di PINO NANO – Alfonso Rendano. La vita, l’arte”, (350 pag. Edizioni Publisfera) è un saggio con cui Bruno Castagna, storico studioso del grande musicista calabrese, riapre il dibattito sulla vita e sul valore del principe della musica calabrese. Si tratta, diciamolo subito, di un lavoro di grandissimo interesse per studiosi e appassionati di musica, e che vede la luce dopo anni di studi e di approfondite ricerche nelle maggiori biblioteche italiane ed europee.
Il saggio dello storico Bruno Castagna illustra la vita e il percorso artistico del musicista calabrese, dai primi passi, nel paese natio di Carolei, fino alla sua morte, avvenuta a Roma nel settembre del 1931, ne riprende i momenti più importanti, attraverso cronache, lettere e documenti, nella maggior parte dei casi assolutamente inediti, e questo per Bruno Castagna è il secondo volume dedicato al concertista calabrese, dopo quello del 2008.
– Bruno Castagna, cosa le rimane oggi di un lavoro così importante?
«È stato un lavoro appassionante”. Soprattutto è stato uno studio intrigante. Ricercare e mettere insieme un’infinità di documenti non è mai semplice. La passione è passione. La mia ha radici antiche. Mia nonna materna, Francesca Suriani, era stata un buon soprano. Amavo ascoltarla mentre suonava al pianoforte le arie più famose della Tosca e della Bohème, di Giacomo Puccini, Vissi d’arte, E lucean le stelle, Che gelida manina, Mi chiamano Mimì. Da lei ho ereditato pur senza saperlo l’amore per la musica. Mio nonno Mario Ridola è stato un pittore importante. Fondatore dell’Accademia di Belle Arti a Tirana, nel 1931. Lo ricordo armeggiare nel suo studio tra tavolozza e pennelli, colori e tinte, e dar vita alle sue tele. Fatte di ambienti, volti, paesaggi. La passione per la ricerca, però, devo averla ereditata anche da mio padre Benito, poeta dialettale e, a suo modo, studioso delle tradizioni, dei luoghi e dei personaggi della vecchia Catanzaro».
– Com’è nata l’idea di occuparsi proprio di Rendano?
«Nel 1998 fondai a Carolei, centro nel quale risiedo dal 1979, il periodico locale Compagni di viaggio. Le testimonianze rintracciate su alcuni giornali d’epoca e pubblicate nella rubrica “cronache del passato” mi spinsero in biblioteca. Si affacciò, prepotente, la curiosità di saperne di più. Riuscii a catalogare una enorme mole di documenti su Carolei e Rendano».
– Scrisse già allora qualcosa?
«Nacque il mio primo lavoro, Carolei. Dalla fase post-unitaria alle soglie della Repubblica, che mise insieme una infinità di articoli distribuiti in ben cinque volumi. L’interesse per Rendano si concretizzò in un primo opuscolo, Alfonso Rendano. Il beato angelico della musica, edito nel 2001, redatto insieme all’Associazione culturale Alfonso Rendano, nata nel 2000, e della quale facevo parte. Il resto è storia recente. Nel 2008 ho dato alle stampe Alfonso Rendano. Musicista d’Europa. Un passaggio importante, ma, soprattutto, l’inizio di una nuova avventura, quella che, ormai, dopo anni e anni di lavoro sta per concludersi».
– Partiamo allora dal personaggio principe della sua storia. Chi era Rendano?
«Alfonso Rendano fu un uomo semplice, di un carattere schivo e poco espansivo, ma di una generosità fortissima. Uno spirito aperto e schietto, ma sempre pronto a ribellarsi alle violenze ed alle ingiustizie. Il fitto e inedito epistolario con Antonietta Trucco, divenuta poi sua moglie, il carteggio con diversi artisti, la documentazione relativa ai rapporti con la dirigenza del Real Conservatorio San Pietro a Majella di Napoli, in cui fu chiamato ad insegnare nel periodo tra il 1887 e il 1889, ne sono la testimonianza più viva».
– Che giudizio artistico si può dare di lui?
«Senza dubbio era un pianista eccellente. Ma non va dimenticato che fu anche un compositore eccellente. Concertista dallo stile semplice, ma vibrante di passionalità e di colorito. Comprese, come pochi, che l’arte è religione e non mestiere, e per questo fu interprete più grande, più fine, più delicato, più espressivo della musica classica, che tradusse con semplicità, con grazia, con purezza di stile incomparabile. Il tocco soave, morbido, scorrevole, la sua precisione di meccanismo raggiunse prove altissime di difficoltà da altri non superate mai».
– 350 pagine sono un documento importante sulla vita del musicista…
«Per comprendere la grandezza di questo artista ho scandagliato, analizzandola a fondo, la documentazione riferita a circa settant’anni della sua vita. E cioè, dalla sua Rêve du Paysan, composta all’età di dieci anni, al Lento, pensoso, con profonda tristezza, ultimo atto della sua esistenza terrena. I due estremi di un percorso interamente dedicato all’arte.»
– Possiamo parlare di Rendano primo emigrante della musica calabrese?
«Certamente quello che possiamo dire è che Rendano frequentò pianisti e compositori di prim’ordine. Da Saverio Mercadante che lo accolse, ancorché bambino, nel Real Collegio di Napoli, a Thalberg che, sempre nell’ex capitale del Regno, volle curarne personalmente la formazione, indirizzandolo in seguito alla corte di Rossini, a Parigi. E, ancora, dallo stesso Rossini, che lo segnalò a François Aubert, direttore del Conservatorio parigino, che lo ritenne idoneo a frequentare i corsi della gloriosa istituzione musicale parigina, e a George Mathias, discepolo prediletto di Fryderyk Chopin. L’allievo assimilò i dettami artistici del sublime polacco e ne riprese le tendenze».
– Ma non finisce qui…
«Altrettanto importante fu la parentesi a Lipsia, dove nel conservatorio musicale prese parte a un piano di studi piuttosto articolato curato da Oscar Paul, Friedrich Richter, Carl Reinecke, Salomon Jadassohn e Ferdinand David».
– Un successo dietro l’altro, dovuto a cosa?
«Rendano ricevette una educazione musicale rigorosa, vivificata dall’influsso della scuola di compositori della statura di Bach e Beethoven e rivelò abilità e versatilità sorprendenti. E per finire Liszt, l’immenso Liszt, con il quale Rendano intrattenne un rapporto professionale intenso. Un forte rapporto umano, ma anche un valido sodalizio musicale. Il pianista magiaro tenne a battesimo il terzo figlio di Rendano, cui era stato imposto il nome Franz. Il piccolo purtroppo morì pochi giorni dopo la nascita».
– Possiamo parlare anche un Rendano eterno girovago?
«Assolutamente sì. Nel suo peregrinare per l’Europa Rendano toccò le maggiori capitali europee e i luoghi sacri della musica classica continentale, Parigi, Londra, Lipsia, Vienna, Budapest, e ciò, naturalmente incise sulla sua formazione pianistica. La sua splendida carriera artistica toccò il punto più alto con la composizione dell’opera Consuelo.
– Cosa rimane oggi dell’opera di Rendano?
«Un’ottantina di composizioni, molte delle quali create in età giovanile. Tra esse spiccano un pregevole Quintetto per pianoforte e archi e un Concerto per pianoforte e orchestra di grande pregio. Liszt ne rimase affascinato e fece in modo di poterlo presentare in alcune audizioni a Weimar, al cospetto del granduca Carl Alexander».
– E la “Consuelo”, naturalmente?
«Finito il tempo dell’attività concertistica, Rendano si dedicò a quella che era la sua grande passione, la composizione. I romanzi di George Sand lo tentavano irresistibilmente. L’intuizione di riservare all’arte dei suoni la funzione di trait d’union tra i protagonisti di un intreccio amoroso, in un’epoca in cui la fantasia dei lettori avvertiva la necessità di qualcosa di più eclettico, aveva decretato il successo dei suoi racconti. E la curiosità di Rendano. La scelta cadde su Consuelo, un saggio di circa novecento pagine, pubblicato a puntate tra il 1842 e il 1843 su una rivista politica e letteraria, divenuto infine un romanzo. La figura di “Consuelo”, libera, semplice, indipendente, eroina romantica del mondo degli umili e degli oppressi affascinò. Rendano che la identificò come protagonista della sua opera. Era certo che una storia avvincente e un allestimento scenico ben strutturato ne avrebbero garantito la buona riuscita. Il fatto, poi, che sullo stesso lavoro si fossero misurati, con alterne fortune, anche Giovanni Battista Gordigiani nel 1846, Vladimir Kashperov nel 1865 e Giacomo Orefice nel 1895, una sfida importante che Rendano raccolse per rimarcare l’ammirazione per la Sand. La stesura del libretto fu affidata a Francesco Cimmino, poeta e letterato napoletano, noto negli ambienti del mondo letterario italiano per le sue amicizie con Enrico Panzacchi, Corrado Ricci, Edmondo De Amicis, Giosue Carducci, Giovanni Pascoli e, soprattutto, Antonio Fogazzaro e Benedetto Croce».
– Lei ricostruisce nel suo saggio la prima di quest’opera?
«Mi sembrava importante farlo. La Consuelo, opera lirica in tre atti, ricca di melodie eleganti ed originali, fu rappresentata a Torino nel maggio del 1902. Il 24 aprile del 1902 l’annuncio della Cronaca di Calabria: «L’opera del nostro Alfonso Rendano sarà rappresentata a Torino verso la fine di questo mese, e grande è l’aspettativa. Auguriamo all’illustre Maestro, che è gloria di Cosenza nostra e della intera Calabria, un completo trionfo». A dirigere l’orchestra Rodolfo Ferrari. Aveva legato indissolubilmente il proprio nome ai debutti e ad altre iniziative della giovane scuola operistica, fra cui L’amico Fritz e Andrea Chenier, e ad alcune prestigiose “prime” italiane».
– In realtà la prima di “Consuelo” fu un successo?
«Il pubblico torinese, in genere molto severo con gli autori esordienti, ospitò la Consuelo con grande entusiasmo. Tutto si svolse in un clima di perfetta armonia. Il teatro Vittorio Emanuele consegnò a Rendano una importante novità: Julius Feuchtinger, un giovane editore tedesco che, conquistato dalle melodie rendaniane, propose di allestire una tournée in Germania. Una firma e una solenne stretta di mano sancirono l’intesa. Consuelo fu così rappresentata a Stoccarda e Mannheim nel 1903 e a Brema nel 1905. L’ultima esibizione si tenne a Norimberga, nel 1924».
– Mi pare di capire, un successo dietro l’altro?
«Il 27 marzo del 1903, a Stoccarda, l’opera riportò un successo clamoroso. Il teatro reale affollatissimo, le congratulazioni di Guglielmo II e Carlotta, reali di Wurttemberg, che s’intrattennero cordialmente con Rendano, le acclamazioni e le continue chiamate sul palco, premiarono il maestro e la sua Consuelo».
– È vero che fu anche un grande successo di critica?
«La stampa non fu da meno. Il compositore venne celebrato e osannato. Le sue fotografie esposte nelle vetrine dei negozi e una guida tedesca dell’opera il segno tangibile di grande rispetto. In Consuelo si percepivano echi wagneriani. E tutto ciò ai tedeschi piaceva. La Neues Tageblatt evidenziò l’originalità di «una prima esecuzione di un’opera italiana sulla scena tedesca, un avvenimento che non si era prodotto a Stoccarda dall’esecuzione del Ratcliff di Mascagni in poi».
– Uno dei meriti riconosciuto a Rendano, scrive lei nel suo saggio, fu quello di essere stato un insegnante di ottimo livello.
«Vede, dopo la breve parentesi al Conservatorio di Napoli, Rendano riprese a insegnare agli inizi del ‘900 e, soprattutto, nell’immediato dopoguerra. Si rivelò docente scrupoloso e paziente. La sua casa venne frequentata da tantissimi allievi che gli si accostarono con rispetto. Riuscì a formare nel corso degli anni una lunga schiera di pianisti che calcheranno le scene dei principali teatri italiani ed esteri: Edoardo Boccardo, Adriano Ariani, Augusta Coen, Ester D’Atena, Carlo Morozzo della Rocca, Rodolfo Caporali».
– Cosa ricorda del suo incontro con Rodolfo Caporali?
«Caporali, che ho avuto l’onore l’onore di incontrare nel 2001, rievocò con un filo di emozione il suo primo incontro con il Maestro Rendano, come amava definirlo, avvenuto nel 1915».
– Cosa le disse in particolare?
«Che incontrarlo gli produsse un’emozione grandissima. Fu subito conquistato da quella nobile figura, da quello sguardo acuto che lo studiava, per intuire se ci sarebbe stata, in futuro, la stoffa per un allievo di valore, eventualmente un musicista o un concertista. E poi il suo stupore davanti a quel pianoforte a coda, che vedeva per la prima volta. C’erano anche tante foto – mi raccontò Caporali – e, tra esse, quella della Regina Margherita, con dedica personale al Maestro e, ancora, quelle di Rubinstein, Bulow, Listz… Ne rimase affascinato!. Mi raccontò anche che il Maestro non era di molte parole, ma aveva l’arte di farsi capire, anche con un solo breve accenno al pianoforte, guidando l’allievo, con sapienza, all’esecuzione di brani in progressiva difficoltà, scelti fra il miglior repertorio della letteratura pianistica, sicché egli mi nutrì di Mozart, Bach, Haydin e poi Schuman, Chopin, fino ai più moderni compositori».
– Bruno, il suo volume documenta anche il tentativo di Rendano di comporre una seconda opera?
«Purtroppo, però, andato vuoto. L’idea era nata sul finire del 1903. Rendano nutriva grande stima per l’amico Nicola Misasi, letterato e scrittore cosentino, del quale apprezzava i romanzi. I suoi Racconti calabresi rievocavano quelli di Giovanni Verga, tra i maggiori esponenti del verismo in Italia. Popolati da pastori, contadini e briganti calabresi. Altri, invece, narravano di violente passioni d’amore, di gelosie e di vendette. Tutti, nel segno di uno sviscerato amore per la Calabria. Materiale di prim’ordine, dal quale, il musicista si augurava di riuscire a tirar fuori qualcosa di fortemente innovativo. Tra i tanti preferì il romanzo Senza dimani».
– In realtà come andò a finire?
«Individuare un librettista di provata esperienza si rivelò più complicato del previsto. Illica e Giacosa, due degli autori più prolifici di fine Ottocento, primi novecento, molto legati a Puccini, declinarono l’invito. Rendano si affidò ad Antonino Anile e Giuseppe Pagliara, con i quali però – mentre il lavoro pareva stesse per andare in porto – emersero profonde divergenze. L’epilogo nell’aprile del 1904 sancì la fine del loro rapporto e quindi del progetto».
– C’è qualche aneddoto curioso, un episodio, legato al nome di Rendano, che ci può raccontare?
«La storia di Rendano in realtà è ricca di situazioni a dir poco interessanti. Quelli legati a Rossini, per esempio. Il musicista pesarese accolse il giovane calabrese assai cordialmente, come soleva fare con tutti e specialmente con i giovani artisti, e lo invitò alle sue serate del sabato nella sua villa di Rue de la Chaussee d’Antin, nella quale risiedeva con la moglie Olympe Pelissier. Rendano aveva appena quattordici anni. Una sera, volendo fare una sorpresa all’illustre conterraneo, eseguì il “profond sommeil”, che aveva qualche volta inteso suonare dall’autore. Rossini lo lasciò finire, poi, tra il serio e il faceto, gli disse: “Pulcinella!. Chi ti ha autorizzato a farmi la concorrenza”. Tutti risero, eccetto il ragazzo, naturalmente, che, impacciato e quasi incredulo, sorrise solo in un secondo tempo.
– Ne ha un altro di aneddoti per noi?
«Un secondo episodio è quello relativo all’Esposizione universale di Parigi del 1867, un evento che attrasse nella capitale transalpina tantissimi artisti. La presentazione di una innovazione in campo tecnico-musicale, il cosiddetto melopiano, nato dalla fantasia dell’ingegnere torinese Luigi Caldera, aveva incuriosito musicisti del calibro di Liszt, Sgambati, Thalberg. Rossini affascinato dalla facilità d’uso del nuovo congegno, volle conoscerne l’inventore per testimoniargli la sua ammirazione. Ma la sorpresa era dietro l’angolo, raccontò lo studioso Francesco Dall’Ongaro, nei suoi Scritti d’arte. Rendano, che Rossini chiamava il suo giovane collega, appena ebbe osservato il modo col quale l’organista torinese cavaliere Marini, abituato al nuovo strumento, traeva e variava le sue note, domandò di poterci provare e vi eseguì su due piedi una sonata di Beethoven con gran meraviglia di quanti erano lì ad ascoltarlo».
– Portare a termine un lavoro di tale portata immagino significhi dover ringraziare tante persone.
«Nei prossimi giorni avrò il piacere di esprimere la mia gratitudine a quanti con cortesia e passione, studiosi, bibliotecari e ricercatori di mezza Europa, hanno reso possibile ciò che all’inizio era una speranza, forse soltanto un sogno. Il libro vede la luce anche per merito di questi personaggi sconosciuti ai più, ma il cui apporto è stato determinante. Penso in particolare gli addetti agli archivi storici dei Conservatori di S. Pietro a Majella di Napoli, “Gioacchino Rossini” di Pesaro, Benedetto Marcello di Venezia. Così come, esprimo profonda gratitudine ai responsabili dell’Archivio Storico Ricordi di Milano, dell’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, dell’Archivio Storico della Psicologia Italiana, della Civica Biblioteca delle Raccolte Storiche di Milano e della Fondazione Istituto Liszt, di Bologna».
– Immagino che fondamentale sia stato anche il rapporto con grandi biblioteche?
«Naturalmente ho lavorato su documenti ritrovati negli archivi storici delle più prestigiose biblioteche europee, Vienna, Budapest, Stoccarda, Dresda, Brema, solo per citarne alcune, nei registri dei teatri di Stoccarda, Mannheim, Brema, Norimberga, in centri musicali di rilievo quali l’Università di Musica e Teatro “Felix Mendelssohn Bartholdy” di Lipsia, il Conservatorio nazionale superiore di musica e di danza di Parigi».
– Credo ci sia ancora di più?
«Si è vero. Ho avuto proficui contatti anche Wladimir Bulzan, manager della notissima fabbrica di pianoforti Bösendorfer, presso la quale nel maggio del 1878 Rendano acquistò il suo primo pianoforte di valore, forte dell’amicizia con il proprietario, Ludwig, approdato alla guida dell’azienda di famiglia dopo la morte del padre Ignaz. Un pianoforte che, vorrei che questo lei lo scrivesse, si trova oggi a Carolei, prestigioso cimelio del museo allestito dall’Associazione culturale che porta il nome del grande pianista cosentino».
– E in Calabria, chi l’ha aiutata?
La Biblioteca civica di Cosenza è stato il naturale punto di riferimento da cui partire. Ho avuto modo di consultare i giornali calabresi e di acquisire materiale assai utile. E di questo ringrazio l’ex direttore Giacinto Pisani e l’infaticabile, e paziente, bibliotecario Luciano Romeo. Sono grato anche ad Antonio D’Elia, presidente dell’Accademia Cosentina e direttore della Biblioteca Civica di Cosenza, che mi ha permesso recentemente di consultare quell’Archivio Rendano che per merito di Ginetta Ruffolo Scarpa, discendente dei Rendano, è stato donato alla città di Cosenza. Ma mi piace citare, inoltre, gli addetti al servizio dell’Archivio di stato di Cosenza e quelli dell’Archivio storico diocesano “Prof. Luigi Intrieri” di Cosenza. Così come un ringraziamento particolare va a Marco Ruffolo, scrittore e giornalista, nipote di Alfonso Rendano, che mi ha seguito con passione nella mia lunga ricerca, mettendo a disposizione documenti di gran pregio tratti dall’Archivio privato della famiglia.
– Possiamo scrivere che l’Archivio Rendano rappresenta oggi senza dubbio uno dei tesori più importanti per la città.
«Certamente sì. Anche se non è il solo. Il Fondo-Rendano è, comunque, un fondo assai importante. Si compone di una decina di faldoni in cui c’è di tutto. Lettere, documenti, fotografie, diari, locandine, spartiti e molto altro. Documentazione preziosa. Peccato che per alcuni anni la Biblioteca Civica abbia vissuto una situazione di grande abbandono da parte delle Istituzioni locali, e che ne ha determinato il progressivo logoramento e, poi purtroppo la chiusura. La chiusura della Biblioteca e la conseguente impossibilità di consultare documenti di rilevanza storica penalizzano gli studiosi e un’intera città. Un motivo più che sufficiente, direi, per lanciare un fortissimo appello alle Istituzioni. Partendo proprio dall’indicazione che da più parti era già stata avanzata: quella cioè di destinare il materiale più prezioso della Biblioteca Civica alla Biblioteca Nazionale, affinché tutto possa essere finalmente fruibile da tutti. Non solo dagli studiosi, ma anche dalla gente comune che ha grande sete di informazioni».
– Il suo prossimo progetto Bruno?
«Per ora godiamoci Alfonso Rendano. Anche per me l’orizzonte che mi si palesa davanti non è più infinito. Vedremo».