La Conferenza Episcopale Calabra ha espresso in un documento la preoccupazione che l’autonomia differenziata, ove passasse, provocherebbe la dis-unità nazionale. Questi gli spunti di riflessione dei vescovi calabresi. È un documento (firmato domenica 24 marzo) di grande rilevanza nel dibattito in corso sull’autonomia differenziata e di cui la classe politica italiana non potrà non tenere nella docuta considerazione.
Noi Vescovi Calabresi, dopo aver approfondito, alla luce della Dottrina sociale della Chiesa e dei precedenti pronunciamenti della Conferenza Episcopale Italiana, il disegno di legge sull’autonomia differenziata, ci sentiamo in dovere di offrire alcuni spunti di riflessione sull’importanza della solidarietà e della sussidiarietà nazionali. I temi riguardanti lo sviluppo e le disuguaglianze territoriali hanno sollecitato l’attenzione della Chiesa in Italia anche in passato, già a partire dall’immediato secondo Dopoguerra. Ne costituisce una evidente e autorevole testimonianza il contenuto di tre documenti dei Vescovi italiani sul Mezzogiorno, pubblicati rispettivamente nel 1948 (I problemi del Mezzogiorno, Lettera collettiva dell’Episcopato meridionale), nel 1989 (Sviluppo nella solidarietà. Chiesa italiana e Mezzogiorno) e nel 2010 (Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno).
Realizzati in momenti diversi, essi conservano elementi comuni e, in alcuni casi, analisi e proposte ancora attuali.
In tutti e tre i testi, ad esempio, traspare la convinzione che il Vangelo spinga continuamente a misurarsi con la vita concreta delle persone, con le tensioni e le contraddizioni della storia, per cui le situazioni di ingiustizia debbano essere rilevate e denunciate. Si afferma perciò la necessità di un impegno personale e comunitario orientato a riconoscere e a contenere o rimuovere le disuguaglianze che segnano il Paese.
Un altro elemento ricorrente è la denuncia del mancato sviluppo del Sud e dei mali che colpiscono le Regioni meridionali, come la disoccupazione e la criminalità organizzata.
Particolarmente rilevanti, e in parte ancora attuali, le analisi contenute nella lettera del 1989, che pone in evidenza i caratteri dello sviluppo del Paese, definendolo incompleto e distorto. Incompleto perché ha lasciato indietro le regioni meridionali. Distorto, perché – non solo non si è consentito al Mezzogiorno di svilupparsi come altre Regioni, creando disuguaglianze interne ed esterne – ma addirittura lo si è incanalato verso strade che ne hanno peggiorato la situazione. Successivamente, la lettera del 2010 parlerà di sviluppo bloccato, a proposito del fatto che i cambiamenti
avvenuti nel corso dei due decenni precedenti avevano reso ancora più stagnante la situazione del Mezzogiorno.
Nei tre testi si propone un’idea di sviluppo che non consideri solo gli indicatori economici, ma che metta al centro le persone, le risorse e le vocazioni dei territori. A questo riguardo, anticipando alcuni temi che ritroviamo oggi nel magistero di papa Francesco, il documento del 1989 evidenzia la necessità di ripensare il modello economico, in particolare il mercato, e il modello antropologico di fondo, allontanandosi dall’individualismo, dal soggettivismo e dalla ricerca del godimento immediato.
Nei tre testi si evidenzia anche il fatto che uno sviluppo autenticamente umano richieda, come essenziale presupposto, un lavoro orientato a favorire la maturazione delle coscienze e del loro peso interiore. Da qui l’importanza dell’impegno educativo, a tutti i livelli. Sono particolarmente densi i passaggi in cui si esplicitano le condizioni affinché la Chiesa possa essere soggetto in grado di contribuire a promuovere questo tipo di sviluppo. Si tratta di condizioni che esigono la scelta della strada stretta, ma liberante, del radicamento personale e comunitario nella profezia dell’ascolto del Vangelo, in una condizione di povertà e di non-potere.
1. Cambiare sì, ma nella giusta direzione
In continuità con il magistero dei nostri predecessori, la riflessione che proponiamo in questo documento intende argomentare in modo chiaro le ragioni per cui riteniamo insostenibile il progetto di autonomia differenziata. Tale posizione non equivale alla difesa dello status quo. Essa poggia, al contrario, sulla consapevolezza che sono necessari cambiamenti anche importanti nelle politiche pubbliche e, in particolare, nel sistema italiano di welfare. Cambiamenti che, però, dovrebbero andare in direzione opposta rispetto a questo disegno di regionalismo differenziato. Suscita infatti “preoccupazione” – come ha rilevato il presidente della Conferenza Episcopale Italiana, Cardinale Matteo Zuppi, introducendo i lavori del Consiglio Episcopale Permanente il 18 marzo 2024 – «la tenuta del sistema Paese, in particolare di quelle aree che ormai da tempo fanno i conti con la crisi economica e sociale, con lo spopolamento e con la carenza di servizi». Per questo, non deve venir meno «un quadro istituzionale che possa favorire uno sviluppo unitario, secondo i principi di solidarietà, sussidiarietà e coesione sociale». E ha concluso: «Su questo versante la nostra attenzione è stata costante e resterà vigile». Alle parole del Cardinale Presidente della CEI, fanno seguito quelle del Comunicato finale del Consiglio Episcopale Permanente: i Vescovi «hanno rinnovato l’appello per uno sviluppo unitario, che metta in circolo in modo virtuoso la solidarietà e la sussidiarietà, promuovendo la crescita e non alimentando le disuguaglianze. Da parte sua la Chiesa in Italia, fedele al Vangelo e nel solco del percorso compiuto finora, continuerà a contribuire all’unità, accompagnando le comunità e non lasciandosi spaventare dalle contingenze del tempo presente» (20 marzo 2024).
2. La «secessione dei ricchi»
Il disegno di legge oggetto di valutazione ha un presupposto che, già in partenza, rivela una criticità di fondo. Le Regioni che oggi chiedono l’autonomia rispetto a settori importanti delle politiche pubbliche, si aspettano che la maggior parte del gettito fiscale sia lasciato nelle stesse Regioni che lo producono. In questo modo, quelle più sviluppate economicamente si ritroverebbero a poter gestire più risorse di quelle che lo Stato attualmente impiega nei rispettivi territori, con riferimento alle stesse materie. Questo è il motivo per cui il progetto di autonomia differenziata è stato efficacemente definito dall’economista Gianfranco Viesti come la «secessione dei ricchi». Non è un caso che l’iniziativa sia stata presa dal Veneto, dalla Lombardia e dall’Emilia Romagna, a partire dal 2017.
Perché si parla di secessione dei ricchi? Dal punto di vista amministrativo le Regioni che chiederanno l’autonomia differenziata somiglieranno ad altrettante Regioni- Stato, con poteri estesissimi in materie fondamentali. Si innescherebbe una dinamica di dis-integrazione e non di integrazione delle politiche e degli interventi.
Dal punto di vista economico le Regioni richiedenti punterebbero a ottenere uno status paragonabile a quello delle autonomie speciali. Le Regioni che aspirano all’autonomia, come il Veneto e la Lombardia da più tempo e l’Emilia Romagna da qualche anno, vogliono poter gestire in proprio la maggior parte delle risorse ricavate dalle tasse. Dimenticando che queste hanno come criterio, in base alla Costituzione, la progressività del prelievo e l’universalità dell’accesso dei cittadini ai servizi pubblici. In altre parole le tasse sono in funzione di obiettivi di giustizia sostanziale e del superamento delle disuguaglianze tra le persone, non dei territori (Cfr. artt. 2 e 3 della Cost.).
3. Una questione di democrazia sostanziale
Accanto ad una questione di giustizia sostanziale, si pone un problema di democrazia sostanziale.
Per come si sta configurando, il processo decisionale previsto dal decreto mortifica il ruolo delle Camere.
Il rischio che si corre per la tenuta della democrazia nel nostro Paese è evidente se si considera che lo strumento con cui le competenze verrebbero concesse alle Regioni è quello della intesa fra lo Stato e ogni singola Regione; si tratterebbe in sostanza di una decisione governativa di devoluzione di poteri dal carattere sostanzialmente irreversibile, perché, una volta che l’intesa viene sottoscritta dalle parti, non può essere cambiata senza il consenso regionale, né il suo contenuto può diventare oggetto di eventuali referendum. Firmata l’intesa, la funzione di definire tutti i dettagli riguardanti il trasferimento di poteri, legislativi e amministrativi, materia per materia, sarebbe esercitata da “commissioni paritetiche” Stato-Regione, fuori dal controllo parlamentare.
4. Ulteriori motivi di perplessità
La realizzazione di questo progetto potrebbe avere esiti disastrosi sul piano della coesione sociale. Le disuguaglianze nel nostro Paese hanno una natura anche territoriale. Esse si determinano principalmente lungo l’asse Nord-Sud, dando luogo al fenomeno del divario civile, per cui il contenuto effettivo dei diritti sociali di cittadinanza cambia a seconda dei luoghi. Pensiamo alla sanità, ma anche all’istruzione, ai servizi sociali, alla questione ambientale, ai trasporti. Non si tratta solo di questioni economiche, ma dell’accesso ai diritti di cittadinanza. In uno Stato unitario essi vanno assicurati a tutti a prescindere dal luogo di residenza e dal grado di sviluppo produttivo locale. Senza questi diritti si indebolisce il senso di appartenenza a un’unica comunità nazionale. Il progetto di autonomia differenziata rende, perciò, ancora più opache le prospettive del Paese perché proprio negli ambiti da cui dipende la qualità e l’estensione dello sviluppo umano autentico le Regioni vogliono fare da sole, chiedendo più poteri e risorse.
Il disegno di legge si propone di rimediare all’inerzia istituzionale degli ultimi due decenni, per cui subordina l’attuazione della riforma alla determinazione dei Lep (livelli essenziali di prestazione) e dei relativi costi e fabbisogni standard (art. 4), che dovrebbero costituire una garanzia per le Regioni con i servizi alla persona meno strutturati.
Questo punto merita un approfondimento, perché la materia è complessa. Ci sono almeno quattro motivi per ritenere che la soluzione prospettata per eliminare le disuguaglianze territoriali non sia sufficiente. Nell’ambito della tutela della salute, ad esempio, la regionalizzazione del sistema sanitario e la definizione dei livelli essenziali di assistenza sanitaria (Lea) non solo non hanno ridotto i divari di tutela della salute tra i territori, ma li hanno addirittura amplificati, come dimostrano i dati sulla migrazione sanitaria.
Il secondo motivo di perplessità riguarda il riferimento ai costi e ai fabbisogni standard: la premessa per uno sviluppo vero dei territori, soprattutto di quelli più periferici, non può limitarsi alla mera definizione di servizi minimi essenziali, né alla definizione rigida di un budget di spesa – che finirebbe con il penalizzare soprattutto le aree interne delle Regioni più deboli – ma esige invece l’adozione di modelli di intervento capaci di valorizzare le risorse e aderire ai bisogni delle persone che vivono nei luoghi, in tutti i luoghi, territori urbani e non, città e piccoli paesi.
Inoltre, ed è il terzo motivo di perplessità, il progetto in discussione afferma testualmente che «dall’applicazione della presente legge e di ciascuna intesa non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica». Resta dunque irrisolta la questione del reperimento delle risorse necessarie per garantire i Lep.
Aggiungiamo una quarta obiezione di fondo: se anche si recuperassero le risorse per attuare i Lep, tutto ciò non rappresenterebbe il volano di un vero cambiamento. Se si guardano le cose dai contesti più periferici, risulta evidente che la vera questione è quella di dotare i territori delle infrastrutture sociali necessarie per programmare, progettare, gestire, rendicontare e valutare gli interventi ordinari. La questione dei livelli essenziali di gestione è prioritaria rispetto a quella della determinazione dei livelli essenziali di prestazione.
Se analizziamo a fondo la situazione calabrese, per esempio, vediamo che la spesa per i servizi sociali in Calabria è tra le più basse del Paese e che si riesce a impiegare solo una parte delle risorse disponibili per la debolezza delle infrastrutture locali. È per questo motivo che bisognerebbe intervenire per rimuovere quegli ostacoli che impediscono un funzionamento istituzionale efficiente. La riforma, trascurando l’esistenza di questa criticità, rafforzerebbe le disfunzioni.
Conclusioni
La nostra riflessione ci conduce a evidenziare i gravissimi rischi connessi al progetto di autonomia differenziata. La “secessione dei ricchi” non è solo in contraddizione con lo spirito della nostra Costituzione, in particolare con il principio di uguaglianza sostanziale espresso nell’articolo 3, ma è anche in contrasto con il sentimento di appartenenza a un’unica comunità, e con le prospettive di uno sviluppo autenticamente umano del Paese. Il progetto, se realizzato, darà forma istituzionale agli egoismi territoriali della parte più ricca del Paese, amplificando e cristallizzando i divari territoriali già esistenti, con gravissimo danno per le persone più vulnerabili e indifese.
Il progetto di autonomia differenziata è sostenuto dalla logica secondo cui le Regioni che costituiscono la locomotiva del Paese debbano essere messe nelle condizioni di produrre sempre di più e meglio, e questo determinerebbe un effetto-traino per tutte le altre Regioni. Come Vescovi Calabresi affermiamo che questa prospettiva non può essere condivisa. La strada da percorrere è invece quella che passa dal riconoscimento delle differenze e dalla valorizzazione di ogni realtà particolare, soprattutto delle aree più periferiche e/o interne. I contesti che non ce la fanno vanno accompagnati, riconoscendo nella solidarietà tra territori un valore costituzionale da difendere e un impegno pastorale che il popolo di Dio che è in Italia va incoraggiato a perseguire perché progredisca nella sua ricerca di fedeltà al Vangelo. Nella prospettiva di uno sviluppo umano autentico, le difficoltà dei territori con infrastrutture più deboli, con rendimento istituzionale insufficiente, non vanno interpretate come un freno per chi è più veloce, ma come un problema comune, da cui venire fuori insieme.
Si tratta di un orientamento coerente con il principio di giustizia sostanziale (Cfr. artt. 2 e 3 della Cost.); per cui a tutti vanno assicurate pari opportunità di accesso ai diritti di cittadinanza, eliminando gli ostacoli, attraverso politiche effettivamente redistributive e con il principio di solidarietà istituzionale, che fonda la sussidiarietà verticale, la quale si esplicita non attraverso provvedimenti di tipo normativo- sanzionatorio, ma mediante l’accompagnamento intenzionale dei territori più deboli. Il principio di sussidiarietà, infatti, «ha un doppio dinamismo: dall’alto verso il basso e dal basso verso l’alto», come ha ricordato Papa Francesco. Attuare tale principio
«dà speranza in un futuro più sano e giusto; e questo futuro lo costruiamo insieme, aspirando alle cose più grandi, ampliando i nostri orizzonti. O insieme o non funziona. O lavoriamo insieme per uscire dalla crisi, a tutti i livelli della società, o non ne usciremo mai» (Udienza generale, 23 settembre 2020).
Per questo non possiamo restare indifferenti. Bisogna trovare vie perché si maturi la consapevolezza che il Paese avrà un futuro solo se tutti insieme sapremo tessere e ritessere intenzionalmente legami di solidarietà, a tutti i livelli.
A questo riguardo, si propone che in tutte le comunità diocesane e in tutti i territori si organizzino occasioni di approfondimento e di pubblica discussione su questo tema e si promuovano adeguate forme di mobilitazione democratica, legando solidarietà e giustizia. ν