A Cropani, passata l’Epifania comincia una festa ancora più intima di quella natalizia: si tratta dell’uccisione del maiale.
Una festa famigliare, squisitamente di casa che affonda radici nella notte dei tempi. Una festa fuori da ogni canone religioso, totalmente pagana, un “sacrificio”, un “lutto”: quello del maiale, una volta denominato ‘u purcu. Ma, si sa, col tempo tutto cambia, e non sempre in meglio, anche le parole. Non cambiano i sapori autentici, se u’ purcu viene “allevato in casa” come a Cuturella, cc’a vrodata, ammazzato alla vecchia maniera all’antica e operato dalle ultime donne della storia Magno greca, del mito, che sanno ancora oggi, grazie al cielo, ricavarne frittole, resimugghi, fegato e sangue fritti, capocolli, soppressate, salsicce, pancette, salati, costati, ecc. ecc. Esattamente come tremila anni fa e più. Cruento era lo sgozzamento con il coltello: il primo sangue uscito doveva cadere a terra, a mo’ di ringraziamento alle divinità generalmente femminili (Demetra), perché il porco significa fertilità.
“Amaru chi lu purcu nun ammazze ca vide e desidere u sozizzu” , un detto molto significativo di chi non ha avuto la fortuna di uccidere il maiale e vede il vicino di casa che l’ha ucciso e “operato”, invidiandogli nu stoccu e sozizzu. Il sapore ineguagliabile, seducente. Ma attenzione, qui non parliamo di acquisti di salsicce in macelleria che oggi – anche se a prezzi esorbitanti, ingiustificati – tutti possono affrontare, seppure per insaccati quasi sempre mediocri e sicuramente deludenti, anzi troppo deludenti rispetto al prezzo.
Qui parliamo di salsicce di porci allevati in casa, che solo pochi privilegiati possono assaporare, con vino sempre di casa non etichettato ma schietto a Denominazione di Origine Controllata e Onorata (Doco), come quello di Angelo Grano di Sebastiano, di Cuturella, che aiutato dalla moglie Rosa, e dai figli Sebastiano e Giuseppe, senza scopo di lucro garantisce sicurezza e genuinità sia per vino che per maiale: ma soltanto per pochi eletti del suo entourage famigliare e rari amici.
Nei prossimi giorni di gennaio si aspetta finalmente il freddo per immolare sull’altare della tavola i maiali pezzati calabresi, una gioia che ormai solo pochissimi palati sanno apprezzare, come nella notte dei tempi. Nell’Era della qualità non della quantità come quella odierna. E, davanti a un porco o due ammazzati a Cuturella appesi davanti a un focolare, viene un senso di compassione vedere ragazzini/e che distrattamente masticano Hotdog americani. Poverini! Noi e loro, abbiamo fallito in tutto, anche nell’educazione alimentare! Non rassegniamoci comunque sugli errori commessi finora e tentiamo ancora a dare valore alla nostra storia, alle nostre tradizioni, al nostro passato che gli altri ci invidiano e tentano di imitare ma che noi, purtroppo e assurdamente, ancora oggi non riusciamo ad apprezzare appieno. “Scannare u purcu” è sempre stato ed è un vero e proprio rito, una festa, un momento a cui l’intera famiglia partecipa, assieme a parenti e amici.
Ognuno da il proprio apporto nella fatica e tutti mangiano e bevono in allegria.
«Una volta – ha dichiarato Luigi Stanizzi, curatore del libro Tradizioni in Calabria di Concetta Basile – le proteine della carne venivano assicurate per tutto l’anno proprio nel periodo dell’uccisione del maiale, da qui derivava l’importanza vitale dell’evento che oggi ha valore esclusivamente simbolico, enogastronomico ma non per questo meno importante. Chi ha avuto il privilegio di assistere e partecipare ai riti autentici del passato, oggi nella rara eventualità di riviverli dà un valore enorme a queste usanze che racchiudono i più intimi segreti millenari, che fanno rivivere una gioia archetipica».
Beati coloro che vissero (e vivono!) la gioia di essere invitati a lu purcu! (rcz)