di FRANCO CIMINO – Per andarci ho dovuto rinunciare a un evento cui tenevo tanto, che si sarebbe tenuto a Catanzaro, l’altra mattina, venerdì venti. E non me ne sono pentito.
Sono stato a Soverato, al teatro comunale, a parlare di un libro piccolo piccolo, ma tanto bello, a partire dal suo formato tipografico, che ne fa anche un oggetto elegante da mettere in bella mostra su una scrivania, in uno scaffale ben visibile della libreria o nel salotto di casa.
Di più, sul comodino. Quello dei nostri figli e il nostro stesso, magari accanto a uno di quei libri ben forti e robusti, anche per il nome degli autori. Il libro è una favola, una bella favola dei nostri tempi. Il suo titolo è suggestivo. Lo è per il periodo contraddittorio che stiamo vivendo.
Esso reca, da una parte la guerra. Una guerra sola, la guerra che è sempre una. Come quella famosa medaglia, dalla doppia faccia. In una c’è la guerra classica, quella guerreggiata, armi in pugno e colpi di cannone e tante bombe sganciate anche dall’alto. Nell’altra, la fame, la guerra dei pochi ricchi contro l’umanità più povera e quella più estesa, che progressivamente sempre più povera sta diventando. Dall’altra parte, questo tempo, porta il Natale, a partire dal suo momento più magico, l’attesa.
Siamo a fine ottobre, novembre è alle porte. E dopo la rituale ricorrenza delle “festività” dei defunti, “chiamalu c’arrivau”, diceva il mio papà, quando nella felice infanzia dei giovani, che eravamo allora, il Natale rappresentava tante bellissime emozioni. Tante magnifiche attese, che puntualmente si avveravano. Arrivava Natale, già da quarantatré giorni prima. L’albero, il presepe, la spesa per la tavola imbandita, i frutti di quella festa con i dolci della tradizione e quel panettone che sapeva tanto della contrastante, ambigua Milano. La Messa di mezzanotte, lo stappo dello spumante, rigorosamente dolce e Cinzano o Martini. I parenti, e tanti, che si incontravano.
E poi il regalo più bello, il ritorno. Dei padri e dei figli emigrati. Da quella specie di guerra che conoscevamo, l’emigrazione, l’abbandono dei campi, lo spopolamento dei paesi. Ma quel Natale, insieme a tutti questi doni, recava anche la speranza. Anche quella speranza era piena, allora. Ricca. Di fiducia, innanzitutto, che non ci avrebbe traditi. Neppure delusi. Tutto questo risentire di bollenti emozioni, io l’ho rivissuto, quella bella mattina di Soverato. A regalarmelo è stato proprio il luogo, il giorno, il Libro. Il suo titolo: “Un Immenso regalo di Natale”. Già la copertina, con la prima delle tante illustrazioni, del bravissimo Giampiero Andrigo, che troveremo all’interno del libro, commuove ed evoca la speranza, che, come ha detto la prof Vittoria Mandari, presidente Club Soroptimist, promotrice, insieme a Giusi Altamura, apprezzato assessore al Comune, dell’incontro, nell’intervento di presentazione, è la vera protagonista del racconto, insieme alla narratrice, la piccola Elisa. “La guerra è brutta”, campeggia in prima pagina questa frase. Poi, Elisa la racconta, la guerra, attraverso il primo dolore che la caratterizza, la partenza del padre per la guerra. E la paura di non vederlo tornare.
Infatti, il padre è costretto a partire, con la promessa che quieta il pianto della figlia. È quella di tornare. E qui Elisa si ferma e trasferisce, attraverso la vita quotidiana apparentemente normale, convivendovi, quella paura nelle attenzioni verso la sua giovane e bella madre. Non parla degli orrori della guerra, perché già le risulta insopportabile la separazione dal genitore. Non parla delle morti e dei corpi lacerati, perché il suo cuore di fanciulla non riesce a concepirli. A immaginarli. Per lei la guerra è quel tormento. Lungo il racconto scorre l’attesa del papà. L’attesa del fatto più necessario e urgente, che la guerra finisca.
Lungo quel racconto, cammina la speranza, che quella cosa brutta, «che cambia il modo di vivere», cessi subito. Lungo questa speranza danzano parole semplici e buone, quelle sue, di Elisa, che si trasformano in certezza: la Pace nascerà. E sarà accompagnata dalle parole dell’autrice della favola, stampate in nero forte, sulla prima pagina del libro: «forse un giorno gli uomini saranno così intelligenti da far “scoppiare” la Pace e non la guerra». Nel libro, infatti la Pace arriva. E arriva con il ritorno a casa del papà. I bambini, tutti i bambini del mondo, sentono la paura di perdere il loro papà. La sentono per le “guerre” di ogni giorno, che, quei genitori (qui trattiamo di questa figura, per il maschile che domina la maggior parte dei conflitti quotidiani) sono costretti ad affrontare. Io, personalmente, l’ho sempre avvertita, per il mio. E di più oggi, nelle uscite dei padri e nei loro viaggi per realizzare la Pace vera. Quella fatta dalla soddisfazione, nella Giustizia e nella Libertà, per tutti, di ogni bisogno che consenta a ciascun essere umano una vita degna dell’essere umano, il gioiello più prezioso della Vita.
Quando i papà (e anche le madri) ritornano a casa, dopo una giornata faticosa, fatta anche del viaggio, o del lavoro lontano o dalla traversata di deserti e mari, quella guerra è sconfitta. La guerra ha perso. La Pace ha vinto. Il papà di Elena, è il simbolo di questa vittoria. Non è per un caso che il papà ritorni la notte di Natale. La Pace è Natale. Il Natale della rinascita dell’Amore. Della nascita della vita nuova. La favola si è compiuta. Finora nel bel libro che ha ricevuto la festa più bella in quel teatro, dove i veri protagonisti sono stati di bambini delle scuole elementari dell’Istituto Maria Ausiliatrice, accompagnati dalle maestre e dai maestri, dalla direttrice e dalla dolcissima suor Maria Pisciotta, che hanno saputo dire parole molte belle e significative. È stata festa grande nelle parole dette dagli stessi scolari sulla guerra e sul bisogno di pace. E nel loro ballo finale.
Tutti insieme sul palcoscenico a ballare su una delle musiche magicamente eseguite dalla bravissima maestra Francesca Procopio, che ha reso ancora più magico il suo flauto. In quel teatro ci sono state anche le sagge parole del sindaco della città, Daniele Vacca, che ha parlato ai ragazzi da buon padre di famiglia, quale un sindaco dovrebbe ovunque essere per realizzare nella propria realtà la più civile pacifica convivenza tra tutti i cittadini. E con quello spirito di accoglienza che dovrebbe fare di ogni “straniero” dapprima il nostro fratello e poi il nostro concittadino.
Avrei finito di scrivere questo mio racconto della favola, che mi piacerebbe divenisse presto realtà. E che a raccontarla fossimo noi adulti ai bambini di oggi e a quelli di domani. Una favola che inizi come quelle che ci raccontavano i nostri nonni: «C’era una volta la guerra e gli uomini cattivi che la facevano…» A farci sperare di vivere quel momento in quel giorno che verrà, è Teresa Catone, l’autrice di questa del libro e della favola bella.
Lei è una maestra colta e una scrittrice. Numerose sono le sue pubblicazioni. Tutte parlano, anche attraverso brevi racconti, dell’Amore. E della Donna, che dell’Amore è vita. Sempre. Lei è anche poetessa. Scrive poesie con il linguaggio semplice e immediato dell’Amore. In particolare, quelle al padre, scomparso da tempo e dopo le immense fatiche della sua vita di migrante. Teresa, parla con il linguaggio dei bambini, perché da educatrice ai bambini parla, in quanto sono loro che cambieranno il mondo. Non da adulti, ma nei loro anni di bambini.
Con le stesse parole e narrazioni semplici e chiare, la scrittrice parla a noi adulti. E lo fa con tenerezza di educatrice, facendosi umile e piccola piccola, anche per non ledere la suscettibilità di noi che ci sentiamo troppo grandi. Ci dice, Teresa Catone, che solo se ci faremo piccoli, se torneremo fanciulli, se bambini resteremo nell’animo, se parleremo la loro lingua, faremo “scoppiare” la Pace. Adesso, ché il tempo sta finendo. Ché Natale tra quarantacinque giorni arriverà. (fc)