LA PRECARIETÀ È UN PROBLEMA DIFFUSO IN
CALABRIA: BASTA LAVORATORI “INVISIBILI”

di ANTONIETTA MARIA STRATI – «Chiedete ai vostri figli, ai vostri nipoti, quanti hanno una stabilità lavorativa. C’è una situazione di precariato diffuso. Non è solo la quantità, ma la qualità dell’occupazione». Sono dure le parole di Pierpaolo Bombardieri, segretario nazionale di Uil Calabria, nel corso della Carovana Uil, l’iniziativa del sindacato che ha gremito piazza dei Bruzi a Cosenza.

Una vera e propria ondata azzurra che ha colorato la piazza cosentina per sensibilizzare sul tema dei lavoratori fantasma: «Con questa nostra iniziativa in giro per l’Italia, vogliamo richiamare la politica, l’opinione pubblica e gli imprenditori sulla necessità di affrontare il tema della precarietà, perché occorrono decisioni e scelte che facciano diventare queste ragazze e questi ragazzi delle persone in grado di rivendicare ed esercitare diritti e tutele come chiunque altro», ha spiegato Bombardieri nel corso della manifestazione di Pescara dello scorso 3 aprile, sottolineando come «nonostante  record sbandierati dal governo sull’occupazione, la vita quotidiana ci dimostra tutt’altro: ancora troppi sono i precari e i lavoratori in nero, persone ridotte a fantasmi per la società, perché chi non ha un contratto a tempo indeterminato non può rivolgersi a una banca per un mutuo, non può comprare una macchina, non può acquistare un cellulare, ma soprattutto non può programmare la propria vita».

«Chi ha un lavoro precario è un fantasma – ha tuonato il sindacalista a Cosenza – non lo vede nessuno, soprattutto le banche e chi deve vendergli le case. Allora è necessario fare degli interventi per dare a questi ragazzi e a queste ragazze la possibilità di diventare persone».

«Per l’Istat – ha proseguito – 6 milioni di persone sono povere e 7 si avvicinano alla povertà assoluta. Ed è ovvio che chi guadagna 20-24 mila euro lordi l’anno, anche se ha un lavoro, non è in grado di vivere dignitosamente».

«Il Senato stima una perdita di 50.000 posti di lavoro. Ci dicono “niente panico”, ma provate a dirlo a chi rischia di non pagare il mutuo o la rata dell’auto. Per loro è una catastrofe reale, non una crisi astratta», ha proseguito Bombardieri, per poi parlare del tema dei dazi: «il governo parla solo con le imprese. Ma se le aziende chiudono, chi perde il lavoro sono i lavoratori. Chiediamo che al tavolo siedano anche i sindacati, non solo una parte del Paese».

«Ci sono 400.000 lavoratori e lavoratrici in aziende che producono servizi e beni esportati soprattutto negli Stati Uniti d’America, per quasi 70 miliardi: in particolare il settore meccanico, con 11 miliardi e mezzo, quello della moda, con 5 miliardi e quello agroalimentare, con 7,8 miliardi», aveva spiegato Bombardieri a Napoli, nel corso del convegno organizzato dalla Uil Polizia sul tema della sicurezza.

«Se i dazi – ha precisato il leader della Uil – producono un ridimensionamento delle attività almeno del 10%, rischiamo decine di migliaia di posti di lavoro. È necessario intervenire subito differenziando i mercati: dobbiamo trovare altre zone dove poter esportare. E, poi, bisogna favorire i consumi nel nostro Paese: ecco perché rilanciamo l’idea di detassare gli aumenti contrattuali e di rinnovare i contratti. Serve, infine, che l’Europa dia una risposta chiara e non che a trattare sia ogni singolo Stato, perché questo ci renderebbe più deboli.

«In tale quadro – ha detto Bombardieri – ribadiamo anche che il Patto di stabilità è un errore dal punto di vista economico: finalmente anche la Presidente del consiglio ha assunto questa posizione».

Le soluzioni ci sono, secondo Bombardieri, e ne suggerisce alcune: diversificare i mercati, affidare all’Europa le trattative, aumentare i salati per rilanciare i consumi e sbloccare i contratti scaduti dei metalmeccanici e del pubblico impiego.

«Serve una svolta sul precariato: la Spagna ha limitato i contratti a termine e l’occupazione è cresciuta», ha detto ancora Bombardieri, passando poi sul tema della Questione Meridionale, «scomparsa dai radar».

«Ma senza il Sud, l’Italia non riparte – ha ribadito –. Il Mezzogiorno ha bisogno di infrastrutture, investimenti e attenzione reale. Chi vive lì ha la stessa dignità di chi vive altrove».

«Basta lavoratori invisibili. È il momento di scelte coraggiose per un’Italia più giusta, più inclusiva, più vera», ha concluso Bombardieri.

Mariaelena Senese, segretaria generale Uil Calabria, sa bene qual è la situazione regionale, a livello occupazionale: «il 61% dei giovani calabresi è assunto con contratti atipici o a tempo determinato».

«Noi oggi vogliamo parlare di lavoro stabile», ha detto Senese, sottolineando «la lungimiranza di questa iniziativa dedicata al precariato, che è una piaga che affligge in modo particolare questa regione. C’è un effetto di scoraggiamento evidente».

«Il Governo continua a mentire sull’occupazione, dicendo che la percentuale degli occupati è aumentata e siamo a livelli record. La maggior parte di questi occupati, però, sono precari o a tempo determinato. Di questi, tanti sono giovani: come si può pensare a un futuro se non si ha la certezza del lavoro?», ha chiesto la sindacalista.

Tanti, sul palco della Uil, a riflettere sul tema del lavoro: Emanuele Ronzoni, segretario organizzativo della Uil, la vicesindaca di Cosenza, Maria Locanto, che ha parlato dell’importanza di «parlare di lavoro oggi» e di come «il precariato è la vera piaga del lavoro di oggi. La parola sfruttato e la parola lavoro non possono stare insieme».

«Ogni testimonianza è importante e insieme abbiamo messo in luce le problematiche reali che meritano di essere ascoltate e affrontate. Come sempre porteremo ai tavoli del governo proposte concrete per costruire un futuro più giusto e equo per tutti», dice il sindacato in una nota.

La due giorni della carovana della Uil è stata, dunque, un’occasione di confronto e crescita «in una piazza, quella di Cosenza, piena di giovani che rappresentano il nostro futuro». (ams)

I GIOVANI, LA PRECARIETÀ E IL RIFIUTO DEL
POSTO FISSO: UNA SFIDA PER LA CALABRIA

di FRANCESCO RAONegli ultimi decenni, il concetto di “posto fisso” – da sempre simbolo di sicurezza economica e stabilità sociale – ha subito una radicale trasformazione. In una società in continuo mutamento, anche i Millennials del Meridione, hanno posto un approccio differente al paradigma tradizionale riconducibile all’impiego stabile, adottando una visione del lavoro più fluida e dinamica.

Il modello del posto fisso, radicato nell’Italia del dopoguerra, era strettamente legato a una concezione di società caratterizzata da una forte divisione del lavoro, da una gerarchia ben definita e da norme sociali che garantivano l’inclusione e la solidarietà. Le riforme come lo Statuto dei Lavoratori del 1970 e le norme contrattuali consolidavano il legame tra individuo e istituzione, promuovendo un modello di fedeltà aziendale e sicurezza previdenziale. Con l’avvento della globalizzazione, della digitalizzazione e delle trasformazioni tecnologiche, autori come Ulrich Beck hanno descritto la nascita della “società del rischio”, in cui le tradizionali garanzie diventano sempre più fragili. In tale contesto, la progressiva erosione del modello industriale ha fatto emergere una realtà caratterizzata da contratti precari e forme di lavoro atipiche, in cui il rischio diventa una componente intrinseca della vita professionale e al contempo tale instabilità, si è diffusa nel tessuto sociale generando precarietà e marginalità sociale. Anche per buona parte dei Millennials calabresi, l’approccio al lavoro assume una identità diversa rispetto al passato.

La nuova etica del lavoro non è più solo una questione economica, ma rappresenta anche un percorso di autodefinizione e realizzazione personale. Da un punto di vista sociologico, grazie al pensiero di Anthony Giddens sulla “riflessività della modernità”, comprendiamo perché i giovani contemporanei sono chiamati a rinegoziare il significato del lavoro in un contesto in cui la tradizionale identità professionale si dissolve a favore di una molteplicità di esperienze e ruoli. In Calabria, il tessuto economico è stato storicamente segnato da instabilità e disuguaglianze e l’adozione di modelli flessibili – come il lavoro freelance, lo smart working e l’autoimprenditorialità – risponde a un doppio imperativo: cercare autonomia e superare le limitazioni di un mercato del lavoro che, come evidenziato da dati Istat (2023), registra un aumento del 40% dei contratti a termine negli ultimi dieci anni.

La carenza di tutele sociali, la difficoltà di accesso al credito per l’autoimprenditorialità e le infrastrutture digitali insufficienti in Calabria rappresentano sfide significative e prioritarie. La lettura sociologica del fenomeno evidenzia come il processo di individualizzazione – caratteristico della modernità tardiva – possa generare un aumento del senso di precarietà e isolamento, se non accompagnato da politiche pubbliche in grado di garantire una rete di sicurezza adeguata. Come già anticipato, il contesto socioeconomico del Sud Italia presenta peculiarità che incidono profondamente sulle scelte dei giovani.

Secondo il recente rapporto Svimez, il tasso di occupazione nel Meridione è inferiore di circa 20 punti percentuali rispetto al Centro-Nord, mentre in Calabria la prevalenza di contratti precari e il lavoro informale sono ormai all’ordine del giorno. Queste condizioni hanno contribuito a creare una “cultura della fuga”.

Il Censis nel 2022 prevedeva che tra il 2000 e il 2020 oltre 500.000 giovani lasceranno il Sud in cerca di opportunità, ponendo lo sguardo all’indietro, quello studio era veritiero e oggi, in mancanza di riforme strutturali e concretezza, si rischia di compiere il secondo atto alimentando ulteriormente la “fuga di cervelli”.

Queste dinamiche orientano la profonda trasformazione culturale in atto nella quale il lavoro diventa uno strumento per esprimere la propria identità e non pià un mezzo per garantire la sussistenza e la progettualità del futuro. Tale dinamica, attraverso le scienze sociali, può essere letta come un processo di disaffezione dalle istituzioni e dalla tradizione, in cui la mancanza di investimenti in infrastrutture digitali e la debolezza del tessuto imprenditoriale locale spingono i giovani a cercare identità e opportunità altrove.

La teoria della “società liquida” di Zygmunt Bauman, oltre a descrivere un mondo in cui le strutture sociali sono in costante divenire e l’incertezza è una normalità, trova una perfetta applicazione in questo contesto ma trascura l’evidente segno di malessere delle generazioni anziane, sempre più sole e soprattutto esposte ad un sistema di istituzioni digitali con le quali, il digital divide, non consente il dialogo.

L’evoluzione del mondo del lavoro e il rifiuto del posto fisso da parte dei giovani del Meridione costituiscono una sfida complessa che richiede una riflessione multidimensionale. Se da un lato il modello tradizionale si dimostra ormai inadatto a una società in rapido cambiamento, dall’altro l’assenza di un adeguato supporto strutturale rischia di tradurre la flessibilità in ulteriore precarietà.

Le teorie sociologiche contemporanee ci invitano a considerare il lavoro non solo come una dimensione economica, ma anche come uno spazio di identità, appartenenza e trasformazione sociale. La sfida per il futuro sarà quella di coniugare innovazione e stabilità, promuovendo politiche che incentivino l’autoimprenditorialità e investimenti nelle infrastrutture digitali, senza dimenticare l’importanza di una tutela sociale che risponda alle nuove dinamiche del mercato.

In definitiva, il fenomeno osservato nel Meridione non rappresenta un semplice capovolgimento delle logiche occupazionali, ma una profonda trasformazione del modo in cui le nuove generazioni concepiscono il proprio futuro e il loro ruolo nella società. Solo attraverso una comprensione integrata di queste dinamiche sarà possibile costruire un modello di sviluppo che valorizzi la flessibilità senza sacrificare la sicurezza e l’inclusione sociale. (fr)

[Francesco Rao è docente a contratto cattedra di sociologia generale – Università “Tor Vergata” Roma]