NON È SOLAMENTE PRECARIO: IN CALABRIA
IL LAVORO SFRUTTA, DISCRIMINA E UCCIDE

di SILVIO CACCIATORE – «Il lavoro in Calabria non è solo precario. È spesso pericoloso, diseguale, silenziosamente violento». Con queste parole la relazione 2024 dell’Osservatorio regionale contro le discriminazioni nei luoghi di lavoro apre una pagina che non concede attenuanti. Non si tratta di una formula giornalistica, né di una provocazione. È la constatazione di un dato reale, ripetuto nei numeri, nei racconti, nei silenzi. Parlare di discriminazioni nel lavoro, oggi, in questa regione, significa descrivere un sistema in cui la negazione dei diritti non è l’eccezione, ma la condizione diffusa.

Il documento, presentato nella sede del Consiglio regionale, non si limita a raccogliere statistiche. È un atto politico. È un atto d’accusa preciso contro chi governa, controlla, assume, gestisce. Perché se tutto questo continua ad accadere, non è per caso. È perché lo si consente. È perché fa comodo. È perché nessuno ha ancora deciso davvero di cambiare le regole del gioco. L’Osservatorio, guidato da Ornella Cuzzupi, mostra che l’alternativa è possibile. Ma serve chiamare le cose con il loro nome. E oggi il nome è questo: discriminazione sistemica.

La sicurezza negata

I numeri che emergono dalla relazione sono inequivocabili. E cominciano da quello che pesa di più: la vita umana. Nel 2024, in Calabria, 26 persone hanno perso la vita sul luogo di lavoro. La cifra è stabile rispetto all’anno precedente (erano 29), ma questo non è un dato che si possa accogliere come una semplice statistica. «È inaccettabile che non si faccia il massimo, e anche oltre, per evitare simili sciagure» si legge nel testo. Dietro ogni numero ci sono famiglie spezzate, lacrime, assenze che non si colmano. Eppure, come denuncia lo stesso Osservatorio, si continua a trattare il lavoro solo come un’urgenza economica, mentre dovrebbe essere anzitutto una questione di dignità e di sicurezza.

Il dato complessivo sugli infortuni registra un preoccupante aumento: 8.857 denunce nel 2024, con un incremento del +2,04% rispetto al 2023, superiore al +0,7% registrato a livello nazionale. Le province più colpite sono Cosenza (37,7%) e Reggio Calabria (23,3%), mentre la fascia d’età con maggiore incidenza è quella tra i 50 e i 69 anni, che raccoglie oltre un terzo degli infortuni totali. I settori più colpiti sono la sanità, l’amministrazione pubblica, l’edilizia e il trasporto.

Ma il nodo centrale non è solo nella quantità degli incidenti. È nella loro natura strutturale. Perché, come sottolineato più volte nella relazione, «la prima discriminazione da combattere nei luoghi di lavoro è la mancanza di sicurezza». Non si tratta solo di incidenti casuali: si tratta di un sistema in cui il lavoratore viene lasciato solo, spesso ricattabile, senza strumenti per difendersi né garanzie minime per denunciare. Un sistema in cui la precarietà si traduce in esposizione quotidiana al rischio. E dove la rassegnazione ha sostituito la fiducia.

Il lavoro nero come normalità

In Calabria il lavoro nero non è un’eccezione: è un segmento strutturale del sistema produttivo. Lo dicono i numeri, lo confermano le ispezioni, lo testimoniano le storie raccolte sul campo. La regione è la prima in Italia per incidenza del lavoro non dichiarato, con un tasso del 7,9% sul valore aggiunto regionale, il doppio rispetto alla media nazionale. Un dato che non può essere archiviato con leggerezza, soprattutto se messo in relazione con un altro indicatore contenuto nella relazione: il 19,1% dell’intera economia calabrese rientra nell’area dell’economia non osservata, ovvero sommersa.

Nell’area metropolitana di Reggio Calabria, nel 2024, l’Ispettorato ha individuato 179 lavoratori in nero, di cui 52 donne, su un totale di 623 soggetti tutelati. L’INPS, nel solo anno 2023, ha scoperto in Calabria 365 posizioni lavorative completamente in nero e oltre 1.600 rapporti di lavoro fittizi. L’Ispettorato nazionale del lavoro ha certificato irregolarità nel 69% dei controlli effettuati, con picchi superiori al 70% nei settori del commercio e del terziario.

Dietro questi numeri ci sono decine di migliaia di vite che vivono sospese tra ricatto e invisibilità. Il lavoro nero è discriminazione nella sua forma più pura: esclude da ogni diritto, riduce al silenzio, normalizza lo sfruttamento. E spesso riguarda le fasce più vulnerabili della popolazione: donne, giovani, stranieri. Proprio questi ultimi rappresentano circa il 15% della forza lavoro calabrese e sono spesso impiegati in condizioni al limite del caporalato, senza protezione alcuna, nei settori dell’agricoltura, dell’edilizia e della logistica. La relazione lo afferma chiaramente: la discriminazione è anche il carburante che tiene in piedi l’irregolarità, perché rende più facile isolare, intimidire, dividere.

La violenza sul lavoro ha tanti nomi

Una delle sezioni più inquietanti della relazione riguarda la violenza e le molestie nei luoghi di lavoro. Perché se la discriminazione salariale o contrattuale è un’ingiustizia quantificabile, qui si entra nel terreno più complesso della violenza invisibile, fatta di abusi verbali, prevaricazioni quotidiane, pressioni psicologiche, ricatti e micro-aggressioni. Secondo l’indagine condotta da IPSOS-INAIL, il 60% dei lavoratori calabresi è a conoscenza di episodi di violenza sul posto di lavoro. Ma c’è di più: il 42% ha dichiarato di esserne stato testimone diretto o vittima.

Le forme più diffuse sono la violenza verbale (56%), il mobbing (53%), l’abuso di potere (37%), fino ad arrivare ai casi di violenza fisica (10%). Ma la relazione richiama con forza anche un’altra dinamica, spesso banalizzata o ignorata: la dimensione sessista del lavoro, che si manifesta sotto forma di battute, esclusioni sistematiche, allusioni, mansioni neglette o affidate sulla base di stereotipi di genere. Tutto questo, sottolinea l’Osservatorio, avviene troppo spesso in ambienti privi di qualunque presidio etico e culturale, dove la gerarchia si trasforma in arbitrio e la paura vince sulla consapevolezza.

In questo contesto, denunciare è difficile. Per molti è più sicuro tacere, abbassare lo sguardo, resistere, nella speranza che passi. La relazione punta il dito contro questo silenzio: non come colpa individuale, ma come effetto sistemico di un contesto che non protegge, non ascolta, non accompagna. È anche su questo fronte che l’Osservatorio vuole agire: costruendo ambienti di lavoro sicuri, accessibili, capaci di riconoscere e prevenire la violenza. Perché nessun contratto, nessuna retribuzione, nessuna necessità giustifica l’umiliazione.

Il peso silenzioso del divario di genere

Nel 2025, in Calabria, una donna continua a guadagnare meno di un uomo anche se ha lo stesso titolo di studio, la stessa mansione, le stesse competenze. È un dato tanto evidente quanto ignorato. La relazione lo documenta con precisione, mettendo in fila numeri che raccontano una discriminazione tanto antica quanto viva. Il gender pay gap è una ferita aperta che attraversa l’intero sistema produttivo calabrese, colpendo soprattutto le lavoratrici più qualificate e quelle appartenenti alle fasce più deboli, come le donne extracomunitarie.

I dati INPS lo confermano: tra i lavoratori comunitari, gli uomini percepiscono in media 496,5 euro a settimana, contro i 436,3 euro delle colleghe. Ma è tra gli extracomunitari che il divario si fa abisso: 326,8 euro per gli uomini, 243,5 euro per le donne. Un vuoto che non può più essere giustificato con spiegazioni di comodo. Perché il problema, chiarisce l’Osservatorio, non è la produttività, non è l’impegno, non è la formazione. È la cultura del lavoro che continua a penalizzare in base al genere.

A essere penalizzate non sono solo le buste paga, ma anche le possibilità di crescita, la stabilità contrattuale, la conciliazione tra vita e lavoro, l’accesso ai ruoli di responsabilità. In molte aziende calabresi, soprattutto di piccole dimensioni, le donne vengono ancora considerate un “rischio”, una variabile da gestire con prudenza, un costo. Un retaggio che affonda nelle radici più profonde del tessuto sociale, e che richiede una rivoluzione culturale prima ancora che normativa.

Non bastano più leggi scritte e programmi annunciati. Occorre, come afferma Ornella Cuzzupi, «trasformare la cultura d’impresa e quella istituzionale, perché una terra che penalizza le sue donne è una terra che sceglie di restare povera».

«Abbiamo la responsabilità di trasmettere fiducia ai giovani e alle donne di questa terra – prosegue la Presidente dell’Osservatorio -. La Calabria può diventare la California d’Europa, ma serve passione, serve coscienza, serve voglia di rimboccarsi le maniche». Una chiamata alla mobilitazione civile, prima ancora che politica. «Troppa gente ha paura di denunciare, di esporsi, di farsi valere. Perché manca la certezza di essere ascoltati, protetti, creduti. E invece è proprio lì che dobbiamo intervenire».

Con uno sguardo che integra i dati regionali in una cornice nazionale, Mattia Peradotto, direttore dell’UNAR, evidenzia come il tessuto delle microimprese calabresi, pur tra mille difficoltà, possa diventare un laboratorio virtuoso. «Se ben stimolato, questo sistema può trasformarsi in presidio di legalità e rispetto. Ma servono strumenti, serve visione, serve continuità».

A fare il punto sul quadro istituzionale è infine Filippo Mancuso, presidente del Consiglio regionale. «Non è solo una questione di ritardo. È qui che le disuguaglianze sono più profonde, più strutturali, più difficili da scardinare. L’occupazione femminile è ferma al 40%, la disoccupazione è al 16%, e il primo morto sul lavoro del 2024 è stato in Calabria. Basta girare lo sguardo». Poi rilancia il ruolo dell’Osservatorio come strumento “non decorativo”, ma operativo. Come antenna, come radar, come mappa viva per agire con consapevolezza. «Se non lo facciamo ora, continueremo a raccontare sempre le stesse tragedie».

In troppi casi, lavorare in questa regione significa accettare condizioni che altrove non sarebbero nemmeno tollerate. Il lavoro nero, le molestie, il ricatto occupazionale, la differenza salariale tra uomo e donna, l’impunità nei confronti di chi viola le regole: tutto questo compone un sistema che conviene a pochi e danneggia tutti. Un sistema che si regge sul silenzio e sulla mancanza di alternative. (sc)

[Courtesy LaCNews24]

LA PRECARIETÀ È UN PROBLEMA DIFFUSO IN
CALABRIA: BASTA LAVORATORI “INVISIBILI”

di ANTONIETTA MARIA STRATI – «Chiedete ai vostri figli, ai vostri nipoti, quanti hanno una stabilità lavorativa. C’è una situazione di precariato diffuso. Non è solo la quantità, ma la qualità dell’occupazione». Sono dure le parole di Pierpaolo Bombardieri, segretario nazionale di Uil Calabria, nel corso della Carovana Uil, l’iniziativa del sindacato che ha gremito piazza dei Bruzi a Cosenza.

Una vera e propria ondata azzurra che ha colorato la piazza cosentina per sensibilizzare sul tema dei lavoratori fantasma: «Con questa nostra iniziativa in giro per l’Italia, vogliamo richiamare la politica, l’opinione pubblica e gli imprenditori sulla necessità di affrontare il tema della precarietà, perché occorrono decisioni e scelte che facciano diventare queste ragazze e questi ragazzi delle persone in grado di rivendicare ed esercitare diritti e tutele come chiunque altro», ha spiegato Bombardieri nel corso della manifestazione di Pescara dello scorso 3 aprile, sottolineando come «nonostante  record sbandierati dal governo sull’occupazione, la vita quotidiana ci dimostra tutt’altro: ancora troppi sono i precari e i lavoratori in nero, persone ridotte a fantasmi per la società, perché chi non ha un contratto a tempo indeterminato non può rivolgersi a una banca per un mutuo, non può comprare una macchina, non può acquistare un cellulare, ma soprattutto non può programmare la propria vita».

«Chi ha un lavoro precario è un fantasma – ha tuonato il sindacalista a Cosenza – non lo vede nessuno, soprattutto le banche e chi deve vendergli le case. Allora è necessario fare degli interventi per dare a questi ragazzi e a queste ragazze la possibilità di diventare persone».

«Per l’Istat – ha proseguito – 6 milioni di persone sono povere e 7 si avvicinano alla povertà assoluta. Ed è ovvio che chi guadagna 20-24 mila euro lordi l’anno, anche se ha un lavoro, non è in grado di vivere dignitosamente».

«Il Senato stima una perdita di 50.000 posti di lavoro. Ci dicono “niente panico”, ma provate a dirlo a chi rischia di non pagare il mutuo o la rata dell’auto. Per loro è una catastrofe reale, non una crisi astratta», ha proseguito Bombardieri, per poi parlare del tema dei dazi: «il governo parla solo con le imprese. Ma se le aziende chiudono, chi perde il lavoro sono i lavoratori. Chiediamo che al tavolo siedano anche i sindacati, non solo una parte del Paese».

«Ci sono 400.000 lavoratori e lavoratrici in aziende che producono servizi e beni esportati soprattutto negli Stati Uniti d’America, per quasi 70 miliardi: in particolare il settore meccanico, con 11 miliardi e mezzo, quello della moda, con 5 miliardi e quello agroalimentare, con 7,8 miliardi», aveva spiegato Bombardieri a Napoli, nel corso del convegno organizzato dalla Uil Polizia sul tema della sicurezza.

«Se i dazi – ha precisato il leader della Uil – producono un ridimensionamento delle attività almeno del 10%, rischiamo decine di migliaia di posti di lavoro. È necessario intervenire subito differenziando i mercati: dobbiamo trovare altre zone dove poter esportare. E, poi, bisogna favorire i consumi nel nostro Paese: ecco perché rilanciamo l’idea di detassare gli aumenti contrattuali e di rinnovare i contratti. Serve, infine, che l’Europa dia una risposta chiara e non che a trattare sia ogni singolo Stato, perché questo ci renderebbe più deboli.

«In tale quadro – ha detto Bombardieri – ribadiamo anche che il Patto di stabilità è un errore dal punto di vista economico: finalmente anche la Presidente del consiglio ha assunto questa posizione».

Le soluzioni ci sono, secondo Bombardieri, e ne suggerisce alcune: diversificare i mercati, affidare all’Europa le trattative, aumentare i salati per rilanciare i consumi e sbloccare i contratti scaduti dei metalmeccanici e del pubblico impiego.

«Serve una svolta sul precariato: la Spagna ha limitato i contratti a termine e l’occupazione è cresciuta», ha detto ancora Bombardieri, passando poi sul tema della Questione Meridionale, «scomparsa dai radar».

«Ma senza il Sud, l’Italia non riparte – ha ribadito –. Il Mezzogiorno ha bisogno di infrastrutture, investimenti e attenzione reale. Chi vive lì ha la stessa dignità di chi vive altrove».

«Basta lavoratori invisibili. È il momento di scelte coraggiose per un’Italia più giusta, più inclusiva, più vera», ha concluso Bombardieri.

Mariaelena Senese, segretaria generale Uil Calabria, sa bene qual è la situazione regionale, a livello occupazionale: «il 61% dei giovani calabresi è assunto con contratti atipici o a tempo determinato».

«Noi oggi vogliamo parlare di lavoro stabile», ha detto Senese, sottolineando «la lungimiranza di questa iniziativa dedicata al precariato, che è una piaga che affligge in modo particolare questa regione. C’è un effetto di scoraggiamento evidente».

«Il Governo continua a mentire sull’occupazione, dicendo che la percentuale degli occupati è aumentata e siamo a livelli record. La maggior parte di questi occupati, però, sono precari o a tempo determinato. Di questi, tanti sono giovani: come si può pensare a un futuro se non si ha la certezza del lavoro?», ha chiesto la sindacalista.

Tanti, sul palco della Uil, a riflettere sul tema del lavoro: Emanuele Ronzoni, segretario organizzativo della Uil, la vicesindaca di Cosenza, Maria Locanto, che ha parlato dell’importanza di «parlare di lavoro oggi» e di come «il precariato è la vera piaga del lavoro di oggi. La parola sfruttato e la parola lavoro non possono stare insieme».

«Ogni testimonianza è importante e insieme abbiamo messo in luce le problematiche reali che meritano di essere ascoltate e affrontate. Come sempre porteremo ai tavoli del governo proposte concrete per costruire un futuro più giusto e equo per tutti», dice il sindacato in una nota.

La due giorni della carovana della Uil è stata, dunque, un’occasione di confronto e crescita «in una piazza, quella di Cosenza, piena di giovani che rappresentano il nostro futuro». (ams)

I GIOVANI, LA PRECARIETÀ E IL RIFIUTO DEL
POSTO FISSO: UNA SFIDA PER LA CALABRIA

di FRANCESCO RAONegli ultimi decenni, il concetto di “posto fisso” – da sempre simbolo di sicurezza economica e stabilità sociale – ha subito una radicale trasformazione. In una società in continuo mutamento, anche i Millennials del Meridione, hanno posto un approccio differente al paradigma tradizionale riconducibile all’impiego stabile, adottando una visione del lavoro più fluida e dinamica.

Il modello del posto fisso, radicato nell’Italia del dopoguerra, era strettamente legato a una concezione di società caratterizzata da una forte divisione del lavoro, da una gerarchia ben definita e da norme sociali che garantivano l’inclusione e la solidarietà. Le riforme come lo Statuto dei Lavoratori del 1970 e le norme contrattuali consolidavano il legame tra individuo e istituzione, promuovendo un modello di fedeltà aziendale e sicurezza previdenziale. Con l’avvento della globalizzazione, della digitalizzazione e delle trasformazioni tecnologiche, autori come Ulrich Beck hanno descritto la nascita della “società del rischio”, in cui le tradizionali garanzie diventano sempre più fragili. In tale contesto, la progressiva erosione del modello industriale ha fatto emergere una realtà caratterizzata da contratti precari e forme di lavoro atipiche, in cui il rischio diventa una componente intrinseca della vita professionale e al contempo tale instabilità, si è diffusa nel tessuto sociale generando precarietà e marginalità sociale. Anche per buona parte dei Millennials calabresi, l’approccio al lavoro assume una identità diversa rispetto al passato.

La nuova etica del lavoro non è più solo una questione economica, ma rappresenta anche un percorso di autodefinizione e realizzazione personale. Da un punto di vista sociologico, grazie al pensiero di Anthony Giddens sulla “riflessività della modernità”, comprendiamo perché i giovani contemporanei sono chiamati a rinegoziare il significato del lavoro in un contesto in cui la tradizionale identità professionale si dissolve a favore di una molteplicità di esperienze e ruoli. In Calabria, il tessuto economico è stato storicamente segnato da instabilità e disuguaglianze e l’adozione di modelli flessibili – come il lavoro freelance, lo smart working e l’autoimprenditorialità – risponde a un doppio imperativo: cercare autonomia e superare le limitazioni di un mercato del lavoro che, come evidenziato da dati Istat (2023), registra un aumento del 40% dei contratti a termine negli ultimi dieci anni.

La carenza di tutele sociali, la difficoltà di accesso al credito per l’autoimprenditorialità e le infrastrutture digitali insufficienti in Calabria rappresentano sfide significative e prioritarie. La lettura sociologica del fenomeno evidenzia come il processo di individualizzazione – caratteristico della modernità tardiva – possa generare un aumento del senso di precarietà e isolamento, se non accompagnato da politiche pubbliche in grado di garantire una rete di sicurezza adeguata. Come già anticipato, il contesto socioeconomico del Sud Italia presenta peculiarità che incidono profondamente sulle scelte dei giovani.

Secondo il recente rapporto Svimez, il tasso di occupazione nel Meridione è inferiore di circa 20 punti percentuali rispetto al Centro-Nord, mentre in Calabria la prevalenza di contratti precari e il lavoro informale sono ormai all’ordine del giorno. Queste condizioni hanno contribuito a creare una “cultura della fuga”.

Il Censis nel 2022 prevedeva che tra il 2000 e il 2020 oltre 500.000 giovani lasceranno il Sud in cerca di opportunità, ponendo lo sguardo all’indietro, quello studio era veritiero e oggi, in mancanza di riforme strutturali e concretezza, si rischia di compiere il secondo atto alimentando ulteriormente la “fuga di cervelli”.

Queste dinamiche orientano la profonda trasformazione culturale in atto nella quale il lavoro diventa uno strumento per esprimere la propria identità e non pià un mezzo per garantire la sussistenza e la progettualità del futuro. Tale dinamica, attraverso le scienze sociali, può essere letta come un processo di disaffezione dalle istituzioni e dalla tradizione, in cui la mancanza di investimenti in infrastrutture digitali e la debolezza del tessuto imprenditoriale locale spingono i giovani a cercare identità e opportunità altrove.

La teoria della “società liquida” di Zygmunt Bauman, oltre a descrivere un mondo in cui le strutture sociali sono in costante divenire e l’incertezza è una normalità, trova una perfetta applicazione in questo contesto ma trascura l’evidente segno di malessere delle generazioni anziane, sempre più sole e soprattutto esposte ad un sistema di istituzioni digitali con le quali, il digital divide, non consente il dialogo.

L’evoluzione del mondo del lavoro e il rifiuto del posto fisso da parte dei giovani del Meridione costituiscono una sfida complessa che richiede una riflessione multidimensionale. Se da un lato il modello tradizionale si dimostra ormai inadatto a una società in rapido cambiamento, dall’altro l’assenza di un adeguato supporto strutturale rischia di tradurre la flessibilità in ulteriore precarietà.

Le teorie sociologiche contemporanee ci invitano a considerare il lavoro non solo come una dimensione economica, ma anche come uno spazio di identità, appartenenza e trasformazione sociale. La sfida per il futuro sarà quella di coniugare innovazione e stabilità, promuovendo politiche che incentivino l’autoimprenditorialità e investimenti nelle infrastrutture digitali, senza dimenticare l’importanza di una tutela sociale che risponda alle nuove dinamiche del mercato.

In definitiva, il fenomeno osservato nel Meridione non rappresenta un semplice capovolgimento delle logiche occupazionali, ma una profonda trasformazione del modo in cui le nuove generazioni concepiscono il proprio futuro e il loro ruolo nella società. Solo attraverso una comprensione integrata di queste dinamiche sarà possibile costruire un modello di sviluppo che valorizzi la flessibilità senza sacrificare la sicurezza e l’inclusione sociale. (fr)

[Francesco Rao è docente a contratto cattedra di sociologia generale – Università “Tor Vergata” Roma]