A Satriano il presepe “Gocce d’amore”

Nei locali dell’edificio scolastico di Piazza Dante, è stato realizzato il presepe “Gocce d’amore” dagli artigiani Silvano Sia, Tonino Pisante e Pepè Codispoti.

Una vera e propria opera d’arte che ripropone, con grande perizia e maestria, il contesto naturale nel quale avvenne la nascita di Gesù, con i pastorelli che portano le pecorelle, le donne dedite ai lavori della casa e che infornano il pane e tante altre figure che sono espressione di un verismo straordinario e che colpiscono per la cura dei piccoli particolari.

L’opera è un vero e proprio inno all’arte popolare, a quell’arte che non conosce accademie e che scaturisce spontanea dall’estro dei veri figli del popolo, quali sono i tre artigiani che l’hanno creata. Il presepe, che si estende in una superficie di sei metri quadrati, si caratterizza anche per alcuni riferimenti alla realtà locale come la ricostruzione della Fontana Vecchia come era un tempo e un richiamo all’attualità per ricordare la drammatica vicenda di Cutro, dove si è verificata una strage di migranti con ben 94 vittime, tra cui 35 minori. (rvv)

Albero di Natale o presepio? Gesù nasce in una stalla o in una bagnarola?

di FRANK GAGLIARDI – Natale è alle porte. Non ce lo dice soltanto il calendario appeso in cucina, ma ce lo dicono le cataste dei panettoni nei supermercati e le sfavillanti luci multicolori dei negozi e delle strade. In varie città italiane hanno aperto da diversi giorni i mercatini di Natale.

Anche Cosenza, secondo la tradizione, ha il suo mercatino. Quest’anno è in Piazza Bilotti ex Piazza Fera. Pastori, stelle filanti, alberi di Natale artificiali, palline colorate, oggetti in ceramica artistica calabrese e poi anche frittelle e cullurielli. Non potevano mancare i fichi e le crocette. E come ogni anno puntualmente arriva la querelle: «Il presepe o l’albero di Natale?».

Io mi schiero per la tradizione e scelgo il presepe. Ma dato che è di moda l’albero di Natale anche quest’anno i pastori, la capanna, le casette, gli zampognari, Gesù Bambino sono stati dimenticati nel più angolo remoto della soffitta. Io, però, a scanso di equivoci, preferisco il presepe. Perché mi ricorda tempi lontani quando si era felici anche se nella miseria. Il presepe che ho impresso nella mente e che porto nel mio cuore è quello costruito con scatole di cartone, con tronchi di sughero, con carta di imballaggio per le montagne, con l’ovatta per la neve, con gli specchietti di vetro per i laghetti, con il muschio che andavo a raccogliere nei boschi, con i pastori di creta fatti a mano che mamma aveva comprato in Via Rivocati o con quelli che ci portava nelle nostre case “U capillaru” Giorgio in cambio dei capelli della mamma e di mia sorella Anna. Era bello il mio presepe anche se i risultati a volte erano goffi e commoventi.

I pastori erano più grandi delle casette. Gli odierni presepi che si vendono in un unico blocco nel mercatino di Natale a Cosenza sono bellissimi e perfetti, ma non danno nessuna soddisfazione a chi li compra. Dov’è finita l’attesa, la preparazione del tavolo e dei cartoni, la gioia nello srotolare i pastori avvolti nella carta di giornali, la messa in opera delle casette, la raccolta del muschio, il posizionamento dei pastori. La costruzione del presepe era un gioco bellissimo ed impegnativo. Occupava parecchio tempo e serviva ad unire tra loro le persone: insegnanti ed alunni, nonni e nipotini, uomini e donne, vecchi e bambini, ricchi e poveri, eruditi ed analfabeti. Esso descriveva e descrive tuttora un evento storico inconfutabile: la venuta di Gesù sulla terra. Il presepe, sia piccolo che grande, bello o goffo, ci ricorda la dolcezza della nostra infanzia spensierata, ci ricorda la nostra cara mamma che con le vicine di casa friggeva “turdilli e cullurielli” nelle grandi cucine piene di fumo e di fuliggine, ci ricorda la nonna che cullava il nipotino e gli raccontava le rumanze, ci ricorda tutta la famiglia riunita per Natale intorno ad una lunga tavola apparecchiata con tredici pietanze.

Noi del Sud sin da piccoli abbiamo costruito il presepe e, quindi, siamo cresciuti con esso. Lasciamo a quelli del Nord l’albero. A noi ci piace di più il presepe. E a lei, caro lettore che mi stai leggendo, le piace ‘o presebbio? E Gesù Bambino lo avrebbe fatto nascere, secondo la tradizione cristiana, in una grotta o in una bagnarola o carretta di mare con le quali molti emigranti arrivano nelle nostre coste? A Natale, davanti al presepe, ancora si canta la famosa canzoncina: Tu scendi dalle stelle. Non dice: Tu vieni con un gommone, ma vieni in una grotta al freddo e al gelo. Anche un vescovo emerito di Bologna ha criticato questa scelta.

Ma il Sindaco si è così giustificato: «La culla del Bambinello è stata sostituita da un gommone per ricordare il dramma dei migranti». (fg)

Pastorelli e figure tipiche del presepe calabrese

di ANDREA BRESSI – La devozione per il presepe si deve a San Francesco D’Assisi, ad un suo atto di fede di una magica Notte di Natale di ottocento anni fa.

Il presepe, lo sanno tutti è la stalla, la mangiatoia nella quale Gesù venne alla luce miseramente nel rigor dell’inverno, e ricevette i primi omaggi dagli uomini della terra. L’uso di rappresentare nelle chiese e anche nelle case il presepio nacque per opera di San Francesco, che in Greccio in valle di Rieti, circa nel 1223, la notte di Natale fece portare in una specie di grotta una mangiatoia col fieno, le figure del bue e dell’asino e il simulacro del bambino Gesù.

Da quell’avvenimento storico-religioso, la rievocazione della nascita di Gesù Bambino con i simulacri di terracotta, sostituita ai figuranti, è diventato uno dei simboli più rappresentativi del Natale, mai tramontato, che ha ispirato e stimolato l’estro di numerosi artisti e artigiani italiani dalla Toscana alla Campania, dalla Sicilia alla nostra Regione.

In Calabria, da Laino Borgo a San Floro, da Catanzaro a Tropea, da Serra San Bruno a Seminara, fino agli anni cinquanta circa, era possibile acquistare i pastorelli da validi artigiani locali, i cosiddetti pasturari, molti dei quali erano soliti, nel mese di dicembre, allestire, per le vie e le piazze dei borghi, assortite bancarelle e veri e propri mercatini natalizi per l’esposizione e la vendita delle loro apprezzabili statuine di terracotta.
Nelle cattedrali, nelle chiese, nei palazzi e in qualche casa nobiliare era possibile ammirare i presepi artistici della scuola napoletana con pastori di terracotta lucida o carta pesta dipinta, semplici o più elaborati, con abiti settecenteschi di tessuto sfarzoso o più rudimentali opere lignee, mobili o anche semoventi.

Da quando gli artigiani locali hanno chiuso le loro botteghe artistiche, sono però venute meno alcune figure tipiche, immancabili e peculiari della tradizione presepiale calabrese, personaggi carichi di storia, significato e simbolismo.

I rinomati ceramisti di Seminara si sono distinti anche nell’arte presepiale, sia con la ripresa di figure comuni come il meravigliato u lampatu da stijia, e sia per l’aver forgiato personaggi allegorici e significativi come ‘u monacu cchì fujì un pastorello di terracotta rappresentante un monaco in fuga, con una grande cesta sulle spalle, dove è nascosta una giovane e bella fanciulla. I pastori si facevano spesso voce di vere e proprie satire locali.

Nei quartieri del capoluogo catanzarese e in alcuni borghi dell’hinterland, l’immancabile personaggio del presepe tradizionale era il pastore “che si cava la spina dal piede”. Ho amato sin da piccolo questo pastore, che ogni anno, nell’avvicinarsi delle festività natalizie, veniva rifoggiato nella casa paterna, con piacere e cura, e con la sua storia e il suo originale significato: u pastura cchì si caccia a spina do peda posto nelle vicinanze della grotta, figura emblematica della miseria spirituale e della debolezza umana, per i Catanzaresi valeva più di qualunque altro singolo pastore del presepe. Oltre a questa figura, che rimanda allo spinario della tradizione ellenica, si tramanda di altri personaggi tipici: ‘u ncantatu (il meravigliato), ‘u zzoparacaru (venditore di angurie), ‘u ricottaru, ‘u monacu capuccinu, ‘u cerameddharu e ‘u pipitaru (gli zampognari), ‘a gadhoffara (venditrice di caldarroste), ‘a pacchjana (la donna in costume tradizionale), e a zingareddha (la zingarella).

Che ci fa una zingarella tra i pastorelli del presepe?
Se consideriamo la religione cristiana, viste le doti divinatorie attribuite alle donne zingare, additate di ricorrere all’astrologia e alla stregoneria, tale personaggio può risultare, in effetti, scomodo e fuori luogo.
Ma ‘a zingareddha, nel presepe locale riveste un ruolo simbolico preciso. La pastorella dal volto scuro, vestita di stracci dai colori accesi rappresentata, la maggior parte delle volte, con un bambino in fasce tra le braccia o nell’atto di allattare, annuncia, nel giorno della nascita del Bambinello, la Passione e Morte di Gesù Cristo, attraverso gli strumenti della Crocifissione (i chiodi, la tenaglia, il martello) che porta in un paniere.
Come testimoniato dal grande ricercatore e musicologo Roberto De Simone, la Zingara, riveste stesso ruolo determinante anche nel presepe napoletano, e rimanda a figure profetiche ancestrali, le Sibille.

La figura della Zingara, per via delle capacità divinatorie, è presente anche in diverse opere letterarie e teatrali, in rappresentazioni sacre e profane, canti e racconti e altre espressioni del mondo popolare del sud Italia.

Durante la fuga in Egitto, episodio evangelico che molto si presta alla narrazione, secondo la tradizione orale, San Giuseppe, Maria e il Bambino in groppa all’asinello, durante il cammino si sono imbattuti in una zingarella indovina.

Si tramanda, a tal proposito, in Calabria, un canto narrativo che riferisce l’immaginario colloquio fra la Madonna e la Zingarella indovina:

Diu ti sarvi, o beddha Signura,
e ti dia bbona ventura:
Bona ventura vecchareddhu
ccu ssu beddhu bambineddhu.

La Zingarella offre ospitalità a Maria e Giuseppe nella sua umile casupola, dà anche alla Madonna la ventura, narrandole il passato vissuto e predicendole la Passione di Gesù:

Cchi dolura sentireti
quandu mortu lu vedreti.
cu gran lacrimi e suspiri
lu portati a seppeddhiri…

La zingarella chiede in cambio l’elemosina, ma la Madonna risponde di essere forestiera e di non avere nemmeno uno spicciolo. Allora la zingarella indovina chiede per ricompensa la salvezza dell’anima:

…s’anima, sulu, dopu morta
falla entrare a li celesti porti.

Queste sono solo alcune strofe di lungo dialogo dialettale catanzarese, tra la Madonna e la Zingarella indovina, pubblicata nel 1881, dal filologo e storico Francesco Corazzini in un libretto dal titolo Poesie Popolari calabresi.

Autorevoli fonti scritte ci danno notizia che si tratti di un antichissimo canto di tradizione orale. Ad opera di un monaco parlemitano, nel 1775, è stato trascritto e pubblicato in un libretto, che ne ha permesso e facilitato la diffusione in Sicilia, in Calabria e in molte regioni italiane parallelamente alla trasmissione orale, e alla riproposizione dei cantastorie nei loro spettacoli di strada.

Anche io, nel mio spettacolo sul Natale calabrese, accompagnandomi con la chitarra battente, tra le tante storie che canto e racconto, interpreto una colorita versione di questo affascinante canto narrativo della tradizione orale, per tramandarlo alle nuove generazioni. (ab)