Crotonese. Ecco perché mi fido e sostengo, solitariamente, l’azione del generale Errigo, Commissario Sin, sul quale si prova anche ad orientare il venticello della calunnia. Quest’ultimo anche da parte di chi essendo stato al Governo della Regione (Oliverio) o al Governo del Paese ( Conte I e II) ha titolo a confrontarsi ma non a porre addebiti o a suggestionare i Crotonesi.

Domenico Critelli è stato assessore Provinciale ed è componente del Comitato Magna Graecia]

IL CASO DELLE OPERE INFRASTRUTTURALI
AL SUD È SEMPRE UNA BATTAGLIA PERSA

di MASSIMO MASTRUZZOQuando si tratta di grandi opere infrastrutturali nel Sud Italia, improvvisamente la macchina burocratica e politica sembra diventare iper attenta, quasi ossessiva, nel cercare il proverbiale pelo nell’uovo. Norme, vincoli, ricorsi, opposizioni: tutto si complica. Al contrario, nel Nord del Paese, si costruisce prima e si discute – eventualmente – dopo.

È questo il paradosso che emerge con chiarezza anche in merito al ponte sullo Stretto di Messina. Il segretario confederale della Cgil, Pino Gesmundo, ha espresso forte contrarietà agli emendamenti 1.46 e 3.038, presentati in Parlamento, definendoli un attacco alla trasparenza, alla legalità e alla partecipazione democratica. Si teme, legittimamente, un’accelerazione forzata nella realizzazione dell’opera. Tuttavia, colpisce la differenza di tono rispetto a interventi analoghi nel resto d’Italia, dove simili procedure sono già state adottate – e senza clamore – per eventi come le Olimpiadi Milano–Cortina 2026 o il Giubileo 2025, con la creazione di società speciali come stazioni appaltanti.

Perché tanto clamore proprio adesso? Perché ci si “sveglia” con il ponte? E dove sono finite le lezioni del cosiddetto “modello Genova”, osannato per l’efficienza nella ricostruzione del ponte Morandi?

Il Mezzogiorno italiano da decenni attende opere strategiche che altrove sembrano addirittura in eccesso. A Genova si realizzano la Gronda autostradale, il Terzo Valico ferroviario, la Diga foranea. In Veneto si investe sulla Pedemontana. Nel Sud, invece, si litiga ancora sul raddoppio della linea ferroviaria fra Termoli e Lesina, bloccato da oltre vent’anni per presunte incompatibilità ambientali legate alla nidificazione del fratino, un piccolo uccello. Un caso emblematico di paralisi che diventa freno allo sviluppo.

Eppure, gli investimenti in infrastrutture hanno un impatto economico diretto e documentato. Creano occupazione nel breve periodo, stimolano l’indotto e, nel lungo termine, rafforzano la competitività del Paese intero. Gli economisti parlano di “effetto moltiplicatore”: ogni euro speso in infrastrutture genera una crescita del PIL superiore al valore iniziale dell’investimento. E questo effetto è ancora più forte nei territori che partono da una situazione di carenza.

Lo spiegano bene anche Alberto Quadrio Curzio e Marco Fortis nel loro libro L’economia reale del Mezzogiorno: un’Italia che punta sullo sviluppo industriale e infrastrutturale del Sud diventerebbe più competitiva persino di Francia e Germania. Portare il Sud ai livelli delle regioni più avanzate del Nord sarebbe, in questa prospettiva, la vera “operazione Paese”, con benefici diffusi per l’intera nazione.

Dimostrare che un’autostrada o una ferrovia è più utile lì dove mancano – e non dove già abbondano – non dovrebbe essere un’impresa difficile. Lo stesso articolo 3 della nostra Costituzione, che sancisce l’uguaglianza dei cittadini, dovrebbe guidare le scelte politiche e progettuali.

E invece, in Italia, ogni infrastruttura al Sud sembra dover superare un processo a ostacoli. Non per mancanza di fondi, non per carenza di progetti, ma per una sistematica mancanza di volontà. (mm)

[Massimo Mastruzzo, direttivo nazionale Met – Movimento Equità Territoriale]

 

EMIGRAZIONE, È RECORD: IN DUE ANNI SONO
PARTITI IN OLTRE 241 MILA DAL MERIDIONE

di MASSIMO MASTRUZZONel biennio 2023-2024, oltre 241.000 cittadini del Mezzogiorno si sono trasferiti nelle regioni del Centro-Nord, contro appena 125.000 nella direzione opposta. Lo segnala l’Istat nel rapporto “Migrazioni interne e internazionali della popolazione residente”, tracciando un quadro ormai strutturale dello spopolamento del Sud Italia.

Il saldo negativo è preoccupante: 116.000 persone in meno in due anni. Una vera e propria emorragia demografica, che però ha anche impatti economici rilevanti e spesso sottovalutati, soprattutto dal punto di vista fiscale.

Lombardia prima destinazione: un terzo dei pugliesi e lucani migranti finisce qui

Secondo l’Istat, tra le mete più scelte spicca la Lombardia, che da sola accoglie circa il 30% dei migranti interni dalla Puglia e dalla Basilicata. Province come Milano, Bergamo e Brescia attraggono forza lavoro giovane e qualificata che spesso non trova adeguate opportunità nel Sud d’origine.

Il peso delle tasse locali: un trasferimento che vale milioni per il Nord

L’aspetto meno discusso ma estremamente rilevante riguarda la redistribuzione delle entrate tributarie locali, legate in particolare all’Irpef regionale e comunale. Prendendo come esempio reale una busta paga di un lavoratore residente in provincia di Brescia: 41 euro al mese vanno alla Regione Lombardia; 21 euro al mese vanno al Comune di residenza

In totale, 62 euro al mese solo in tributi locali, ovvero 744 euro l’anno per contribuente.

Applicando questo dato medio ai 241.000 nuovi residenti al Nord: 241.000 x 744 € = circa 179 milioni di euro all’anno versati in imposte locali a favore delle regioni e comuni ospitanti.

Al contrario, si tratta di 179 milioni in meno che le regioni del Sud perdono annualmente, aggravando ulteriormente la debolezza dei bilanci pubblici locali.

Le regioni meridionali in perdita doppia: persone e risorse

Il trasferimento di popolazione non è solo una questione numerica. Ogni residente che parte porta con sé: Reddito da lavoro; Contributi previdenziali; Consumi locali (commercio, servizi) e, soprattutto, entrate fiscali che finanziano sanità, trasporti, istruzione e servizi sociali.

Se consideriamo una permanenza media di 10 anni al Nord, la perdita potenziale per il Sud potrebbe arrivare a quasi 2 miliardi di euro di mancate entrate locali in un solo decennio.

Non è solo fuga di cervelli, ma un “trasferimento fiscale” strutturale

Il rapporto Istat fotografa una tendenza consolidata e profonda: l’Italia continua a muoversi, ma in una sola direzione. E mentre il Sud si svuota, il Nord non solo guadagna in forza lavoro, ma incassa ogni anno centinaia di milioni di euro grazie a queste migrazioni.

L’emigrazione interna, da questo punto di vista, non è più solo una questione sociale o demografica, ma un meccanismo di redistribuzione fiscale silenzioso e progressivo.

Chi governa sa, ma non agisce

L’Istat informa la politica italiana da sempre, ma questo governo e quelli precedenti non hanno mai voluto cambiare rotta. Il Sud resta, nei fatti, un bacino di voti da gestire, ma non un territorio da sviluppare. Le segreterie dei partiti, quasi tutte localizzate al Nord, continuano a sfruttare questa disomogeneità territoriale.

Una situazione in aperto contrasto con l’articolo 3 della Costituzione, che sancisce l’uguaglianza sostanziale tra i cittadini e l’impegno della Repubblica a rimuovere gli ostacoli economici e sociali.

In questo contesto, il Movimento Equità Territoriale si batte per invertire questa tendenza, denunciando l’abbandono istituzionale del Mezzogiorno e proponendo un nuovo modello di sviluppo realmente equilibrato tra Nord e Sud.

 

[Massimo Mastruzzo, direttivo nazionale MET – Movimento Equità Territoriale]

LA MANCATA INFRASTRUTTURAZIONE AL
SUD PER SUPERARE IL DIVARIO NEL PAESE

di ERCOLE INCALZA – Il Ceo di The European House Ambrosetti Valerio De Molli al Forum di Sorrento ha dichiarato: «Il quadro del Sud che scaturisce dalla nostra analisi è quello di un’area che già oggi ha tutti gli elementi per smentire l’immagine stereotipata di peso per il Paese ma che necessita di un ulteriore salto di qualità. Non può esistere un Sud fatto solo di turismo deve esserci un Sud fatto di investimenti produttivi ed infrastrutture».

Sempre dal Forum di Sorrento emergono dati che supportano questa denuncia di De Molli come, solo a titolo di esempio, quello relativo al transito di gas: oltre il 74% è entrato in Italia attraverso il gasdotto di Mazara del Vallo, Gela e Melendugno. Il Sud si piazza al terzo posto nella classifica dei territori più attrattivi tra i 20 Paesi mediterranei presi in esame. Sempre il Sud ha registrato nel 2022 e nel 2023 un aumento del Pil rispettivamente del 5,9% e dell’1,5%; una crescita dello 0,9% superiore alla media del Centro Nord.

Ed ancora, sempre  dal rapporto presentato nel Forum di Sorrento, emerge che il Mezzogiorno si configura ormai come un polo attrattivo per capitali sia pubblici e privati; infatti il valore aggiunto prodotto dai granfi gruppi multinazionali esteri nell’area è cresciuto del 27% tra il 2021 ed il 2022 di gran lunga di più della media italiana (+13%); in proposito è sufficiente un dato: dal 2021 sono stati identificati investimenti nuovi o incrementali con orizzonte 2030 per oltre 320 miliardi di euro e più di un milione di occupati. Né possiamo sottovalutare il dato legato alla istituzione della Zona Economica Speciale Unica che tra gennaio 2024 e maggio 2025 ha rilasciato 620 autorizzazioni ed ha attivato direttamente 8,5 miliardi di euro di investimenti.

Ebbene, leggendo questi dati nasce spontaneo un interrogativo: “Come mai le otto Regioni del Mezzogiorno continuano a rimanere all’interno dell’Obiettivo Uno della Unione Europea (cioè tutte  hanno un Pil pro capite inferiore al 75% della media europea) e se effettuiamo una analisi più mirata scopriamo che il valore medio del Pil pro capite non supera la soglia di 18.000 – 21.000 euro quando nelle altre Regioni del Paese tale soglia raggiunge e, addirittura, supera (vedi alcune province lombarde) il valore di 40.000 euro.”

A questo interrogativo penso sia possibile rispondere ricordando quanto sia stato determinante ed al tempo stesso sottovalutato il “fattore tempo” nella attuazione concreta delle scelte definite dalla Legge 443 del 2001 (Legge Obiettivo); una Legge, ripeto, varata nel 2001 e portata avanti in modo davvero encomiabile fino al 2014 e poi, dal 2015 fino al 2023, rimasta praticamente ferma.

In fondo questa stasi infrastrutturale, voluta in modo chiaro dai Governi Conte 1, Conte 2 ed anche Draghi, trovava una precisa motivazione nel trasferimento delle risorse in conto capitale, destinate alle infrastrutture, alla copertura dei programmi relativi al “Reddito di Cittadinanza”, al “Quota 100 per l’accesso al sistema pensionistico”, al “Super bonus nel comparto edilizio”. E questa scelta ha praticamente prodotto un risultato leggibile in modo inequivocabile nel ritardo nell’attuazione, solo a titolo di esempio di questi interventi: Il Ponte sullo Stretto di Messina è ancora nella fase istruttoria; L’asse ferroviario ad alta velocità Salerno – Reggio Calabria, pur sostenuto da risorse del Pnrr e cantierato solo per una tratta di 2,2 miliardi di euro (l’asse completo costa 29 miliardi di euro); Gli assi ferroviari ad alta velocità Palermo – Catania e Catania – Palermo, pur sostenuti da risorse del Pnrr, sono oggi, dopo dieci anni, nella fase di avvio e soggetti al rischio di una rivisitazione della copertura da parte del Pnrr; L’asse ferroviario ad alta velocità Taranto – Potenza – Battipaglia ancora fermo alla fase progettuale e anche esso soggetto al rischio di una esclusione dalle risorse del Pnrr; L’asse viario Taranto – Reggio Calabria (Strada Statale 106 Jonica) vede in corso di realizzazione solo un tatto di 38 Km (l’intero asse è lungo 491 Km); Il blocco negli “Schemi idrici nel Mezzogiorno”; in modo particolare un blocco soprattutto nella realizzazione di un numero rilevante di dighe; Gli interventi di rilancio e di riassetto produttivo del Centro siderurgico di Taranto si sono rivelati dal Governo Conte 1 in poi, cioè dal 2018, un tragico fallimento strategico.

Mi fermo qui perché penso sia inutile ricordare e, al tempo stesso, misurare quanto abbia pesato per il Mezzogiorno la sottovalutazione del “fattore tempo” nella infrastrutturazione del territorio; in proposito ricordo che l’Istituto di ricerca “Divulga” della Coldiretti un anno fa fece presente che la mancata infrastrutturazione del Paese aveva provocato, nel solo 2022, un danno all’intero sistema logistico, sempre del Paese, di circa 96 miliardi di euro e di tale valore la carenza infrastrutturale del Sud incideva per oltre il 50% con un danno, per il solo comparto agro alimentare,  di oltre 9 miliardi di euro.

Cosa davvero preoccupante la vivremo proprio nei prossimi giorni in cui, proprio per la sottovalutazione del “fattore tempo”, saremo costretti a rinunciare a risorse del Pnrr proprio per opere ferroviarie del Sud come quelle ubicate in Puglia, in Calabria e Sicilia e prima elencate.

Questa triste presa di coscienza ci fa capire quanto sarebbe stata determinante l’attuazione concreta delle opere della Legge Obiettivo per ridimensionare il grave gap che ancora caratterizza il Sud nei confronti del resto del Paese e quanto gravi siano le responsabilità di quei Governi e di quegli schieramenti che hanno sottovalutato la visone strategica della Legge Obiettivo. (ei)

IL PIL DELLA CALABRIA NON CRESCE
NEL 2024 REGISTRATO A MENO 0,2%

di ANTONIETTA MARIA STRATI – Nel 2024 in Calabria il Pil non cresce. Anzi, diminuisce dello 0,2%, mentre quello del Mezzogiorno, per il terzo anno consecutivo, cresce più del Nord. È quanto emerso dal rapporto Svimez sul Pil delle regioni nel 2024.

Nel 2024, come nel biennio precedente, il Pil delle regioni meridionali è aumentato più del Centro-Nord: +1% contro +0,6%. Quel punto in più è stato possibile grazie al PNRR. La crescita è stata più sostenuta nelle regioni centrali (+1,2%), meno nel Nord-Ovest (+0,9%). Per il Nord-Est si stima una sostanziale stagnazione dell’attività economica (-0,2%).

La migliore performance di crescita del Sud è determinata dallo stimolo maggiore offerto dalle costruzioni (+3% contro il +0,6% del Centro-Nord), in continuità con il biennio precedente (Tab. 2). Leggermente superiore al dato del Centro-Nord anche la dinamica dei servizi (+0,7% contro +0,6%). Nella media d’area, il comparto industriale meridionale presenta una sostanziale tenuta (+0,1%), a fronte di una leggera contrazione nel resto del Paese (-0,2%). L’agricoltura cresce solo dello 0,5% al Sud rispetto al +2,9% del Centro-Nord. La crescita italiana, in un contesto di forte incertezza internazionale e di crisi di ampi comparti dell’industria europea, è stata sostenuta dalla spinta propulsiva degli investimenti in opere pubbliche, trainati dal Pnrr e da una migliorata capacità realizzativa delle amministrazioni. La Svimez ha stimato che il Pnrr ha offerto un contributo alla crescita del Pil nel 2024 pari a 0,6 punti percentuali nel Mezzogiorno e a 0,4 punti nel Centro-Nord.

Il Pil nelle regioni: forte eterogeneità interna alle macro-aree

Anche nel 2024 si conferma l’ampia differenziazione interna alle diverse ripartizioni territoriali nei tassi di crescita regionali osservata nel triennio precedente (Informazioni Svimez 4/2024). Al Sud, spiccano le performance di Sicilia (+1,5%) e Campania (+1,3%), accomunate dalle migliori dinamiche d’area del valore aggiunto delle costruzioni, rispettivamente pari a +6,3% e +5,9%.

In Sicilia anche l’espansione del settore industriale (+2,7%) contribuisce al risultato (Tab. 2). Basilicata (+0,8%), Sardegna (+0,8%) e Abruzzo (+1%) mostrano tassi di crescita simili, frutto però di diverse dinamiche settoriali: nell’economia sarda l’espansione riguarda i diversi settori ad eccezione dei servizi; in Abruzzo la crescita è trainata dai servizi che compensano la perdita di valore aggiunto delle costruzioni e dell’industria; nell’economia lucana pesa il calo del valore aggiunto industriale e il minor stimolo offerto dalle costruzioni, ma l’aumento dei servizi sostiene la crescita. Più distante dalla media meridionale la Puglia (+0,6%), frenata dalla stagnazione del terziario e da una crescita meno vivace del valore aggiunto delle costruzioni rispetto al resto del Mezzogiorno.

Infine, Molise (-0,9%) e Calabria (-0,2%) dovrebbero segnare un calo del Pil nel 2024. Nel primo caso, il dato risente della contrazione significativa delle costruzioni (-12,7%) – la più ampia a livello nazionale – e del ristagno di servizi e industria. Sullo stallo dell’economia calabrese incidono andamenti negativi diffusi tra settori, che sterilizzano la crescita dell’industria. Nel Centro, alla stagnazione delle Marche e alla crescita moderata della Toscana (+0,4%) si contrappongono le buone performance dell’Umbria (+1,2%) e, soprattutto, del Lazio, prima regione italiana per crescita del Pil nel 2024 (+1,8%). Nel Nord-Ovest, solo il Piemonte (+1,5%) registra una crescita significativa, seguito dalla Lombardia (+0,9%), mentre Liguria (-0,5%) e Valle d’Aosta (-0,1%) registrano il segno meno. La contrazione del prodotto in Veneto (-0,4%) ed Emilia-Romagna (-0,2%), principali economie dell’area, dovrebbero portare in territorio negativo il dato del Nord-Est (-0,2%).

A consuntivo di una inedita fase di ripresa, il Pil è cresciuto complessivamente dell’8,6% tra il 2022-2024 al Sud, contro il 5,6% del Centro-Nord, con uno scarto cumulato di 3 punti percentuali. Nel triennio 2022-2024, in termini di crescita cumulata del Pil, Sicilia (+11,2%), Campania (+9,5%) e Abruzzo (+9,2%) hanno registrato risultati superiori alla media del Mezzogiorno. Sardegna (+7,7%) e Puglia (+7%), pur collocandosi al di sotto della media dell’area, hanno comunque superato il tasso di crescita medio del Centro-Nord. Restano invece al di sotto della media meridionale Molise (+5,2%), Calabria (+4,2%) e Basilicata (+2,7%).

Un altro dato importante è la continua crescita degli investimenti pubblici: nel 2024 il progressivo indebolimento degli investimenti privati in edilizia, legati al Superbonus, ha ridotto il contributo alla crescita della componente privata delle costruzioni. Al contrario, è aumentato il contributo delle opere pubbliche, soprattutto grazie all’avvio della fase esecutiva del Pnrr. Nel 2024, per il complesso degli enti attuatori, gli investimenti pubblici hanno raggiunto circa 45 miliardi di euro. Poco meno della metà delle risorse è stata mobilitata dalle amministrazioni comunali, che si confermano primi investitori pubblici con una spesa pari a 21,7 miliardi. Nel complesso, gli investimenti pubblici sono cresciuti di circa 6 miliardi rispetto al 2023 (+3 miliardi per i Comuni).

Per la Svimez «si tratta di un risultato di notevole rilievo, considerato che il 2023 aveva beneficiato anche dell’effetto una tantum della chiusura del ciclo di programmazione 2014-2020 dei fondi europei della coesione, quantificabile, per le opere pubbliche, in circa 4 miliardi».

Tra il 2022 e il 2024, gli investimenti comunali sono aumentati del 75,3% nel Mezzogiorno, passando da 4,2 a 7,4 miliardi. A livello italiano, i Comuni hanno realizzato investimenti per 21,7 miliardi, +64% rispetto al 2022.

Ma non sono gli investimenti pubblici ad aver aiutato il Sud a crescere: una fetta di merito lo ha anche il settore dei servizi. Il valore aggiunto del comparto registra un aumento medio dello 0,7% nelle regioni meridionali, a fronte di un +0,6% nel resto del Paese (Tab. 2), con Abruzzo (+1,5%), Sicilia (+1,3%) e Campania (+1,1%) che si attestano su valori superiori all’1%. In calo il settore in Sardegna (-0,1%), Molise (-0,3%) e, soprattutto, in Calabria (-0,6%). Tra le attività del terziario, il comparto delle attività finanziarie e immobiliari, professionali e scientifiche ha mostrato la dinamica di crescita più pronunciata a livello nazionale, con una lieve prevalenza al Mezzogiorno (+2,3% contro il +2,1% Centro-Nord) per effetto da un lato dell’espansione delle attività immobiliari legate alla crescita del settore delle costruzioni e, dall’altro per il dato, rilevante soprattutto al Sud, della crescita dei servizi a più elevato valore aggiunto e contenuto di conoscenza.

La forbice della crescita del valore aggiunto a favore del Mezzogiorno è più ampia per i comparti – che risentono positivamente anche della spesa turistica – relativi a commercio, trasporti, servizi di alloggio e ristorazione, cresciuti nel Mezzogiorno dello 0,8% a fronte di una flessione del -0,2% nel Centro-Nord. In questo ambito, Basilicata, Sardegna e Molise registrano le migliori performance al Sud.

L’industria segna una sostanziale stagnazione livello nazionale (-0,1%), con andamenti simili tra macro-aree: (-0,2% nel Centro-Nord e +0,1% nel Mezzogiorno), ma con impatti molto più significativi al Nord per effetto del maggior peso sull’economia locale. Mentre in Lombardia e in Emilia Romagna si registra una contrazione, in Calabria l’industria cresce (5,8%), seguita da Sardegna (4,7%) e Sicilia (+2,7%).

Lo stallo dell’industria italiana si riflette nella contrazione dell’export (-1,1% sul 2023), che penalizza principalmente le economie esportartici del Nord, dove il contributo della domanda estera, espresso in percentuale al Pil regionale, supera il 30%.

Nel Mezzogiorno, la riduzione delle esportazioni è più pronunciata che nelle altre aree, ma il suo impatto sulla dinamica del Pil meridionale è contenuto in ragione di un contributo meno rilevante apportato dalla domanda estera alla crescita dell’area. Il risultato del Sud è in buona parte da attribuire al crollo dell’export di autoveicoli, in riduzione del 39,7% sul 2023, ai prodotti della raffinazione (-13%) e alla riduzione delle esportazioni dell’aerospazio che scendono del 9,9%. In negativo le esportazioni del settore dell’elettronica che si contraggono del 22%. Supera gli 11,5 mld l’export agroalimentare meridionale, con un aumento medio superiore al 10%.

Nel 2024 la crescita dell’occupazione si è confermata sostenuta, soprattutto nel Mezzogiorno, dove il numero di occupati è aumentato del 2,2% su base annua – oltre 142 mila unità in più – contribuendo per il 40% all’incremento nazionale (+1,5%). Il Sud ha risentito meno della crisi occupazionale dell’agricoltura (-0,5% contro -4,9% del Nord-Est e -12% del Centro), mentre rimane buona la dinamica occupazionale anche dei servizi legati al turismo (come alloggio e ristorazione), che fanno segnare +5,4% al Mezzogiorno a fronte di un +2,1% nazionale. In crescita in tutto il Paese anche l’occupazione nel commercio (+1,9% al Nord-Est; +3,9% nel Nord-Ovest; + 4% al Centro; +5,6% nel Mezzogiorno).

Al contrario, la variazione occupazionale degli addetti manifatturieri nelle regioni del Mezzogiorno risulta allineata al dato nazionale (+0,6%) e inferiore nelle circoscrizioni del Nord-est (+1,2%) e del Centro (+1,8%).

A livello nazionale, i servizi alle imprese hanno mostrato variazioni positive al Nord (+0,6% al Nord-est e +2,4% al Nord-ovest) e negative al Centro (-0,6%) e al Sud (-0,5%). Per i servizi Ict emerge un dato di interesse: con una crescita del +0,9%, il Mezzogiorno appare in positiva controtendenza rispetto alle altre aree che registrano dei cali di addetti.

Le retribuzioni reali nazionali mostrano un doppio divario: italiano rispetto agli altri paesi europei, e del Sud rispetto al resto del Paese, nell’intero periodo osservato.

La questione salariale italiana si riflette nella presenza di un’ampia platea di lavoratori poveri, soprattutto al Sud. La Svimez ha stimato i lavoratori in questa condizione a partire dai dati relativi alle retribuzioni disponibili per gli anni 2023 e 2024 mutuando la metodologia adottata a livello europeo. La soglia di reddito annuo al di sotto della quale un lavoratore dipendente o autonomo viene definito povero è pari a circa 7.300 euro annui (circa 600 euro mensili).

Al 2024, ricadono in questa condizione circa 4,6 milioni di lavoratori, pari al 21% del totale. Tale condizione al Sud interessa il 31,2% dei lavoratori, pari in numero assoluto a oltre 1,8 milioni. Rispetto al 2023, il recupero occupazionale non sembra aver alleviato il fenomeno del lavoro povero che risulta: in leggero peggioramento al Sud; stabile nel Nord-Ovest (16,6%; al 2024 1,1 milioni di lavoratori poveri);  in deciso peggioramento nel Nord-Est (dal 14 al 15,6% del 2024; quasi 800 mila); in miglioramento significativo solo nel Centro (dal 20,5 al 19,4% del 2024; circa 900 mila).

«I dati che presentiamo – ha detto Adriano Giannola, presidente della Svimez – non sono pura statistica, dietro ai numeri c’è un’idea, fondata sui vantaggi comparativi dell’Italia e del Mezzogiorno, sui quali la Svimez suggerisce ai decisori alcune indicazioni programmatiche».

«Investire sulla logistica, sfruttando le opportunità delle aree doganali intercluse, e favorire le Autostrade del Mare – ha detto Giannola –; Implementare la transizione energetica, cogliendo le chance che ha il Sud sulle rinnovabili e sulla geotermia, piuttosto che puntare sul nuovo nucleare per il quale serviranno almeno 10 anni; Scommettere sulla rigenerazione urbana, che è anche parte del discorso sulla mitigazione del rischio, vista come strategia per evitare lo spopolamento delle zone interne, da collegare alle aree metropolitane attraverso un’adeguata rete infrastrutturale». (ams)

IL SUD SI SVUOTA, IL NORD RESISTE: ECCO
LE DUE ITALIE DELLA CRISI DEMOGRAFICA

di FRANCESCO AIELLO – L’Italia affronta una crisi demografica profonda, con dinamiche differenti tra Nord e Sud. Mentre il Mezzogiorno perde popolazione a ritmi preoccupanti, il Nord mostra una maggiore tenuta.

Attraverso un’analisi descrittiva dei dati 2019-2024, questa nota conferma tendenze già note: il calo demografico non è solo una questione di numeri, ma anche di un profondo cambiamento nella composizione della popolazione. Comprendere queste dinamiche è essenziale per cogliere la frattura territoriale e le sue implicazioni economiche.

Italia: un declino demografico senza segnali di inversione

Dal 2019 al 2024, la popolazione italiana si è ridotta di 845 mila unità, attestandosi a 58.971.230 abitanti nel 2024. In cinque anni, il Paese ha perso l’1,4% dei residenti. Lo spopolamento è un fenomeno che inizia a mostrare caratteri di persistenza, ma è impressionante la dimensione che sta recentemente assumendo. Basti pensare che, in soli cinque anni, l’Italia ha perso l’equivalente dell’intera popolazione di città come Torino o (quasi) Napoli o di due città come Bologna e Firenze. Analogamente, è come se due regioni come Molise e Basilicata fossero diventate, ipoteticamente, completamente disabitate in così poco tempo.

Spopolamento e invecchiamento: il Mezzogiorno in crisi

Il dato medio nazionale riflette dinamiche molto differenziate a livello regionale. Per evidenziare un’eventuale relazione tra la dimensione della regione e lo spopolamento, sull’asse delle ascisse è riportata la quota della popolazione regionale nel 2019, mentre sull’asse delle ordinate è indicato il contributo di ciascuna regione alla perdita complessiva di popolazione a livello nazionale osservato negli anni 2019-2024. Delle 20 regioni italiane, 18 registrano un calo demografico, mentre solo la Lombardia e il Trentino-Alto Adige mostrano una crescita, seppur marginale, contribuendo, quindi, “negativamente” al fenomeno dello spopolamento complessivo.

Un elemento particolarmente significativo è la forte concentrazione del fenomeno nel Mezzogiorno: quattro sole regioni meridionali – Campania, Sicilia, Puglia e Calabria – spiegano quasi il 50% dello spopolamento osservato in Italia. Se si includono le altre quattro regioni del Sud, il Mezzogiorno arriva a rappresentare il 66% della perdita complessiva di popolazione a livello nazionale.

È possibile osservare la maggiore vulnerabilità del Mezzogiorno alle dinamiche demografiche guardando il tasso di spopolamento in ciascuna regione. Rispetto al 2019, le variazioni più elevate della popolazione si hanno in Molise (-4,8%), Basilicata (-4,5%) e in Calabria (-3,8%), seguite dalla Sardegna (-3,2%) e dalla Campania (-2,5%). Nel Centro-Nord, il calo è meno accentuato, con la Liguria (-1,6%) e il Piemonte (-1,8%) tra le regioni più colpite. Al contrario, l’Emilia-Romagna (-0,2%) e il Veneto (-0,7%) mostrano variazioni contenute. Complessivamente il fenomeno si manifesta con intensità diverse, penalizzando in particolare il Sud e alcune aree del Centro-Nord.

Di per sé, la riduzione della popolazione non è necessariamente un fenomeno negativo: esistono infatti economie nazionali e regionali di piccole dimensioni, ma con elevati livelli di reddito pro capite. Ciò che preoccupa nelle recenti dinamiche demografiche italiane è la distribuzione dello spopolamento tra le diverse fasce di età.

Emerge che il calo demografico in Italia non è uniforme, ma colpisce maggiormente alcune fasce rispetto ad altre. In particolare, si osserva una riduzione significativa nella popolazione più giovane: in Italia i bambini e ragazzi tra 1 e 14 anni diminuiscono dell’8,7%, mentre la fascia 15-24 anni registra una lieve flessione dello 0,6%. Ancora più marcata è la contrazione della popolazione tra i 25 e i 34 anni (-4,2%) e, soprattutto, tra i 35 e i 49 anni (-10,9%), segnalando un netto declino della popolazione in età lavorativa. Al contrario, le fasce di età più avanzate mostrano un andamento opposto. Gli individui in età lavorativa tra i 50 e i 64 anni aumentano del 6,1%, mentre la popolazione tra i 65 e i 74 anni cresce del 3,6%. Ancora più accentuata è la crescita della popolazione over 75 (+5,6%), con un incremento particolarmente elevato tra gli ultranovantenni (+10,1%).

Il divario Nord-Sud si amplia

L’analisi dei dati regionali evidenzia come lo spopolamento sia un fenomeno eterogeneo sia all’interno delle singole regioni che nel confronto tra di esse. In tutte le aree del Paese si osserva una riduzione della popolazione più giovane e in età lavorativa, accompagnata da un aumento della popolazione anziana, sebbene con differenze nei tassi che, evidentemente, riflettono differenze nelle cause di queste dinamiche.

Ad esempio, in Calabria e Sardegna il calo della popolazione tra i 25 e i 34 anni è particolarmente marcato (-15,2% e -13,9% rispettivamente), evidenziando una forte emigrazione giovanile. Al contrario, in regioni come l’Emilia-Romagna (+3,4%) e la Lombardia (+1,9%) la popolazione ricadente in questa fascia d’età è in crescita, segnalando una maggiore capacità di attrazione legata alle opportunità lavorative. Lo spopolamento del Sud risulta strettamente legato ai flussi migratori che sono in costante ripresa nel periodo 2019-2024.

L’invecchiamento della popolazione è un fenomeno comune a tutte le regioni, ma con tassi di incremento diversi. In Lombardia, Lazio, Toscana, Trentino-Alto Adige e Veneto la popolazione over 90 cresce in modo significativo, in linea con la tendenza nazionale. Tuttavia, nelle otto regioni del Mezzogiorno (Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna), l’aumento degli ultranovantenni è ancora più marcato, con una crescita superiore al 30% nell’ultimo decennio. Parallelamente, in queste stesse regioni si registra una riduzione sistematica della popolazione in tutte le fasce d’età fino ai 50 anni, un dato che contribuisce a un incremento preoccupante dell’indice di dipendenza, ossia il rapporto tra popolazione non attiva e popolazione in età lavorativa (in questo caso fino a 50 anni). Il forte squilibrio demografico del Sud solleva interrogativi sulla sostenibilità del welfare e sulle prospettive di crescita economica di questa parte del paese.

Osservando le tendenze su scala nazionale, emerge un quadro chiaro: mentre nel Mezzogiorno la perdita di popolazione riguarda in modo sistematico tutte le fasce d’età fino ai 50 anni, nel Nord molte regioni mostrano una maggiore stabilità demografica o addirittura una crescita in alcuni segmenti della popolazione.

Ad esempio, il Molise perde il 9% della popolazione tra i 15 e i 24 anni e l’11,8% tra i 35 e i 49 anni, mentre in Calabria il calo tra i 25 e i 34 anni è superiore al 15%. Questa dinamica, che colpisce in modo trasversale le generazioni più giovani e attive, aggrava il declino demografico del Sud, riducendo progressivamente la base produttiva su cui costruire il futuro delle economie regionali. Al contrario, in regioni come Lombardia, Trentino-Alto Adige ed Emilia-Romagna, la popolazione giovane e lavorativa risulta più resiliente, con incrementi in alcune fasce d’età. Tuttavia, non tutte le regioni settentrionali seguono la stessa tendenza: in Liguria e Friuli-Venezia Giulia, ad esempio, si registrano cali demografici significativi, sebbene con caratteristiche diverse rispetto al Mezzogiorno. (fa)

[Francesco Aiello è prof. ordinario di Politica Economica al Dipartimento di  Economia, Statistica e Finanza “Giovanni Anania”

dell’Università della Calabria]

[Courtesy OpenCalabria]

SVIMEZ: SVILUPPO, L’ITALIA DELLE REGIONI
PERCHÉ IL MEZZOGIORNO CRESCE DI MENO

di ANTONIETTA MARIA STRATI – Dal 2025 il Sud torna a crescere meno del Nord. È quanto emerso dal Rapporto della Svimez in collaborazione con Ref Ricerche dal titolo “Dove vanno le regioni italiane. Le previsioni regionali 2024-2026”,  che ha rilevato come, di fronte a una crescita nazionale del Pil a +0,7% nel 2025 e dello 0,9% nel 2026, la Calabria – ma in generale il Sud – non cresce anzi, subisce una brusca frenata.

Un quadro sconcertante, considerando che, nel 2024, il Sud era un passo avanti rispetto al Nord ma, secondo le stime Svimez, il Pil del Mezzogiorno nel 2025 sarà + 5,4% e, nel 2026, + 0,68% contro il +1,04 del Nord-Est per il 2025 e 0,91% del Nord-Ovest. Ovviamente, anche la Calabria subirà questo brusco stop: se la differenza tra il 2024 e il 2025 è solo di qualche punto (nel 2024 era +0,62 e nel 2025 si stima sia allo 0,57), per il 2026 ci sarà un vero crollo: sarà al 0,54.

Per la Svimez «il rallentamento della crescita è la conseguenza di fattori comuni all’area euro, come il ripristino dal 2024 dei vincoli del Patto di Stabilità europeo, la recessione dell’industria dovuta a calo della domanda per beni durevoli, con la crisi di settori traino come l’automotive, la debolezza del commercio internazionale, l’aumento dei costi dell’energia».

Ma sono anche i fattori specifici del contesto italiano a incidere: un quadro di finanza pubblica nazionale che concentra la contrazione del deficit nel 2024-2025; un peso rilevante del settore automotive e un ruolo decisivo della domanda estera, con una forte interdipendenza con l’industria tedesca. Da sottolineare tuttavia, che le previsioni non tengono in considerazione la grande incertezza «Trump», provocata dalle ipotesi di inasprimento dei dazi sulle esportazioni verso gli Stati Uniti.

Per quanto riguarda le singole regioni italiane nel 2025 si prevede per il Veneto una crescita dell’1,2%, dell’1,1%, per la Lombardia, dell’1% per l’Emilia Romagna, regioni più strutturate capaci di compensare la debolezza dell’export con la tenuta della domanda interna, mentre arrancano l’Umbria con lo 0,2%, la Liguria 0,4%, Puglia e il Molise con lo 0,5% regioni meno esposte al rallentamento del commercio estero ma con meno elementi capaci di far decollare la crescita.

Il 2024 si dovrebbe chiudere con una crescita maggiore nel Mezzogiorno: 0,8% vs. 0,6% nelle regioni centro-settentrionali. Per il secondo anno consecutivo il Sud si muoverebbe così più velocemente del resto del Paese, anche se con un differenziale notevolmente ridotto (da un punto percentuale a due decimi). Sono due i principali elementi che concorrono al risultato previsto.

Nel 2024 l’evoluzione congiunturale risulta fortemente influenzata, in parte come l’anno precedente, dalla dinamica degli investimenti in costruzioni che verrebbero a confermarsi come una delle componenti più dinamiche della domanda. Per capire cosa ha significato negli anni recenti il boom osservato nel comparto immobiliare, si tenga presente che tra il 2021 e il 2023 la crescita registrata negli investimenti in costruzioni è stata di entità più che doppia rispetto a quella avvenuta nei dodici anni che vanno dal 1995 al 2007.

Dal lato dell’offerta, le nostre previsioni indicano un contributo negativo dell’industria in senso stretto alla dinamica del prodotto in entrambe le macroaree nell’intero periodo di previsione (con la parziale eccezione del Sud nel 2026). In primo luogo, ciò è riconducibile alla inusuale debolezza della domanda estera, che oramai influisce per circa la metà dell’intero output industriale delle regioni centrosettentrionali (specie in Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto), dove si concentra quasi il 70% del valore industriale nazionale. A ciò si aggiunge una congiuntura complessivamente debole unitamente alle molteplici “crisi” aziendali indotte dai cambiamenti strutturali in atto (transizione ecologica e digitale su tutte) in assenza, anche a livello sovranazionale, di un quadro strategico e normativo certo, condizione imprescindibile per introdurre i necessari adeguamenti.

Con riferimento al biennio 2025-2026, l’evoluzione del Pil italiano è prevista permanere al di sotto dell’uno per cento, con un profilo in lieve espansione: +0,7% nel 2025; +0,9% nel 2026. In questo biennio il Centro-Nord dovrebbe risultare l’area più dinamica, con un differenziale di circa tre decimi di punto rispetto al Sud in entrambi gli anni. Sul piano estero, il tasso di crescita del Prodotto italiano nel biennio 2025-2026 verrebbe di nuovo a collocarsi nella fascia inferiore rispetto ai principali avanzati. Per crescita del Pil l’Italia scivolerebbe in fondo alla classifica europea, insieme alla Germania.

«Una decisa inversione di tendenza rispetto agli anni post Covid – ha rilevato la Svimez – quando la ripresa è stata sostenuta da politiche di bilancio dall’intonazione straordinariamente espansiva. Sul fronte interno, lo scenario previsivo ipotizza che dal 2025 si arresti il biennio di crescita più intensa, 2023-2024, sperimentato dal Sud, di per sé una circostanza abbastanza inusuale. Il differenziale Nord/Sud dovrebbe comunque mantenersi su valori molto più contenuti rispetto al ventennio pre-Covid: Centro-Nord +0,8%, Mezzogiorno +0,5% nel 2025; Centro-Nord +1%, Mezzogiorno +0,7% nel 2026. Le due aree dovrebbero perciò continuare a crescere a velocità simile come nella ripartenza post pandemica».

A contenere il differenziale di crescita Nord/Sud contribuisce in maniera decisiva il Pnrr i cui investimenti valgono il sessanta per cento della crescita del Mezzogiorno nel biennio 2025-2026. Se, quindi, la completa implementazione del Pnrr è un obiettivo nazionale, la realizzazione degli investimenti finanziati dal Piano sono decisivi per tenere il Sud agganciato al resto del Paese.

La spesa delle famiglie dovrebbe crescere a un saggio di entità quasi doppia al Centro-Nord rispetto al Mezzogiorno in virtù di una analoga evoluzione del potere d’acquisto. Oltre che un differenziale di inflazione sfavorevole al Mezzogiorno, incidono su questo risultato alcuni provvedimenti governativi: l’indebolimento delle politiche a sostegno delle famiglie che impattano più pesantemente al Sud; l’intervento sul cuneo fiscale e la riforma dell’Irpef che favoriscono consumi soprattutto al Centro-Nord dove si concentrano i redditi da lavoro dipendente.

La crescita del Pil verrebbe a essere prevalentemente sostenuta dai servizi di mercato (market services) e, in misura inferiore, da quelli della PA. Con riferimento ai market services, nel Report si portano evidenze relative al fatto che: a) la quota dei servizi con un elevato contenuto di conoscenza (KIS) è modesta in entrambe le macroaree (di poco superiore al 20 per cento); b) le restanti attività, prevalenti, presentano un gap di produttività significativo, più marcato al Sud.

Tale circostanza, in primo luogo, limita le potenzialità di sviluppo delle due macroaree, specie nell’attuale congiuntura quando sono proprio i market services nel loro insieme a crescere di più; vincolo maggiormente ostativo nel Sud. Inoltre, questo primo fattore si incrocia con una delle grandi “questioni” del nostro Paese, quella salariale, intesa come livello e dinamica più contenuta delle retribuzioni nazionali nel confronto europeo. Precisamente, i minori salari unitari che si riscontrano nel nostro Paese, in misura maggiore al Sud, svolgono, sempre nel confronto internazionale, un ruolo “equilibratore” al ribasso dell’equilibrio economico delle imprese.

A livello regionale, relativamente al biennio 2025-2026, dovrebbero mostrare una crescita più vivace le economie dalla base produttiva più ampia, strutturata e diversificata, più pronte a intercettare le opportunità derivanti da un rafforzamento della domanda interna. Prevarranno sentieri di crescita regionale più differenziati al Nord e al Centro, più omogenei nel Mezzogiorno.

Tra le diverse ripartizioni emerge nel Nord-Ovest il traino della Lombardia; nel Nord-Est, le regioni più dinamiche sono Veneto e Emilia dove, nonostante debolezza dell’export, la crescita è sostenuta dalla domanda interna; si conferma la divaricazione interna al Centro: da un lato, più dinamiche la Toscana, per la maggiore presenza di imprese strutturate, e il Lazio, trainata da Giubileo e service economy; dall’altro, Umbria e Marche, alle prese con crisi settoriali di lungo periodo e alla ricerca di un nuovo modello di specializzazione; il Mezzogiorno risulta un’area in rallentamento ma compatta, meno esposta al rallentamento del commercio estero ma dove mancano elementi che accelerano il cambiamento strutturale, nonostante il Pnrr che sostiene la dinamica del Pil nel 2025-2026.

Il ciclo dell’export si presenterebbe debole rispetto ad altre fasi di ripresa: pochissime regioni arriverebbero nel biennio 20252026 a cumulare incrementi dell’export di una certa consistenza. Fra i territori a maggiore vocazione all’export solo Emilia-Romagna e Toscana arriverebbero a superare una crescita del 3 per cento in termini cumulati nel biennio. Guardando alla dinamica della spesa delle famiglie nelle diverse regioni, il biennio 2025-2026 dovrebbe essere segnato da una relativa divergenza fra le regioni del Nord e quelle del Mezzogiorno.

La differenza è riconducibile a due aspetti: gli effetti indotti dagli interventi fiscali in grado, almeno nel breve periodo, di salvaguardare maggiormente il potere d’acquisto delle regioni del Nord; la crescita dei consumi interni rifletterebbe anche l’evoluzione della spesa dei non residenti, con effetti positivi sul Lazio nel 2025 per effetto del Giubileo, e Lombardia, Veneto e Trentino Aldo-Adige per i giochi olimpici invernali. Infine, le regioni del Mezzogiorno, che negli anni scorsi avevano beneficiato del sostegno della politica fiscale, vedranno progressivamente inaridirsi il supporto del bilancio pubblico.

Questo cambiamento nelle politiche potrebbe ritardarne il recupero. Tuttavia, sempre le regioni del Sud risentirebbero maggiormente dell’effetto positivo degli investimenti del Pnrr. Grazie, soprattutto, al contributo delle opere pubbliche, il divario territoriale di crescita degli investimenti risulterebbe quindi contenuto.

ASSISTENZA SANITARIA, PER COLPA DELLA
SPESA STORICA IL SUD È SEMPRE IN AGONIA

di PIETRO MASSIMO BUSETTANel 2022, ultimi dati disponibili, i posti residenziali per l’assistenza alle persone che hanno più di 65 anni, delle strutture territoriali, per 1000 residenti anziani sono a Bolzano 42,6 a Trento 36,4 in Italia in media 15,2, in Basilicata 1,4  e in Sicilia 1,2, ultima in classifica.

Anche i pazienti in età pediatrica beneficiano di servizi di assistenza territoriale differenziati su base regionale. Numerosi studi mostrano che i bambini ricoverati frequentemente per asma tendono ad avere meno visite programmate a livello di assistenza territoriale e una minore aderenza alla terapia farmacologica.

Queste evidenze suggeriscono che una carente organizzazione dell’assistenza territoriale e una scarsa accessibilità alle cure possono essere responsabili di un aumentato ricorso alle cure ospedaliere. Su queste basi concettuali, il tasso di ospedalizzazione per asma può essere utilizzato per misurare la qualità dei servizi territoriali in termini di prevenzione, accesso alle cure e trattamento, presupponendo che, al migliorare di queste, diminuisca il ricorso al ricovero in ospedale.

Un argomento analogo vale per la gastroenterite, una malattia comune nei bambini, nei confronti della quale una tempestiva ed efficace cura a livello territoriale pare essere associata a una riduzione del rischio di ospedalizzazione.

E i dati seguono: il tasso di dimissione ospedaliere, per 1000 pazienti in età pediatrica 0-17 anni nel 2021, sempre ultimi dati disponibili, per affetti da gastroenterite vanno dallo 0,32 della Toscana al 2,07 dell’Abruzzo, evidenziando come la qualità dei servizi territoriali anche per i bambini è molto più scadente al Sud come al Nord. 

Questi dati potete trovarli nell’ultimo rapporto Svimez, che dedica un lungo capitolo alla sanità, con una serie di informazioni  a livello regionale che dimostrano, se ce ne fosse ancora bisogno, che il diritto alla salute è diverso a secondo da dove nasci e va diminuendo man mano mano che scendi lo stivale. Tutto ciò porta come è evidente ed è facile immaginare ad una speranza di vita diversa. 

Infatti nell’intera Penisola hanno l’attesa di vita maggiore le province di Trento (84,2 anni) e Bolzano (83,8 anni). Seguono Veneto e Lombardia (83,6 anni), Toscana e Umbria (83,4 anni), Emilia-Romagna e Marche (83,2 anni), secondo l’analisi Eurostat hanno un’aspettativa di vita di 83 anni: Valle d’Aosta, Liguria e Sardegna. Segue con un piccolo scostamento il Lazio, dove l’aspettativa è di 82,9 anni. Mentre sono in fondo alla classifica  l’Abruzzo (82,8 anni), Basilicata (82,7 anni), Puglia (82,2), Calabria (81,7 anni) e Sicilia (81,3 anni). 

Cioè se hai la fortuna di nascere in provincia di Trento in media vivrai  tre anni  in più che se nasci in Sicilia.  Per cui se qualcuno definisce lo Stato italiano ladro di vita dei meridionali nessuno potrà dire che non è vero. Certo ci sarà sempre chi dirà che la responsabilità di tale situazione è di coloro che gestiscono le strutture sanitarie, nella maggior parte dei casi individuati dalla politica. Riportando tutto alla colpa degli stessi meridionali che, come nella vulgata, confermano di essere incapaci, con una classe dirigente e politica corrotta e non adeguata. 

Poi si scopre che il commissariamento di 10 anni della sanità calabra, effettuata dal Governo centrale, non ha portato a grandi miglioramenti e che alla fine il lavoro di recupero lo sta svolgendo Roberto  Occhiuto, Presidente della Regione e calabrese Doc. 

E che i commissari scelti, alcuni emiliano-romagnoli, quindi senza il peccato originale di essere meridionali, non hanno migliorato per nulla la situazione. 

Forse se si smettesse di utilizzare anche in questo campo la spesa storica e si dessero meno risorse alla sanità privata anche di eccellenza, così presente nelle aree settentrionali, si eviterebbero non solo i tanti viaggi della speranza ma che le Regioni del Mezzogiorno li finanziassero, pagando i costi delle cure dei pazienti emigranti.  

Purtroppo il meccanismo della colonia interna, così come funziona nella formazione, visto che le università del Nord continuano a reggersi sulle rette, private o statali, dei ragazzi meridionali, nel ritenere il Sud un bacino dal quale attingere i giovani lavoratori, dal quale trasportare l’energia prodotta dalle raffinerie, dai rigassificatori o adesso dagli impianti solari o eolici, è perfetto anche nell’ambito sanitario. 

E sarà complicato convincere chi è abituato ad un percorso di sfruttamento a farne a meno. Anche gli inglesi che se ne andarono dall’India con un percorso di non violenza promossa dal Mahatma Gandhi furono cacciati con una lunga lotta politica che ha visto l’adozione di diverse strategie tra cui la disobbedienza civile non violenta, ma anche proteste  volente, divisioni interne e pressioni internazionali.

Ovviamente la situazione del Mezzogiorno non è paragonabile, ma non vi è dubbio che se non vi è una presa di coscienza e una consapevolezza diversa il meccanismo rimarrà quello che è sempre stato. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud –L’Altravoce dell’Italia]

EDILIZIA SCOLASTICA IN CALABRIA ANCORA
C’È TROPPO DA FARE TRA DIVARI E RITARDI

di ANTONIETTA MARIA STRATI – In Calabria a poco a poco si stanno rendendo più sicure e moderne le scuole. Si tratta certamente di un importante risultato, ma questo non è abbastanza per poter dire che nella regione le Scuole stanno bene, perché non è così. A certificare lo stato di salute degli edifici in Calabria e in tutta Italia, la 14esima edizione del report Ecosistema Scuola di Legambiente, in cui sono emersi dati molto interessati.

Ad esempio, Vibo Valentia è tra le città che hanno realizzato maggiori interventi di adeguamento sismico, mentre Cosenza è tra quelle che hanno realizzato i maggiori interventi di messa in sicurezza dei solai nelle proprie scuole negli ultimi 5 anni, oltre ad avere – assieme a Crotone – il maggior numero di scuole servite da pedibus. La città bruzia, inoltre, brilla per il maggior numero di scuole raggiungibili in bicicletta grazie alle piste ciclabili. Catanzaro, invece, viene “rimandata” per non aver fornito dati gli impianti di energia rinnovabile nelle scuole, mentre Vibo, se da una parte è stata virtuosa contro i terremoti, dall’altra viene “bocciata” per non avere impianti di energia. Il capoluogo e Crotone rientrano, anche, tra le scuole che non hanno fornito dati sul monitoraggio amianto. Sempre Vibo, è tra le città che spendono di pi ù nel servizio di pre e post scuola. Reggio Calabria, invece, non compare in nessuna classifica.

Dati importanti, considerando che i dati sulle certificazioni ci restituiscono una situazione a livello nazionale poco rassicurante, visto che ancora oggi solo 1 edificio su 2 dispone del certificato di agibilità (49,3%) e di collaudo statico (47,5%). Nello specifico, il 68,8% degli edifici del Nord dispongono del certificato di agibilità, mentre solo il 22,6% di quelli del Sud e il 33,9% delle Isole.

Nel Report, infatti, sono raccolti i dati del 2023 di 100 Comuni capoluogo su 113  e che riguardano 7.024 edifici scolastici di loro competenza, tra scuole dell’infanzia, primarie e secondarie di primo grado, frequentati da una popolazione di oltre un milione e 300mila studenti, offre un’analisi dettagliata sullo stato di salute delle scuole confrontandola con i servizi essenziali di prestazione, i cosiddetti Lep previsti dall’autonomia differenziata, e che per le scuole riguardano edilizia scolastica, digitalizzazione e servizi mensa, denunciandone ritardi ed emergenze da affrontare anche per quel che riguarda trasporti, palestre e sostenibilità energetica, tre servizi non contemplati dai Lep riguardanti l’istruzione.

«Con l’autonomia differenziata – ha commentato Claudia Cappelletti, responsabile nazionale scuola di Legambiente – si rischia di aumentare i divari tra le scuole del nord e sud. Di questo passo senza un investimento sui Lep, rischiano le aree più fragili del Paese, come il sud e le aree interne, non solo di non recuperare i ritardi sull’edilizia scolastica ma anche di restare indietro sui servizi scolastici. Se si vuole lavorare su una didattica inclusiva e innovativa l’organizzazione e la progettazione degli spazi è rilevante, bisogna che ci siano laboratori, palestre, mense, nuovi ambienti di apprendimento».

«Ma anche le condizioni di lavoro sono fondamentali – ha aggiunto – gruppi classe più piccoli, un isolamento termico che consenta di stare in classe senza disagi, scelte di sostenibilità che migliorino lo stato generale degli edifici. Tutto questo potrebbe essere realizzato se la messa a terra dell’autonomia differenziata aprisse una stagione con al centro un grande piano di rigenerazione partecipata delle scuole per connettere bisogni e azioni».

«Per ridurre il gap con il resto d’Italia – si legge nel rapporto – ma soprattutto per mettere in sicurezza le scuole, si rende, quindi, urgente dedicare maggiori fondi al Sud e Isole ma, soprattutto, aiutare le amministrazioni a realizzare gli interventi necessari per la messa a norma degli edifici scolastici di loro competenza.

«È giunto il tempo – ha detto Mariateresa Imparato, presidente di Legambiente Campania – di “alzare l’asticella della qualità”, con obiettivi e prestazioni da raggiungere che garantiscano davvero la sostenibilità ambientale e la salubrità degli edifici, la qualità indoor, il benessere e la salute. La vera sfida consiste nel promuovere nei fatti un grande cantiere di innovazione, dove convogliare idee e risorse per progettare e realizzare scuole innovative, sostenibili, più sicure e inclusive».

Infatti, nella Penisola una scuola su tre ha bisogno di interventi di manutenzione urgenti, un dato che nel Sud e nelle Isole sale al 50%, 1 scuola su 2. Un’emergenza ormai cronica, che non migliora, nonostante nel 2023 a livello nazionale siano stati stanziati maggiori fondi per la manutenzione straordinaria (media per singolo edificio), 42milax euro, rispetto a quelli medi degli ultimi 5 anni, 36mila euro. Senza contare che persiste un forte gap tra quanto viene stanziato e quanto le amministrazioni riescono effettivamente a spendere: nel 2023 considerata la media a edificio scolastico su 42.022 euro stanziati ne sono stati spesi 23.821 euro. Preoccupano, anche, i ritardi su digitalizzazione, trasporti, servizi per lo sport ed efficientamento energetico e in questo quadro l’autonomia differenziata rischia di non aiutare la scuola.

Ma non solo: a pesare sullo stato di salute  degli edifici scolastici sono anche i ritardi che si registrano sul fronte della sicurezza – solo il 50% delle scuole ha tutte le garanzie (ossia i certificati di sicurezza) – ma anche sul fronte servizi come, ad esempio, sull’innovazione digitale con poco più di 1 scuola su 2 che dispone di reti cablate e Wi-Fi.Le mense restano un servizio di qualità ma ancora non presente in tutte le aree del Paese. Il dato medio di 76,7% di edifici con mensa a livello nazionale, al Nord e al Centro sale rispettivamente al 92,2% e all’80,9%, mentre nel Sud e nelle Isole si ferma rispettivamente al 54,3% e al 41,2%. Preoccupa la poca attenzione alla sostenibilità, nel 64,9% delle mense vengono impiegate stoviglie monouso. Sul fronte trasporti solo il 19,7% delle scuole dispone di un servizio di mobilità collettiva come lo scuolabus; sui servizi per lo sport un impianto su quattro necessita di manutenzione urgente.

Le palestre aperte oltre l’orario scolastico sono oltre il 70% nei capoluoghi di provincia del Centro-Nord, per ridursi al 30,3% nelle Isole al Sud e ridimensionarsi a poco più del 40% nelle città del Sud delle Isole. Relativamente all’energia, solo il 20,9% degli edifici scolastici utilizza fonti di energia rinnovabile, con un picco al Nord (24,3%) e un minimo nelle Isole (14,1%), solo il 16,4% delle scuole ha visto realizzati interventi di efficientamento negli ultimi 5 anni e di tutti gli edifici scolastici, solo il 6,7 % si trova in classe A.  Per Legambiente è una grave mancanza che i Lep relativi all’istruzione non considerino tre servizi come trasporto scolastico, palestre e sostenibilità energetica. Si tratta di servizi indispensabili per garantire il diritto allo studio, l’accessibilità a strutture sportive pubbliche e ambienti qualitativamente vivibili anche da un punto di vista climatico.

Nel rapporto, poi, viene rilevato come «persiste, nella Penisola, il divario tra Nord e Sud anche in termini di capacità progettuale, di reperimento dei fondi e di finalizzazione della spesa. In particolare, per quel che riguarda i fondi nazionali per l’edilizia scolastica per interventi di diversa tipologia, nel 2023 nel Nord e nel Sud la media dei fondi nazionali ricevuti per edificio scolastico è stata di circa 1,4milioni di euro, nel Centro il dato scende a poco più di 600mila, per arrivare a meno di 300mila euro a edificio nelle Isole. Fondi esigui, quest’ultimi, per la messa in sicurezza e l’efficientamento degli edifici scolastici. Differenti anche i tempi di durata dei cantieri, se in alcune regioni del Nord possono essere di 8-10 mesi dallo stanziamento della risorsa all’opera ultimata, in diverse regioni del Sud possono invece arrivare a 24 mesi. Sul fronte nuova edilizia scolastica, negli ultimi 5 anni stando ai dati inviati dalle amministrazioni, nella Penisola sono solo 41 le scuole nuove costruite».

Alla luce dei dati emersi dal Report, Legambiente ha presentato dieci proposte che hanno come filo rosso un grande piano di rigenerazione partecipata delle scuole a partire da una manutenzione, gestione, organizzazione e qualità della scuola migliore. Primo intervento importante da mettere in campo, attivare da parte degli Enti Locali processi di amministrazione condivisa sulla base di patti educativi di Comunità. A seguire tra gli interventi prioritari per Legambiente occorre ampliare la funzione dell’anagrafe scolastica rendendo trasparenti le informazioni sullo stato di avanzamento degli interventi per l’edilizia scolastica e relativi finanziamenti, creare una struttura di governance per facilitare accesso e gestione dei fondi per l’edilizia scolastica da parte degli Enti Locali e garantire il funzionamento dell’Osservatorio per l’edilizia scolastico. (ams)

CONTRO L’EMIGRAZIONE GIOVANILE SI DEVE
PUNTARE A COLMARE IL DIVARIO NORD-SUD

di PIETRO MASSIMO BUSETTAVale 134 miliardi il capitale umano uscito con i giovani italiani emigrati: dalla Lombardia 23 miliardi, dalla Sicilia 15 e dal Veneto 12, e la quota dei laureati che vanno via diventa sempre più consistente. Così in una nota, firmata Lorenzo Di Lenna, ricercatore junior e Luca Paolazzi, direttore scientifico della Fondazione Nord Est, viene calcolato il costo del deflusso di giovani dal nostro Paese.

Nei tredici anni 2011-23 il valore del capitale umano che se ne è andato dall’Italia, e riguardante i giovani 18-34 emigrati, è pari a 133,9 miliardi, con la Lombardia a primeggiare per perdita (22,8 miliardi), seguita dalla Sicilia (14,5), dal Veneto (12,5) e dalla Campania (11,7). 

In realtà il dato assoluto in questo caso non ha alcun senso. Se invece esso viene rapportato alla popolazione residente in ciascuna regione ci si accorge facilmente che la classifica è diversa e vede il valore dei giovani meridionali che abbandonano quello più elevato. E questo calcolo riguarda soltanto il movimento rispetto ai trasferimenti in altre nazioni d’Europa e del mondo. Non tiene conto invece dei trasferimenti all’interno del nostro stesso Paese. Possiamo aggiungere allora che ogni anno le regioni del Sud “regalano” a quelle del Nord una cifra vicina ai 20 miliardi di euro, considerato che ogni ragazzo che viene formato fino alla scuola media superiore ha un costo che viene calcolato in circa 200.000 € e che ogni anno si trasferiscono dal Mezzogiorno verso il Nord del Paese 100.000 giovani, la maggior parte dei quali sono laureati e che quindi hanno un costo maggiore dei 200.000 € che sono stati riportati prima. 

Lanciare un grido d’allarme per evidenziare che il nostro non è un Paese attrattivo è corretto. Spesso le remunerazioni sono molto basse, vedasi cosa accade con i medici, che trovano convenienti le condizioni complessive offerte altrove. I diritti a cui si può accedere sono più ampi all’estero, si pensi al welfare di cui godono le giovani mamme o spesso ad una sanità che da noi non è all’altezza delle aspettative, soprattutto nel Mezzogiorno.

Insomma non solo un lavoro meglio retribuito, ma anche un welfare più consistente sono le motivazioni alla base della scelta di chi preferisce abbandonare l’Italia e trova conveniente spostarsi. Ma una distinzione tra coloro che abbandonano il Mezzogiorno e quelli che abbandonano il Centro Nord va fatta.

Infatti non si tratta dello stesso tipo di trasferimento. Nel Nord si assiste ad un processo, che peraltro può essere anche virtuoso, perché consente ai giovani italiani di acquisire skill che magari in Italia avrebbero più difficoltà a conseguire. 

Si chiama mobilità ed è un processo in genere bidirezionale, da un paese all’altro, ed arricchisce entrambi i territori. Il giovane inglese viene a lavorare in Italia e il suo collega italiano va a Londra. Nel loro percorso di vita ci potrà essere un ritorno nelle loro aree di origine, perché non sarà difficile per l’ingegnere che si è specializzato in un’azienda londinese trovare la possibilità di essere accolto in una altrettanto bell’azienda brianzola, nella quale potrà continuare il lavoro che svolgeva nella prima. 

Caratteristiche diverse ha l’abbandono dei territori meridionali: in tal caso si parla di emigrazione, che è quel fenomeno che riguarda i paesi poveri, che li depaupera delle migliori energie, che non hanno alcuna possibilità di trovare collocazione nel sistema imprenditoriale esistente. 

In quel caso si tratta di una perdita netta perché senza ritorno: essendovi un sistema manifatturiero imprenditoriale molto carente, le professionalità che vanno via difficilmente potranno trovare collocazione in un eventuale loro, desiderato, ritorno, che avverrà probabilmente soltanto nella fase della pensione.

Per cui il danno sarà doppio: la prima volta lo si avrà quando si perde il costo della formazione sostenuto dalla Comunità di appartenenza, la seconda volta al loro ritorno nelle terre di origine, perché queste dovranno farsi carico di fornire le prestazioni sanitarie, che, come è noto, sono molto più frequenti quando si raggiunge una certa età. 

Peraltro il Nord del Paese, in ogni caso si rifà di eventuali perdite di capitale umano formato attraendo i giovani meridionali, spesso con operazioni di comunicazione scientifiche e programmate. Il Sud invece ha performance simili a quelle dei Paesi in via di sviluppo, come Tunisia, Marocco, Libia.

La differenza è che dal Nord Africa o dall’Africa Centrale arrivano con i barconi, dal Sud basta un volo low cost, ma il depauperamento è uguale.    

Certo consentire un tipo di abbandono come quello di cui si è parlato senza che lo Stato di appartenenza possa rifarsi perlomeno in parte dei costi sostenuti per “l’allevamento“ di tali giovani è un percorso che va rivisto. Anche se in una libera Europa, dove merci e persone possono muoversi liberamente, pensare a rimborsi dovuti allo Stato da chi lascia la propria nazione è assolutamente inimmaginabile, come lo è però la cannibalizzazione che viene fatta nei confronti di alcuni paesi, tipo per esempio la Croazia. 

I meccanismi seri che possono alla base evitare tali processi che impoveriscono alcune aree riguardano soltanto lo sviluppo di esse, le eliminazioni dei divari, che poi è quello su cui l’Europa sta cercando di lavorare più alacremente. Ma è anche il percorso più difficile. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’altravoce dell’Italia]