di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – Il Natale di Calabria, non è la Calabria a Natale. È di più. È per esempio il sudore serafico delle donne, che scende giù dalle loro fronti durante l’impasto delle curujcchie, mentre l’olio caldo già bolle; è la fatica docile delle madri che preparano per i figli le nacatole attorcigliate alla canna; è l’autorevolezza mistica della famiglia. E non un’appiccicaticcia nuvola di zucchero filato nell’aria melanconica della città, ma una perfetta spolverata di zucchero a velo sopra i tetti timidi dei paesi. Quell’agglomerato di casettine con la propria anima viva. Con all’ingresso una porticina di legno che porta al grande presepe di Natale.
Nel racconto del Natale, la Calabria, intenerisce la sua rude corazza, si immedesima in sé stessa, e si presenta, sfidando la sua secolare timidezza, nella più naturale e antica forma presepiale. La terra si trasforma magicamente in un presepe. Con tutta la sua santità. Le montagne cariche di neve, l’acqua fredda dei torrenti, le luci soffuse delle case, i fuochi caldi dei camini, il calore tipico delle famiglie, le focaggine in mezzo alle piazze dei paesi, il torrone di Bagnara sopra le tavole nude.
A Natale la magia della Calabria è sorprendente. Coinvolge i passanti e i residenti. Con le radici della sua storia che sanno di oro, di incenso e di mirra. Perlustrando l’anima santa che la mantiene.
La storia della Calabria, è la storia tipica dell’umanità, con i rovesci e i contrari di madre natura, i fatti e i misfatti dei suoi uomini. Una narrazione mite, sostenuta da un forte incipit tradizionale, che nessuna generazione ha provato mai di cambiare, né altre lo faranno in avvenire. “Camina ca ti camina”.
Tanto ha camminato la Madonna prima di partorire il suo bambino, e tanto cammina ancora la gente di Calabria prima di allocare in un posto fisso la sua quotidiana natività.
Camina ca ti camina…, così cominciano le fiabe a Natale, nella terra di Calabria, dove se solo i bambini si distraggono un po’, camina ca ti camina, e l’attenzione torna lì dov’era s’era perduta. Nella storia di un Bambino cullato al petto di sua madre. E di cui il nome lo conoscono tutti. I nonni, gli zii, gli amici, i compagni, i bambini, anche il torrone. Bambineju.
A Natale, mentre altrove è la meccanica che movimenta i pastori e le pastore, in Calabria è la fede che li accompagna nel viatico antico aperto da Giuseppe e da Maria. Nella scalata dell’Aspromonte e del Pollino. Lungo i sentieri delle Serre e della Sila. Nella notte coi lupi, lungo i greti delle fiumare tuonanti, sotto la chiaranza del un cielo trapunto di splendide stelle.
La Calabria è il tempo forte dell’Avvento. La terra potente della perenne attesa, che non si scompiglia mai i capelli né si straccia le vsti, quando tarda verso di sé la vita, né si abbatte i suoi loricati, quando l’alba fa ancora un pizzico di buio.
Il Natale in Calabria ha più forza che altrove. Essa è piantata nella terra, e qui vi cresce come i pini, i lecci, le vetuste. E protegge, mantiene i sogni, sostiene le speranze. Non sarebbe Natale, in Calabria, senza gli addobbi tradizionali del cuore. Un rito fedele che si svolge dentro le vecchie case dei nonni che, mentre altrove, il Bambino del presepe si presenta infiocchettato nel cellofan, alla luce del focolare delle piccole residenze pastorali calabresi, resiste ancora nudo e di cera.
Il Natale non rende mai avaro il tepore dell’aria in mezzo al gelo di dicembre. Il bue e l’asino quaggiù vivono ancora, e resistono d’estate per arrivare all’inverno, a fiatare in mezzo alla paglia della natività.
Se Cristo si è fermato a Eboli, il Bambino no.
In Calabria ha la sua culla, il figlio di Maria. Nei cuori dei calabresi la sua dolce naca. Che mentre altrove prende casa Babbo Natale, quaggiù prende messa il Santo Bambino.
Il Natale in Calabria non è un semplice racconto orale, di tramando dalla vecchia storia, ma la visione reale di una vita dalla quale nessuno ha intenzione di sottrarre la propria. E così tutti si accostano a lui. Anche il mare che confonde il suono rumore al suono delle ciaramelle. Tutti partecipano al presepe. Anche Turuzzu, che in dono al Bambino, la notte di Natale, non porta niente. (gsc)
LA NOTTE DI NATALE (da Terra Santissima)
Una notte d’inverno, fredda e scura, tre bambini, tutti figli di pastori, s’incamminarono sotto la luce grande di una stella, che se ne stava a brillare sfavillante in mezzo al cielo, più di tutte le altre, sopra di un vecchio paese, tenuto di peso sopra la schiena della montagna come un nido di terracotta sopra una pietra. La cometa, portava verso il Bambino che gli angeli avevano annunciato quella notte di Natale. Chi portava una capra, chi una pecora e chi niente. Turuzzu non portava niente. Le sue mani, sporche di terra e di pianto, erano fredde e vuote. E si vergognava della sua miseria, l’orfanello della montagna. Era povero. Era nato al freddo e al gelo. Senza capre, né pecore né pane. Turuzzu non portava niente. Nemmeno il ricordo di una madre, il nome da pastore di suo padre.
Giunti alla capanna, i pastorelli si smarrirono la stella. Un Bambino, bianco e rosa, tutto ricciolino, se ne stava tra la paglia nudo, al seno di sua madre, con Giuseppe il falegname, un bue e un asinello,
al freddo e al gelo. Quanto era dolce, quanto era bella mamma sua!
Il pastorello ripensò a sua madre. Una madre che non ce n’era. I bambini, pastorelli uguali a lui, si chinarono a Gesù, e pure Turuzzu s’inginocchiò al cospetto del Bambino. Chi dava una capra, chi una pecora e chi niente. Turuzzu non dava niente. E quella madre, che cullava il Bambino tra le sue braccia belle, per accogliere i doni dei pastori, diede il figlio suo a Turuzzu che non portava niente. Turuzzu portava in braccio, caro mio, Gesù Bambino.
Quella era la notte di Natale!”
(da Terra Santissima, di Giusy Staropoli Calafati, Laruffa editore, 2021)