AGRICOLTORI, LA RIVOLTA SOSTENIBILE
I TRATTORI SIMBOLO DI UNA CRISI SERIA

di ROSARIO PREVITERAUna protesta diffusa può essere sostenibile dal punto di vista economico e ambientale e può essere sostenuta dalla collettività quando se ne capiscano bene le motivazioni e le origini.

La protesta degli agricoltori europei dell’inizio del 2024 verrà ricordata come la “rivolta dei trattori” e probabilmente si rammenterà molto più di quella dei gilet gialli francesi o degli eco-terroristi imbrattatori. E non solo per i disagi dovuti ai blocchi stradali ma anche a causa della conseguente probabile scarsità o mancanza di prodotti alimentari sugli scaffali. Il settore primario infatti è quello da cui dipende la nostra sopravvivenza: senza agricoltura sparisce il cibo.

Purtroppo lo si dimentica facilmente, visto che la popolazione vive prevalentemente in città e il suo rapporto con la ruralità è solo un ricordo, a volte romantico, se non una vera e propria disconoscenza del  “mondo dei contadini”. Invece il mondo contadino è quello da cui tutti proveniamo e dal quale è impossibile prescindere. Ed ecco che ci viene in soccorso  la vecchia storiella dell’albero degli yogurt dal quale i bambini spesso credono di potersi approvvigionare.

La protesta “dei trattori” in atto, partita a gennaio 2024 dalla Germania, ancora in corso in Spagna e appena conclusasi in Francia, scaturisce apparentemente dalle imposizioni volute dall’Ue che obbligano gli agricoltori a sottostare a regole definite “impossibili” anche se utili all’ambiente, alla transizione ecologica, alla decarbonizzazione, alla tutela della biodiversità, alla salvaguardia dei suoli ovvero alla lotta al cambiamento climatico e alla desertificazione. Tutti  argomenti presenti nella programmazione europea e negli orientamenti del “Green Deal”, del “Farm to fork”, del “Fit for 55”, di “Agenda 2030” e che in fondo costituiscono contemporaneamente sia gli effetti della buona agricoltura sostenibile sia la base per il futuro e la sopravvivenza dell’agricoltura stessa.

Regole che in parte sono state “ritirate” dall’Ue in seguito alla protesta, come quelle inerenti la riduzione e il futuro divieto di utilizzo di agrofarmaci, oppure le norme relative alla parificazione delle stalle alle industrie in termini di emissioni inquinanti,  le norme collegate alla regolamento sul Ripristino della natura che prevede di lasciare incolto il 4% delle superfici: problema di fatto poco consistente in quanto inerente ad aree di per se poco o per nulla coltivabili in aziende con più di 10 ettari (400 mq di incolto su ogni ettaro ovvero ogni 10.000 mq) e che può forse intaccare solo gli interessi delle grandissime società agricole operanti come holding su migliaia di ettari.

La rivolta dei trattori in realtà scaturisce da problematiche diverse, concrete e ataviche in quanto connesse al reddito agrario ovvero all’economia della filiera agricola. E quando parliamo di filiera agricola dobbiamo necessariamente considerare anche la componente finale ovvero quella del consumo: già negli anni ’70 Wendell Berry sosteneva che “mangiare è un atto agricolo”. Problematiche che hanno condotto all’esasperazione gli imprenditori agricoli non garantiti da un prezzo minimo e che hanno costretto a chiudere migliaia di medie e piccole aziende negli ultimi anni: più di 3.000 aziende nel 2022 in Italia mentre  nel decennio 2010-2020 le imprese agricole sono diminuite del 30% in Italia e del  25% in Europa. Certamente hanno influito la pandemia e i suoi effetti ma le cause della crisi agricola in nuce sono sempre uguali e tendono ad accentuarsi.

Di fatto, oggi come ieri, gli agricoltori lamentano l’aumento dei prezzi al consumo dei beni agricoli mai proporzionali all’aumento dei loro guadagni, visto che sono soggetti ad iniqui prezzi imposti: aumentano i costi di produzione (energia, concimi e materie prime, trasporti, manodopera, tasse, ecc.) mentre i loro beni agricoli vengono acquistati dai grandi player e dalla grande distribuzione a prezzi che non consentono nemmeno di ripagare le spese effettive sostenute dall’impresa agricola.

A ciò si aggiungano i cosiddetti costi burocratici nazionali e quelli connessi al rispetto delle stringenti normative Ue e nazionali alle quali non sono invece soggetti i prodotti agricoli provenienti dall’estero: questi giungono in Italia via mare e via terra a prezzi certamente molto più bassi e concorrenziali (si pensi ad esempio che un operaio agricolo egiziano guadagna  in un giorno intero e senza tutele quanto guadagna in un’ora un operaio italiano) ma con qualità e garanzia di sicurezza sanitaria assolutamente discutibili.

Inoltre molto spesso la concorrenza è costituita da prodotti esteri spacciati fraudolentemente come italiani o europei, quindi soggetti a trattamenti con pesticidi o conservanti vietati in Europa oppure oltre i limiti consentiti dalla legislazione vigente europea. Tutto ciò a discapito delle nostre produzioni e degli agricoltori. Ecco la concorrenza definibile “sleale”, purtroppo consentita da vari accordi commerciali o di libero scambio e da partenariati tra l’Italia o l’Europa e molti altri Paesi extraeuropei di ogni continente. 

Basti pensare, solo per fare qualche esempio storico di prodotti che giungono silenziosamente sottocosto, ai cereali ucraini, russi o canadesi, all’uva egiziana, ai meloni e agli ortaggi tunisini, all’olio marocchino, alle arance sudafricane, alla mandorla californiana, ai limone argentino, al pomodoro cinese e così via. Le quantità di ortofrutta importate (oltre 2 milioni di tonnellate) superano ampiamente l’export (1,7 milioni di tonnellate) portando nel 2022 il saldo commerciale ad un valore in negativo: 115 milioni di euro pari all’81,9% considerando che il saldo commerciale era di 635 milioni nel 2021. E visto che la crisi economica ormai è globale, il consumatore sceglie sempre di più prodotti a basso prezzo, nonostante appaia sempre più consolidata la sua consapevolezza sul termine “qualità” e nonostante sia in crescita il trend della scelta di prodotti controllati-certificati, made in Italy, a “km zero”, biologici ecc. 

A tutto ciò si aggiunga che il global warming, la siccità, gli eventi climatici estremi, l’aumento di nuove malattie, di parassiti vegetali, di specie cosiddette aliene (sia perché importati sia per le mutate e ospitali condizioni climatiche che modificano gli ecosistemi), stanno determinando gravissimi danni economici all’agricoltura e alla coltivazione in quanto tale a partire dalla perdita di produzione fino ai costi spropositati necessari per la difesa vegetale in genere. 

I dati Istat del 2022 evidenziano un incremento medio dei prezzi dei prodotti agricoli su base annua del 17,7%, quasi il triplo rispetto alla crescita registrata nel 2021 (+6,6%). Al contempo i costi di produzione a carico delle imprese agricole salgono del 25,3% ed il valore aggiunto agricolo, destinato all’agricoltore, scende dell’1,8 % e quindi anche la produzione va in crisi con una contrazione dell’1,5% ed un contrazione dell’occupazione agricola del 2,1%. È il caso di dire che siamo di fronte alla “tempesta perfetta” ovvero ad una congiuntura di fattori che rischia di bloccare l’attività agricola con tutto ciò che di drammatico ne deriverebbe.

Forse è uno dei tanti effetti, diretti e indiretti, visibili e invisibili, del riscaldamento globale aggravato dagli effetti a cascata e non prevedibili dei numerosi conflitti in atto. Siamo di fronte a un grande e composito domino ormai attivato e di cui non si riesce a vederne la fine in quanto mutevole. E l’agricoltura così come la nostra vita quotidiana ne sono parte e vittime inconsapevoli. Il tutto nel silenzio delle associazioni di categoria agricole dalle quali gli agricoltori non si sentono rappresentati e i cui “accordi di filiera” rimangono solo carta stampata.

La “Unfair Trading Practices (UTPs) Directive (EU) No 2019/633” ha introdotto una serie di misure per tutelare i fornitori di derrate alimentari rispetto alle clausole contrattuali inique imposte dai loro clienti industriali e dalla distribuzione organizzata ma il legislatore europeo non ha tuttavia chiarito il divieto delle vendite sottocosto. Una direttiva efficace in Francia ma non in Germania o in Italia a causa di numerose deroghe che consentono vendite sottocosto e promozioni fuori controllo, anche con la complicità delle sigle sindacali di settore e delle organizzazioni di produttori e rispettive confederazioni.

Cosa rispondere e come aiutare gli agricoltori in rivolta, protagonisti di tale “neo protestantesimo agricolo”? Certamente si deve puntare una volta per tutte nel regolare la filiera distributiva ponendo dei limiti, normativi o di contrattazione collettiva, alla moltiplicazione del valore aggiunto (oggi  da 10 a 20 volte) di ogni prodotto che dal produttore primario giunge al venditore finale ovvero al consumatore; valore aggiunto che dovrebbe potersi spostare proprio verso l’inizio della catena produttiva. Sarà importante abbattere il costo (cuneo) fiscale del lavoro e trovare formule di assunzione più snelle come i voucher nel rispetto della dignità lavorativa e del minimo salariale.

Occorre abbattere le accise e rendere ancora più agevolato il carburante agricolo così come sarà fondamentale semplificare e agevolare l’uso di energie rinnovabili in agricoltura e soprattutto ridurre quei costi energetici in generale che impediscono il mantenimento e lo sviluppo di quei comparti che dipendono dalla catena del freddo. E infine occorrerà rivedere i famigerati accordi di libero scambio e perché no ipotizzare nuove forme di dazio, così come contestualmente occorrerà intensificare i controlli sulla tracciabilità di filiera e l’etichettatura obbligatoria per annientare la concorrenza sleale dell’import. Probabilmente si dovrà in parte ritornare a sistemi che ricordano la vecchia Pac e che vanno oltre gli eco-schemi o la eco-condizionalità, ma che sostengono e integrano il reddito agricolo: ciò in relazione ad una rinnovata visione dell’agricoltore che deve essere premiato e incentivato quale custode della terra nonché ad una consapevole percezione della sua attività ovvero l’agricoltura, da intendere nei limiti della sostenibilità di base generale,  quale fattore economico e sociale effettivo per la conservazione. E non intendo solo la conservazione del paesaggio, del territorio, della biodiversità  come è stato fino ad ora ma parlo di conservazione e tutela della sicurezza sanitaria e della sicurezza alimentare, ovvero quella garanzia di cibo e nutrizione per tutti, che è sempre più a rischio. E sembra paradossale che l’Italia, un tempo giardino d’Europa oltre che patria della Dieta mediterranea, possa oggi correre gli stessi rischi di insufficienza alimentare caratteristici di quei Paesi in via di sviluppo o a sviluppo zero, che un tempo definivamo “terzo mondo”, da cui prenderanno le mosse biblici esodi di migranti climatici. 

In termini di investimenti ovvero di cofinanziamento per gli investimenti in agricoltura da parte degli imprenditori tramite i PSR regionali, oltre ad incrementare la quota a fondo perduto a più dell’80% risulterà importante finalmente rivoluzionare l’accesso al credito, il quale per le regioni del Sud continua ad essere un vero e proprio miraggio. A livello strutturale e infrastrutturale sarà importante proseguire nelle azioni contro lo spopolamento delle aree rurali e montane e occorrerà investire con i fondi di coesione disponibili  e con il Pnrr sull’incremento dei servizi per il miglioramento della qualità della vita e per il ripopolamento delle aree marginali: nei prossimi decenni gli esodi interni riguarderanno gli abitanti delle aree urbane che si sposteranno a quote più alte per vivere meglio e fuggire dal caldo sempre più intenso delle città, il quale insieme all’inquinamento costituisce e costituirà una delle principali cause di mortalità in Europa. E sempre di tipo infrastrutturale dovranno essere gli interventi sui bacini idrici e le azioni contro la siccità incalzante: una grande e urgente pianificazione e costruzione della rete degli invasi idrici collinari e montani deve essere affiancata necessariamente dalla desalinizzazione e utilizzo delle acque marine sia a scopo potabile che irriguo. Oggi la tecnologia specifica insieme a quella connessa per l’uso della necessaria energia “green” di vario tipo è in continua e rapidissima evoluzione.  

Anche se le necessità sono cresciute rispetto agli anni scorsi, il bilancio europeo per il 2024 prevede una spesa totale per l’agricoltura di poco superiore ai 53 miliardi di euro pari a quanto previsto l’anno precedente ma senza tenere conto dell’inflazione crescente e delle grandi crisi socio-economiche in atto. Si prevede una spesa di 336,4 miliardi di euro per il periodo 2021-2027 da suddividere tra le varie nazioni e regioni e su diversi fondi specifici. E’ una cifra appena sufficiente per le esigenze dei territori ma soprattutto è una risorsa che va qualitativamente distribuita e strategicamente reimpostata nelle finalità. Siamo di fronte a nuove emergenze e a nuovi scenari,  quelli agricoli, spesso sottovalutati, che influenzeranno come e più di quelli energetici i prossimi contesti geopolitici. Auspichiamo che il rombo dei trattori sia sufficiente e utile a ricordarcelo. (rp)

[Rosario Previtera è agronomo, manager della transizione ecologica,  docente di Geopedologia e presidente di Conflavoro Pmi Agricoltura]

L’EMIGRAZIONE, IL TRISTE FENOMENO CHE
ARRICCHISCE IL NORD AI DANNI DEL SUD

di PIETRO MASSIMO BUSETTA – «Attualmente  la stragrande maggioranza degli interventi viene effettuata con tecniche chirurgiche d’avanguardia e mininvasive, grazie alla laparoscopia con visione tridimensionale ed alla chirurgia robotica. Queste  competenze hanno permesso di trattare moltissime patologie in maniera ottimale e secondo i più alti standard terapeutici nazionali ed internazionali». Lo afferma Alfredo Ercoli, professore ordinario di Ginecologia ed Ostetricia e direttore della Scuola di Specializzazione in Ginecologia ed Ostetricia e direttore dell’Uoc di Ginecologia ed Ostetricia del Policlinico ‘G. Martino’. Di Padova? Eh no. Non ci crederete ma parliamo di Messina. 

Contraddicendo tutti coloro, molti di questi meridionali, che se hanno un problema di salute pensano che il miglior modo di risolverlo sia quello di comprare un volo low cost per il Nord. 

In realtà tutti sanno che le eccellenze sanitarie  in termini individuali sono certamente presenti in tutto il Paese. Ma mentre al Nord il sistema sanitario ha una organizzazione complessiva, che garantisce il malato in tutti i momenti della sua degenza spesso, invece,  nelle strutture meridionali a fianco alle eccellenze professionali vi è una realtà complessiva che non è all’altezza delle individualità, anche eccellenti, che vi operano. Tale situazione  di mobilità comporta un costo per la regione che subisce il trasferimento ed un vantaggio per chi invece accoglie i pazienti. 

Infatti le amministrazioni, che fanno parte del sistema sanitario nazionale, rifondono a quelle che accolgono i costi sostenuti per prestare le cure richieste. Anzi le strutture di accoglienza si sono organizzate in maniera tale che non vi siano liste di attesa per chi arriva da fuori, che invece permangono per i residenti, in modo da incoraggiare i pazienti alla emigrazione sanitaria. 

Un sistema messo a punto non solo per quanto attiene alla sanità ma anche per la formazione, che le Università del Nord offrono agli studenti del Sud. Recentemente il politecnico di Torino si preoccupava della bassa natalità del Sud, perché tale fenomeno avrebbe comportato una minore richiesta di iscrizione da parte degli studenti meridionali. 

Anche in questo caso il prezzo che viene pagato dal sistema economico meridionale è estremamente alto. Perché non riguarda solamente il costo dell’iscrizione presso le università, ma anche il costo del soggiorno che aiuta i sistemi economici di Pisa, di Bergamo o di Brescia, con una richiesta di affitto da parte dei pendolari, per tutti gli anni della frequenza.

Non solo ma a chiusura del periodo formativo, quando gli emigranti troveranno quel lavoro per il quale hanno deciso la frequenza nelle università settentrionali, i genitori compreranno magari una casa, vendendo quella posseduta, diminuendo enormemente il valore del patrimonio immobiliare del Sud, come sta avvenendo, e aumentando quello del Nord. 

Insomma il conto complessivo è di quelli che sembra incredibile. Il primo importo è quello relativo al costo della formazione dei 100.000 che ogni anno si trasferiscono per lavorare al Nord.

La maggior parte di essi ha una formazione universitaria. In media possiamo dire, considerato che vi sono anche delle professionalità senza titolo di studio,  che la formazione è quella media  superiore. 

Il costo complessivo per far nascere, crescere e formare  un giovane in modo che possa cominciare a lavorare è di circa 200.000 €, che moltiplicati per i 100.000 che ogni anno se ne vanno fa una somma vicina ai 20 miliardi di euro, che le regioni meridionali regalano a quelle del Nord, in prevalenza. In realtà vi sono anche le migrazioni internazionali che andrebbero sottratte a questa cifra. 

In questi anni è cresciuta anche la migrazione sanitaria dalle regioni del Sud a quelle del Nord con 4,25 miliardi di euro che si spostano verso il Nord. 

A Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto il 93,3% del saldo attivo. Il 76,9% del saldo passivo grava sul Centro-Sud. Delle prestazioni ospedaliere e ambulatoriali erogate in mobilità oltre 1 euro su 2 va nelle casse del privato.

Il Miur ha annunciato che nell’anno accademico 2022-23 ci sono state 331 mila immatricolazioni (147 mila maschi, 184 mila femmine). È una cifra costante negli ultimi anni. Il 25 per cento di studenti meridionali fuori sede si traduce in oltre 82 mila partenze. Applicando il criterio di spesa prudenziale dei 30 mila euro l’anno per ogni studente, il prodotto della moltiplicazione è di 2,47 miliardi di euro in fondi privati trasferiti dal Sud al Centro-Nord. 

Facendo la somma di tutte queste risorse andiamo verso i 30 miliardi annui che vengono trasferiti che, sommati ai 60 di spesa pro capite differente, calcolata dal dipartimento per le politiche di coesione, fanno  una somma complessiva di circa 90 miliardi annui. 

Pensate che qualcuno voglia rinunciare alla mucca grassa che si trova a mungere senza opporre resistenza? Sarà difficile.       Ovviamente l’autonomia differenziata porterà ad una aggravamento di questa situazione. Poiché avendo a disposizione meno risorse la sanità meridionale non potrà che peggiorare, mentre quella settentrionale avrà un standard sempre più di livello. 

Stessa condizione subirà la formazione universitaria, mentre l’impossibilità di trovare livelli adeguati di occupazione nel Sud alimenterà il processo migratorio dei giovani formati meridionali.

É uno schema tipico delle colonie che sarà difficile ribaltare senza interventi decisi e continuati, che non si vedono all’orizzonte. Bisogna comunque sottolineare che in parte tali  spostamenti sono dovuti a una reale differenza di assistenza o di formazione.

Ma nella maggior parte dei casi dipendono da una cattiva reputazione che le  strutture sia mediche che formative, al di là della loro reale valenza, in alcuni casi per loro colpa effettiva,  in altri per una vulgata cavalcata dagli interessi di chi vuole alimentare i trasferimenti, si sono “guadagnate”. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]

RYANAIR, REGGIO TORNERÀ A DECOLLARE
LA NUOVA VITA DELLO SCALO CON 8 ROTTE

di SANTO STRATI – «Calabria, Calabria, Calabria!»: l’urlo benaugurante del CEO di RyanAir Eddie Wilson (di ritorno, estasiato, da un giro per Scilla) ha aperto non solo la presentazione dell’arrivo della Compagnia irlandese a Reggio, ma ha rimesso in gioco uno scalo che sembrava destinato a morire. L’Aeroporto dello Stretto diventa un hub per RyanAir (il 19esimo in Italia) e farà da scalo a otto nuove rotte, tre domestiche e cinque internazionali. Il merito di questa rinascita è di Roberto Occhiuto e ingoieranno fiele tutti coloro che additavano il Governatore come un nemico di Reggio: 8-0 è il risultato di una partita che rilancia l’aeroporto e vede vincente non il Presidente bensì tutta la Calabria.

10 nuove rotte (alle otto reggine si aggiungono una per Torino da Crotone e un’altra per Valencia, in Spagna, da Lamezia Terme) sono la migliore risposta a quell’esigenza di fare rete tra i tre aeroporti calabresi (rete ancora lontana, ma non impossibile da realizzare). Il merito, è giusto ribadirlo, è di Occhiuto che quest’estate ha convinto il simpaticissimo Eddie Wilson che la Calabria, con le sue prospettive di incoming turistico rappresenta un’occasione troppo ghiotta per farsela scappare.

Certo, c’è il contributo della Regione, ma qualunque sia la cifra impegnata (si parla di 22 milioni), saranno soldi ben spesi. Intanto RyanAir investe 100 milioni (che non sono noccioline) e – come ci ha detto Eddie Wilson – questo è solo l’inizio. Roma e Milano sono vincolate agli slot lametini e restano commercialmente la parte più sostanziosa della domanda di volo in partenza e in arrivo, ma non si può mai dire: «Fateci cominciare, ci ha detto con condivisibile ottimismo il CEO di RyanAir Wilson – poi si vedrà. Il fatto stesso che Reggio diventi un Hub apre molte prospettive che non intendiamo sottovalutare. Vogliamo far volare la Calabria e portare milioni di turisti a scoprire questa terra meravigliosa».

La verità è che Linate non apre i suoi  slot a RyanAir e gli slot di atterraggio di Fiumicino e Ciampino sono appannaggio di Lamezia (che non arretra di un passo). Il bando di continuità territoriale che sta utilizzando RyanAir, purtroppo, esclude tratte già servite (Fiumicino e Linate) e bisognerebbe che Ita ripristinasse i voli da Reggio per Roma e Milano che c’erano prima della pandemia. Il volo attuale per Linate parte semivuoto giacché l’orario è assurdo e costringe i professionisti (o i malati che devono fare una visita specialistica) a perdere tre giorni, incluso un pernottamento. Per ripristinare il volo del mattino per Linate serve che la Regione paghi il pernottamento all’equipaggio? E che sarà mai? 100-150mila euro al mese, una bazzecola rispetto a ntanti altri soldi buttati via senza alcun ritorno per i calabresi. Ma di questo si parlerà meglio a Reggio domani al convegno promosso dalla Fondazione Magna Grecia, guidata da  Nino Foti, che ha coinvolto numerosi specialisti per parlare del sistema aeroportuale dello Stretto, tra cui il presidente dell’ENAC, Pierluigi Di Palma, e il presidente di Assoaeroporti Luca Borgomeo.

E potrebbe essere un’altra giornata storica per l’Aeroporto dello Stretto, che tutti (compreso chi scrive) davano per spacciato e che, invece, torna protagonista con otto rotte: Bologna, Torino, Venezia come voli nazionali, e cinque collegamenti internazionali con Barcellona, Berlino, Manchester, Marsiglia e Tirana. Quest’ultima sicuramente parte avvantaggiata visti i cordialissimi rapporti tra Calabria e Albania e i tanti investimenti di imprenditori calabresi a Tirana. Senza contare che in Calabria c’è la più ampia comunità arbëresh che mantiene solidi rapporti con l’Albania.

La notizia bella, però, non finisce qui, parliamo di occupazione: ci saranno 200 nuovi posti di lavoro diretti e si stima un migliaio per l’indotto. E con l’ammodernamento dello scalo Reggio e Messina potranno contare su un aeroporto veramente dello Stretto. Basti pensare che Starbus, la società messa in piedi nel dal calabrese Domenico Soldano dal 1° marzo porterà dalla Stazione centrale di Messina i passeggeri all’aeroporto di Reggio (20euro tutto compreso) facendo trovare già pronto il check in: significa che in un‘ora la Sicilia orientale viene servita da un trasporto dedicato per qualsiasi volo giornaliero. E naturalmente viene offerto il collegamento inverso con Messina. È un primo importante, significativo, passo aggiuntivo all’utilizzazione in maniera seria dello scalo reggino.

Indubbiamente, si aprono scenari fino a qualche mese fa davvero impensabili. L’aeroporto di Reggio dove ancora esistono delle limitazioni per l’abilitazione all’atterraggio non rappresenta un problema per RyanAir: l’ad Wilson – sorridendo – ha sottolineato che «ci sono anche altri aeroporti “difficili”, ma i problemi li abbiamo fino ad oggi superati altrove, li supereremo anche a Reggio». Il profumo del Bergamotto di Reggio Calabria (Occhiuto gli ha donato alcuni frutti, oltre a una riproduzione in miniatura dei Bronzi) deve avere inebriato Eddie Wilson, che ha rivelato senza piaggeria di essersi già innamorato di Reggio: la location del Museo dei Bronzi ha fatto il resto, con l’Etna imbiancato a far da contorno allo Stretto, nella straordinaria e incomparabile vista che si gode dalla terrazza del Museo archeologico. Una terrazza strapiena di giornalisti e cineoperatori, una cosa mai vista a Reggio, oltre ai rappresentanti istituzionali (la vice presidente Giusi Princi, gli assessori Rosario Varì ed Emma Staine, il sindaco Falcomatà, il Rettore della Mediterranea Giuseppe Zimbalatti, il presidente di Confindustria Reggio Domenico Vecchio, il presidente della Camera di Commerio (e Unioncamere) Ninni Tramontana, e tanti altri ancora. Una giornata memorabile, da segnare nella storia dell’Aeroporto di Reggio.

Qualcuno storcendo il naso ha ricordato una più modesta presentazione il 5 agosto del 2019 all’aeroporto di Reggio, dove vennero illustrati i lavori del cosiddetto “emendamento Cannizzaro” che portava allo scalo 25 milioni di euro per la ristrutturazione. Sono passati quasi 5 anni, lo scalo è praticamente deserto, qualche lavoro è iniziato, ma non c’è un punto di ristoro o un bar, non c’è un’edicola e, soprattutto, non ci sono le compagnie di noleggio auto.

Chi arriva a Reggio, stamattina, trova uno scenario di desolazione insopportabile, soprattutto per quanti ricordano lo scalo di una quindicina di anni fa, quando c’erano traffico, tanti passeggeri e arrivavano e partivano aerei in continuazione. Il personale di terra è stato licenziato o messo in cassa integrazione (ma per fortuna la compagnia irlandese annuncia 200 nuove assunzioni) ed è rimasta in piedi solo la postazione di polizia per i controlli di sicurezza.

Una cosa è certa, grazie a RyanAir Reggio torna a decollare e far “vivere” il suo aeroporto. Maser viranno subito i lavori per ristrutturare l’aerostazione (una nuova costerebbe persino meno, come proposto dal gruppo imprenditoriale di Pino Falduto) degna di questo nome (e questo vale anche per l’aerostazione di Lamezia che è semplicemente penosa) e bisognerà attivare i servizi di mobilità. Accanto all’aeroporto c’è la stazione ferroviaria, bella nuova, mai utilizzata: con una metropolitana di superficie (un treno locale, per intenderci) si collegherebbe la Stazione Centrale di Reggio con l’Aeroporto, facendo finire lo scandalo dei taxi che chiedono 50 euro per una corsa dal centro allo scalo o viceversa. Tutto si può fare e tutto può accadere: il miracolo della ripartenza si chiama RyanAir? Bene, allora benvenuto mr Leary nella Città dello Stretto, ma si faccia voler bene dai calabresi e dai siciliani che sceglieranno di volare con la sua Compagnia. (s)

IN CALABRIA SEMPRE MENO LE IMPRESE: SI
DEVE AGIRE PER INVERTIRE LA TENDENZA

di KLAUS ALGIERI – La Calabria, come tutto il resto del Paese, da qualche anno a questa parte si trova a fare i conti con un fenomeno allarmante che sta distruggendo l’economia dei territori: la desertificazione commerciale.

I dati rilasciati dall’Ufficio Studi Confcommercio su dati Centro Studi delle Camere di Commercio G. Tagliacarne per il periodo 2012-2023, hanno messo in luce, in tutti e cinque i capoluogo di provincia Calabresi, un declino significativo delle attività commerciali nei centri storici con segni di cedimento anche nei centri urbani in generale.

Il cuore delle città calabresi è in crisi, con un crollo del commercio che si riflette chiaramente nei dati. A Catanzaro, il commercio nei centri storici ha subito una diminuzione di 85 unità di impresa nel periodo 2012-2023. Cosenza ha visto un declino ancor più marcato, con una perdita di 91 imprese, mentre Crotone mostra una leggera diminuzione di 9 imprese. Ma a mostrare i dati più allarmanti sono le città di Reggio Calabria e Vibo Valentia che hanno subito rispettivamente una riduzione di 110 e 93 unità d’impresa.

La situazione non mostra segni di miglioramento nemmeno raffrontando i dati del 2022 con quelli del 2023. Il centro storico di Catanzaro infatti, in un anno ha perso 25 imprese commerciali, Cosenza 31, Crotone 14, Reggio Calabria 7 e Vibo Valentia 13.

La desertificazione commerciale, tuttavia non risparmia nemmeno i centri urbani, anche se va precisato che in questo caso si ravvisano tendenze contrastanti. Catanzaro e Reggio Calabria subiscono perdite significative nel periodo 2012-2023, con -183 e -201 unità d’impresa. Cosenza, al contrario, mostra un calo meno marcato -132 attività, mentre Crotone e Vibo Valentia registrano addirittura incrementi di 50 e 1 unità.

Anche i servizi, sia nei centri storici che nelle altre zone, sono coinvolti da questa tendenza. Cosenza è l’unica a distinguersi positivamente con un aumento del 64 attività nei centri storici nel periodo 2012-2023. Tuttavia, Catanzaro, Crotone, Reggio Calabria e Vibo Valentia subiscono perdite, evidenziando la fragilità del settore.

Nel biennio 2022-2023, Cosenza mantiene una tendenza positiva (+10), mentre gli altri centri storici vedono ulteriori declini modesti o stagnazioni.

I dati sulla desertificazione commerciale nella nostra Regione sono estremamente preoccupanti e richiedono un’immediata attenzione e azione. La situazione delineata evidenzia una crisi profonda che sta minando le fondamenta stesse delle nostre comunità locali.

In particolare, il drastico declino delle attività commerciali nei centri storici, luoghi che rappresentano il cuore pulsante della nostra cultura e identità, ci preoccupa molto. Da molto tempo stiamo dicendo che è necessario intervenire per invertire questa tendenza. Servono politiche mirate e soluzioni innovative. È cruciale adottare misure che possano stimolare la ripresa economica, sostenere gli imprenditori locali e proteggere il tessuto commerciale delle nostre città. Questo include incentivare l’apertura di nuove attività, implementare politiche di riqualificazione urbana e promuovere l’attrattività dei centri storici per i consumatori. (ka)

[Klaus Algieri è presidente di Confcommercio Calabria]

TAURIANOVA CAPITALE ITALIANA DEL LIBRO
PARTE DA QUI LA TUTELA DELLA CULTURA

di ANTONIETTA MARIA STRATI – Adesso è ufficiale: Taurianova è Capitale Italiana del Libro. Dopo Vibo Valentia, dunque, la nostra regione è tornata a essere la protagonista indiscussa di un bene universale e fondamentale quale è la lettura. Ma non solo. La vittoria della città della Piana dimostra e conferma che la Calabria non è solo ‘ndrangheta e violenza, ma è cultura, conoscenza e, soprattutto, voglia di riscatto.

Una volontà ben chiara alla Giuria del ministero della Cultura che, guidato da Gianfranco Bruni, ha scelto il progetto calabrese «perché rappresenta, per una realtà piccola – si legge nella motivazione – la strada di una crescita o addirittura una rinascita attraverso la realizzazione di infrastrutture culturali, materiali, immateriali e valoriali, capaci di irradiare i propri effetti virtuosi anche sul territorio circostante».

«La decisione è stata presa in coerenza – ha spiegato Bruni – con quello che l’Unesco definisce il valore intrinseco del settore culturale e creativo in termini di coesione sociale, capacità di generare risorse educative, benessere personale e crescita economica».

La giuria, autonoma e indipendente dal ministero, presieduta da Bruni, e composta da Incoronata Boccia, Gerardo Casale, Antonella Ferrara e Sara Guelmi, ha scelto il progetto calabrese «anche in ragione del contesto storico e geografico, l’occasione per generare un esempio di pedagogia di riscatto culturale, civile e sociale», si legge ancora nella nota.

La vittoria di Taurianova, decretata all’unanimità dalla giuria, conferma, dunque, «la vitalità culturale della nostra amata Calabria, e la voglia di crescere per abbracciare una mentalità nuova, più aperta al cambiamento, alle contaminazioni, al desiderio di evolvere; questo è ciò che provoca la letteratura e la cultura in generale», scriveva la sindaca di Vibo Valentia, Maria Limardo, in una lettera indirizzata al sindaco Roy Biasi.

Quella di Limardo, infatti, è la testimonianza di quanto sia stata importante, per Vibo Valentia, diventare Capitale Italiana del Libro nel 2021: «Con il progetto di Vibo Capitale italiana del Libro abbiamo creato occasioni di confronto, scambi culturali unici che altrimenti non sarebbe stato possibile neanche immaginare, ma soprattutto quanto fatto nel corso di quell’anno, ci ha consentito di dare vita a qualcosa di stabile, dal Comitato editori vibonesi (Cev) fino all’Orchestra Sinfonica della Calabria, riconosciuta come Ico dal Ministero e che oggi è un autentico faro di cultura per l’intera regione».

La vittoria della città della Piana, tuttavia, non si deve fermare solo alle congratulazioni. Se il sindaco Biasi dice che «altrove le biblioteche chiudono, a Taurianova la biblioteca riapre come segno di speranza e di risorgimento», in Calabria sono tante le biblioteche ancora chiuse.

Il caso più eclatante è quello della Biblioteca Civica di Cosenza, chiusa da tre anni e che sembra essere stata dimenticata dalla Regione. Sono stati inutili, infatti, gli appelli lanciati dal presidente dell’Accademia Cosentina, Antonio D’Elia, al ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, non solo a intervenire, ma anche nel chiedere di inglobare l’istituto al ministero. Stesso discorso per la deputata del M5S, Anna Laura Orrico, che si era appellata a «tutti i rappresentanti istituzionali del territorio, al di là di ogni colore politico, soprattutto quanti sono al governo del Paese e della Regione», affinché «prendano a cuore le sorti della Biblioteca Civica sostenendone la riapertura non solo attraverso i buoni propositi ma con risposte concrete alla chiusura di un presidio di storia, cultura e identità non solo cosentina ma meridionale».

Un’azione necessaria, soprattutto se, con l’incoronazione di Taurianova a Capitale del Libro, si è creata «un’occasione per far conoscere a livello nazionale e internazionale una città piena di cultura e di tradizioni, cambiando la narrazione degli ultimi decenni e facendo emergere le opportunità positive del nostro territorio», come ha dichiarato il presidente della Regione, Roberto Occhiuto, orgoglioso per il traguardo.

Come sottolineato dalla vicepresidente della Regione, Giusi Princi, «il riconoscimento rappresenta una bellissima pagina non solo per Taurianova ma anche per tutta la Calabria perché rappresenta la strada da percorrere per la di crescita e la rinascita, non solo di una piccola realtà ma dell’intera regione».

«È il riscatto di un territorio che va oltre gli stereotipi, supportando la Calabria che ha bisogno di tutte le sue forze migliori per raccontare di sé la grande voglia di cambiamento», ha aggiunto la vice di Occhiuto, sottolineando come «ogni biblioteca che riapre riaccende le speranze e io mi sento parte della comunità taurianovese che ha affidato il proprio futuro alla cultura, all’istruzione, ai saperi».

Questo risultato, accolto con immensa gioia da Roy Biasi, non deve essere interpretato solo «come l’incoraggiamento del governo a proseguire nell’azione di riscatto che abbiamo avviato, sentendo di rappresentare in questo nostro sforzo la Calabria che vuole dare, soprattutto alle giovani generazioni, occasioni di crescita attraverso una nuova reputazione che stiamo riconquistando agli occhi del Paese», ma essere lo spunto per la Regione, prima tra tutti, per investire, ancora di più, nella lettura, nella cultura e nell’immagine di una terra ricca di eccellenze e opportunità.

Concetto ribadito dal senatore di Fi Mario Occhiuto, che ha sottolineato come la vittoria di Taurianova è «un segno tangibile del potenziale straordinario che risiede nelle nostre comunità, ricche di storia e tradizioni», e che «tutto questo dimostra, ancora una volta, che la cultura può essere davvero un motore di trasformazione e sviluppo».

Un «tributo alla ricchezza culturale della Calabria e alla sua vivace comunità letteraria, contribuendo così alla costruzione di una società più coesa e inclusiva», l’ha definita il presidente del Consiglio regionale, Filippo Mancuso.

A fargli eco l’assessore regionale alle Infrastrutture, Emma Staine, sottolineando come «in questa terra di grandi contraddizioni, Taurianova sarà capace di esprimere le immense potenzialità culturali che caratterizzano la Calabria. Attraverso la promozione della lettura e la diffusione dei libri, la nostra città ha l’opportunità di valorizzare le nostre ricchezze e di trasmettere un’immagine autentica e positiva della nostra regione, troppo spesso affidata ad una narrazione carica di pregiudizi».

«Siamo fiduciosi che questa designazione – ha concluso – porterà benefici tangibili e duraturi per tutti i cittadini e ne siamo grati a tutti coloro che hanno contribuito a renderla possibile».

La rinascita della Calabria dunque, riparta anche dalle biblioteche, custodi di saperi e strumenti indispensabili per creare una società migliore da affidare alle nuove generazioni. (ams)

 

DON MIMMO BATTAGLIA: SI DEVE FERMARE
LA TEMPESTA D’EGOISMO CONTRO IL SUD

di MIMMO NUNNARI – Ti illumina la mente e ti riscalda il cuore parlare di Sud e di futuro dell’Italia con un uomo di punta della Chiesa di Francesco, come l’arcivescovo di Napoli, don Mimmo Battaglia, che dice: «Io, prete, sono del Sud non solo perché sono nato in un piccolo paese [Satriano, provincia di Catanzaro] che dalle sue colline guarda il mare e al mare nostro si porge con la generosità della nostra antica accoglienza. Sono del Sud, non solo perché ho lavorato sempre lì, studiato lì, servito il suo popolo lì. Sono del Sud, non solo perché, per volontà del Pontefice e per grazia di Dio, sono Vescovo nella più grande Città del Sud. Io sono del Sud perché sono Sud. E lo sono perché condivido tutto il suo palpitare danime, tutto il suo sentire umano, tutta la sua grande forza creativa. Tutta la sua tristezza e il suo dolore. E tutta la sua allegrezza nella gioia di vivere».

Don Mimmo, come ama essere chiamato, ancora adesso che è arcivescovo metropolita di Napoli dal 12 dicembre 2020, in Calabria – soprattutto nella sua vecchia diocesi di Catanzaro-Squillace dove è stato prete per quasi trent’anni – lo ricordano per l’impegno missionario verso i più deboli e gli emarginati: dal 1992 al 2016 ha guidato il – Centro calabrese di solidarietà, una struttura che si prende cura di soggetti considerati svantaggiati: donne vittime di violenza, tossicodipendenti, alcooldipendenti, immigrati, giovani disagiati e famiglie.

Ha pure scritto un libro, su questa sua esperienza calabrese: Un filo derba tra i sassi (edito da Rubbettino) in cui ha raccolto le testimonianze di “umiliati e offesi dalla vita”, di cui l’autore, durante la sua lunga missione in Calabria, si è fatto padre, fratello e compagno di strada. A Napoli, il prete di strada – espressione che a don Mimmo in verità non piace molto – il “pretaccio”, come lo definì comunque il vescovo Giancarlo Bregantini, nella prefazione di quel libro, volendo indicare, con quel termine, il coraggio e la luminosità” del prete operante, ha continuato ad intrecciare storie quotidiane di periferia e Vangelo.

L’anno scorso, per dire, ha celebrato il giovedì santo a Scampia, in mezzo a una maleodorante e tossica discarica abusiva. Inginocchiato sui rifiuti, ha lavato i piedi di dodici bambini rom e, rivolto a giornalisti e telecineoperatori, li ha implorati a non riprendere lui, ma a riprendere cosa c’era intorno: tonnellate di rifiuti, che avvolgevano le baracche: «Questo non è un posto da esibire – disse – ma di cui avere vergogna».

Qualche cronista riferì che a Napoli lo avevano ribattezzato il “Bergoglio del Sud Italia”, per il suo essere rimasto “un autentico prete di strada”, uno anzitutto innamorato e strenuo difensore del Mezzogiorno. Quando nel maggio 2022 pubblicai per le edizioni San Paolo il libro Lo stivale spezzato, chiesi a don Mimmo di parlare del suo Sud. Ecco cosa rispose: «Tutto il Sud è una terra bellissima. Di questa estesa terra ricca di paesaggi e di storie, di mare e di cielo limpidi, di monti leggeri e di valli ondulate, di cultura e di umanità, di pensiero alto e di braccia forti, di incanto meraviglioso e di mani incallite, ho visto, e ancora da questo luogo straordinario vedo, le sofferenze degli uomini e delle donne, il loro coraggio di combattere ancora».

«La loro vivida intelligenza e profonda bontà. Però ho visto anche e vedo, le ingiustizie inflittegli anche da chi – a causa di un antico e reiterato preconcetto – considera il Sud una zavorra e non una risorsa, credendo di poter agganciare il treno dellEuropa abbandonando sul binario morto quella parte del Paese che in più di mezzo secolo gli ha offerto non soltanto le braccia per le industrie, ma anche le intelligenze per farlo diventare quel ricco e potente territorio che è».

Oggi, a distanza di un anno e mezzo, don Mimmo riprende quel discorso e “tuona”, con toni accorati, che esprimono la sua grande preoccupazione e della stessa Chiesa meridionale, contro il progetto di Autonomia differenziata, che definisce come qualcosa che “contiene nel suo corpo la divisione” e va inteso “come volontà egoistica e come perverso progetto politico”. La sua lunga riflessione, resa pubblica pochi giorni fa in un documento diffuso dalla Chiesa di Napoli, è come un avvertimento, un invito a risvegliarsi, «mentre soffia forte il vento di tempesta che è legoismo».

Nell’Autonomia differenziata, dice don Battaglia, «c’è la volontà egoistica dei ricchi e dei territori ricchi, il progetto antico, di poco più di quarantanni fa, di dividere lItalia, separando il suo Nord, divenuto opulento con le braccia e lintelligenza dei meridionali, da quel Sud impoverito dalla perdita di risorse, di forze fisiche e intellettuali, svuotato progressivamente di fondamentali sue ricchezze al posto delle quali sono arrivati a fiumi inganni e false promesse».

Già la stessa parola “Autonomia differenziata”, non è vera, sostiene l’arcivescovo: «È evidente che essa significhi che lautonomia non è uguale per tutte le regioni, che essa, appunto, si differenzia tra quelle forti, che con lautonomia diventeranno più forti, dalle regioni deboli, che paradossalmente diventeranno più deboli. Insomma, si realizza, anche nelle istituzioni, quella dinamica apparentemente incontrollabile che legittima lingiustizia più grave».

Anche i tempi, per don Mimmo Battaglia, sono sbagliati: «Questa trasformazione nel Paese avviene quando due debolezze si intrecciano pericolosamente, quella della politica e quella del Meridione. Basterebbe solo questo, per accendere le menti più attente e i cuori più sensibili». Questo era il momento per fare altro in Italia, sostiene l’arcivescovo: «Per cambiare il nostro sguardo e quello delle istituzioni, invertendo la sua direzione. Il vero inizio del buon cambiamento si avrà quando tutti partiremo dal Sud. È uno sguardo culturale prima che politico. Muove dal cuore. Per una sola volta almeno restiamo qui, quelli che ci siamo e gli altri,  che sono “ lontani”, scendano qui. Idealmente si diventi tutti insieme Sud per coglierne tutto il dolore e insieme tutta la sua grandezza. Il dolore, che porti alla riparazione dei torti subiti, pur non senza nostre colpe».

«La grandezza, per fare più ricca tutta lItalia, con il prezioso contributo, anche produttivamente economico, del Mezzogiorno. Che il Vangelo e la Costituzione, in questo tempo complesso e difficile, che chiede la generosità e limpegno politico di tutti, ci tolgano il sonno, rendano inquieti i nostri riposi, divengano un peso sulla nostra coscienza, fino a quando ogni riforma e ogni legge, anche la più piccola, non sia orientata al bene di tutti, iniziando dai più fragili, che un giorno scopriremo essere la cosa più preziosa che ci era stata data in dono dalla vita, la culla più adatta a gestire la nascita di una comunità rinnovata, fondata sulla solidarietà, sulla giustizia, sulla pace». (mnu)

CHIAMATA PER IL SUD: UNA MOBILITAZIONE
PER FERMARE L’OMBRA DELL’AUTONOMIA

di ANGELO SPOSATO  – Sull’autonomia differenziata si sta creando un movimento di pensiero diffuso e trasversale che sta iniziando a capire i pericoli del progetto Calderoli e della Lega. Sin dall’inizio come Cgil Calabria abbiamo sempre ribadito che questo progetto fosse una secessione camuffata, una vecchia bandiera ideologica che oggi è stata barattata con il premierato e la riforma della giustizia.

Per queste ragioni abbiamo declinato l’invito ad incontrare il Ministro Roberto Calderoli in Calabria lo scorso anno. Quello che sta avvenendo in Parlamento e nel governo è un baratto politico, letale per tutto il Paese. Se ne sono resi conto i sindaci e va apprezzata la posizione dell’Anci Calabria e del suo presidente Rosaria Succurro. Oggi più che mai la battaglia contro il disegno di legge Calderoli deve unire parti sociali, amministratori, società civile, forze politiche che hanno a cuore l’unità nazionale.
Tempo addietro, al congresso regionale e nei vari interventi, abbiamo dimostrato come il progetto di autonomia differenziata possa essere letale anche per il Nord del Paese.

Ci sono aree del nord che vivono un processo di destrutturazione industriale, non offrendo più servizi adeguati, pensiamo al tema della casa, al costo della vita, al tema salariale, alla sanità privata che sostituisce quella pubblica. Il problema non si risolve chiudendosi in piccoli staterelli. I giovani del sud che fuggono per mancanza di prospettive non andranno nelle regioni del nord, ma emigreranno all’estero come avvenne negli anni ’60 e ’70 e come sta avvenendo tutt’ora.

C’è il tema del calo demografico, vera e propria emergenza. C’è il tema dell’invecchiamento del Paese, di oltre dieci anni rispetto alla media europea, che non si risolve con l’autonomia differenziata. C’è inoltre, un tema da tutti sottaciuto che potrà fare ulteriormente la differenza. Il peso della criminalità e delle mafie che si è oramai radicata nelle regioni del nord rendendole meno competitive e assoggettate al potere criminale. Le varie inchieste giudiziarie di diverse procure nel nord hanno evidenziato il potere di infiltrazioni nella pubblica amministrazione e nelle imprese, cosa questa grave e pericolosa.

E come sappiamo, lì dove c’è il proliferare delle mafie c’è economia debole, ed il mercato economico e del lavoro viene controllato, sfruttato, sottopagato. Su questo farebbero bene a riflettere dal governo, perché quello che loro ritengono autonomia può diventare trappola mortale. Il sistema economico e produttivo del nord, con questo progetto e con le scelte del governo in materia economica, rischia di diventare succursale di Francia e Germania.

Il 13 febbraio occorre sostenere i sindaci e l’Anci davanti alle Prefetture della Calabria e auspichiamo possano avere a loro fianco il vessillo della Regione Calabria e il presidente. Serve una grande mobilitazione delle coscienze e delle persone, serve parlare con giovani, nelle scuole, sui rischi e gli effetti pericoli dell’autonomia differenziata per il loro futuro e per l’unità del Paese.
Occorre scendere nelle strade e nelle piazze per parlare ed informare le persone. Il tempo è adesso per difendere la nostra costituzione. (as)

[Angelo Sposato è segretario generale Cgil Calabria]

IL PONTE NON È DI DESTRA O DI SINISTRA
È INVECE OPERA DI INTERESSE NAZIONALE

di SANTO STRATI – I ponti abitualmente servono per unire salvo in un caso, quello dello Stretto di Messina. È davvero singolare la costante disinformazione che accompagna l’opera più significativa di questo millennio, con il risultato di un disorientamento continuo e irrefrenabile da parte dell’opinione pubblica.

Certo, è incredibile il clamore che riescono a suscitare – con argomentazioni di discutibile valore scientifico – i quattro gatti dei No-ponte che trovano sponda in interessi poco trasparenti e, di sicuro, non a vantaggio delle popolazioni calabresi e siciliane. Eppure, questi “quattro gatti” riescono a veicolare messaggi di terrorismo psicologico contro il Ponte col solo fine di dimostrare la loro esistenza in vita.

In verità, un po’ di colpa ce l’hanno il Governo e la Società Stretto di Messina che non hanno dato il giusto peso a una comunicazione corretta e puntuale, destinata a chiarire, una volta per tutte, che i vantaggi per Calabria, Sicilia e per l’intero Paese superano di gran lunga le chiacchiere negative e i pareri (non richiesti e basati sul nulla) dei no-Ponte e dei benaltristi. Categoria quest’ultima che continua a trovare proseliti, non foss’altro per contrastare un’idea balzana: il Ponte non è di orientamento politico-di parte. Questo teorema va ostacolato a tutti i costi.

Non erano benaltristi quando erano al governo i rappresentanti del centro-sinistra e il Ponte trovava accoglienza persino tra i più riluttanti esponenti della sinistra radicale-ambientalista. Oggi, invece, è diventato materia di disputa elettorale e partitica che, decisamente, non aiuta la crescita e lo sviluppo di territori che sognano da tempo immemore di poter cambiare la propria sorte di regioni di un Mezzogiorno dimenticato da Dio e dagli uomini.

Nonostante la meritoria opera di studi e ricerche della Svimez, guidata da Adriano Giannola, che ha indicato e continua a sostenere che il Ponte è sicuramente un volano di sviluppo dell’intero Paese e non solo del Sud.

Il problema di questa insana disputa “politica” è che fa perdere solo tempo e favorisce gli assertori del mantenimento dell’evidente divario Nord-Sud. Ma qualcosa sta cambiando.

Questa sembra davvero la volta buona che il Ponte possa vedere la luce: la tempistica è molto stretta ma, con grande impegno, tutti i soggetti coinvolti stanno cercando di rispettare le “tappe forzate” previste dal D.L: 35/23. Intanto, il Comitato Scientifico ha consegnato alla Società Stretto di Messina il proprio parere sulla Relazione del Progettista, redatta dal General Contractor, che prevede, partendo dal progetto definitivo del 2011, le modalità di aggiornamento nella sua versione di  Progetto Esecutivo (punti a)…f), Art. 3 comma 2 del D.L. 35/2023). Il Consiglio di amministrazione di Stretto di Messina si accinge ad esaminare i risultati del lavoro dell’ampia platea dei soggetti coinvolti (PMC, expert panel, Anas, Rfi, e Italfer, ecc.) e inviare tutto, con propria delibera, al Mit.

Successivamente, lo stesso Mit potrà dare l’avvio alle procedure previste. Ossia Conferenza dei Servizi, approvazione della Valutazione di Impatto Ambientale (Via) e la Valutazione di incidenza (VincA). Quest’ultima serve a definire gli effetti che un piano (o programma, progetto, intervento, attività) può generare su un sito della rete Natura 2000, sia singolarmente sia congiuntamente ad altri progetti, tenuto conto degli obiettivi di conservazione del sito stesso.

Il passaggio successivo sarà la delibera del Cipess (il vecchio Comitato Interministeriale per la Programmazione economica, a cui sono state aggiunte le parole Sviluppo Sostenibile).

Superata questa fase si passerà, attraverso il Progetto Esecutivo, all’inizio dei lavori. Salvini che qualcuno con una forzatura indica come “padre del Ponte” non ha dubbi. L’unico che hanno siciliani e calabresi non riguarda l’inizio dei lavori, bensì il naturale completamento dell’Opera. (s)

LE “PICCONATE” DI ROSARIA SUCCURRO
FANNO BENE E RISVEGLIANO LA POLITICA

di MIMMO NUNNARI – Le parole sono state chiare, sincere, coraggiose e soprattutto lontane dal politichese astruso e incomprensibile: «Non siamo affatto disposti ad accettare questo provvedimento ingiusto [l’Autonomia differenziata ndc], irragionevole e gravato da evidenti incertezze, che creerebbe una frattura insanabile tra il Nord e il Sud, aumenterebbe le diseguaglianze già esistenti tra le due aree, impoverirebbe il Mezzogiorno e ridurrebbe in misura irrecuperabile i diritti dei cittadini meridionali, a partire da quello alla salute e allistruzione». Firmato Rosaria Succurro, sindaco di San Giovanni in Fiore, presidente dellAnci Calabria, esponente di Forza Italia, che così lancia un’invettiva, di tipo dantesco, contro l’Autonomia differenziata: la “spacca Italia”, voluta dalla Lega di Salvini e Calderoli.

In un’epoca in cui, come profetizzava Pier Paolo Pasolini, le parole della politica sono generalmente pronunciate solo per rafforzare il potere omologato e creare nuove disuguaglianze e ingiustizie, le parole libere, fuori dal coro, di Succurro, meritano applausi per il tono, il linguaggio, il coraggio di rompere la “potenza omologativa” del suo stesso schieramento di centrodestra, che comprende il suo partito Forza Italia e per il proposito di agire, o intervenire, con coscienza civica – come rappresentante istituzionale – di fronte a una situazione che le sarà sembrata incompatibile con i propri valori fondamentali di donna e politica del Sud, correndo anche i rischi di “scomunica”. Scomunica, che è arrivata subito, con un irato j’accuse della deputata calabrese della Lega Simona Loizzo, che si conclude con parole in linea col linguaggio litigioso della politica di oggi, parole, a dir poco, ineleganti: …«Alla donna di San Giovanni in Fiore che si adopera per cittadinanze onorarie a Sinner consiglio di dedicarsi a commentare il tennis. Almeno eviteremo di ascoltare castronerie allo stato brado…».

Parole forti, col profumo di insulti, qualcuno ha detto pure sessiste, “coerenti”, però, con il metodo dell’aggressione verbale diventata linguaggio comune, da quando c’è la Lega nel panorama politico italiano. Parole che forse nascondono una malcelata preoccupazione e che il gioco sia più grande della “lite” locale. E cioè che le “picconate” di Succurro respinte con furia, come solitamente si fa con un avversario e non con un alleato a cui si manda a dire: “Non è tempo di Masanielli con la gonna e di muine” neoborboniche”, siano solo l’inizio di un cambiamento di passo di Forza Italia, che al Sud, in Calabria in particolare, ha la sua roccaforte: con una prevalenza politica indiscutibile e difficilmente soppiantabile, a meno che non compia errori “mortali”, come il consentire un passaggio storico dell’Italia – tutto sommato ancora unita – all’Italia “due”: con un Nord somigliante al Belgio grasso e un Sud abbandonato al suo sottosviluppo e a una deriva inevitabilmente mafiosa. (mnu)

QUEL DIVARIO NEL DIRITTO ALLA SALUTE
DALLA CALABRIA È FUGA PER CURARSI

di LIA ROMAGNO – Nel Mezzogiorno peggiori condizioni sanitarie, meno prevenzione e più alta mortalità oncologica.

Due donne, una emiliana, l’altra calabrese, hanno la stessa patologia oncologica ma una diversa possibilità di futuro che riflette il gap tra Nord e Sud nella sanità, e si traduce in un divario nel diritto alla salute. Sono le protagoniste del video che ha fatto da prologo alla presentazione del rapporto Un Paese, due cure. I divari Nord – Sud nel diritto alla salute, realizzato da Svimez in collaborazione con Save The Children.

I numeri messi nero su bianco mostrano come la loro possibilità di futuro dipenda dalla disponibilità di cure – che è non pari sul territorio – che si declina su tanti fronti: dagli screening periodici nell’ambito della prevenzione alle apparecchiature necessarie, dalla qualità delle strutture sanitarie alla loro prossimità, tutti elementi che sono alla base di quel turismo sanitario verso le regioni centro-settentrionali che fa ancora grandi numeri e che comunque non è alla portata di tutti, alimentando il fenomeno dell’impoverimento sanitario, ovvero il peggioramento delle condizioni economiche familiari, se non la rinuncia alle cure. È su questa Italia già drammaticamente “spaccata”, l’innestarsi di forme di autonomia differenziata non potrà che approfondire il solco, mettendo ulteriormente a rischio il principio dell’equità orizzontale della sanità.

I numeri offrono una fotografia allarmante, che il pacchetto di prerogative che la riforma Calderoli “consegna” alle Regioni, non potrà che aggravare. Senza considerare il fatto che «quelle del Mezzogiorno, tra piani di rientro e commissariamento, hanno le ganasce e non possono prendere nessuna autonomia regionalistica», sottolinea il presidente della Fondazione Gimbe, Nino Cartabellotta, intervenuto alla tavola rotonda, insieme al direttore della Svimez, Luca Bianchi, Raffaella Milano, direttrice dei programmi Italia-Europa di Save the children, e Anna Lisa Mandorino, segretaria generale di Cittadinanzattiva.

I numeri, illustrati da Serenella Caravella, ricercatrice della Svimez, mettono a fuoco un aumento dei divari territoriali in un contesto di debolezza generalizzata del sistema sanitario nazionale, che il confronto con gli altri Paesi europei mette ancora di più in evidenza: le risorse pubbliche stanziate sono in media pari al 6,6% del Pil, contro il 9,4% della Germania e l’8,9% della Francia, a fronte di un contributo. La spesa sanitaria pubblica reale pro-capite è calata sul suolo tricolore del 2% tra il 2010 e il 2022, mentre è aumentata del 38% in Germania e del 32% in Francia.

L’incidenza della spesa sanitaria privata, pari al 24% della spesa sanitaria complessiva, è invece quasi doppia rispetto a quella di Francia e Germania, rispettivamente al 15,2% e al 13,5%.

I dati relativi alla spesa sanitaria pro capite nelle singole regioni spiegano il divario: per la spesa corrente la media italiana è di 2.140 euro, che in Calabria scende a 1.748 euro, in fondo a un’ideale classifica anche Campania (1.818 euro), Basilicata (1.941 euro) e Puglia (1.978 euro). Guardando al Nord, giusto per fare qualche esempio, è pari a 2.583 euro in Friuli, a 2.495 euro in Emilia Romagna.

Per la parte di spesa in conto capitale, i valori più bassi si registrano in Campania (18 euro), Lazio (24 euro) e Calabria (27 euro), a fronte di una media nazionale di 41 euro. Mentre risalendo la Penisola, il Friuli si attesta sui 60 euro, 63 il Veneto, 85 euro la Valle d’Aosta.

Sulla qualità delle prestazioni e dei servizi offerti è “illuminante” il monitoraggio Lea, i Livelli essenziali di assistenza (prestazioni, distrettuale, ospedaliera), in cui spiccano i deludenti risultati del Mezzogiorno, dove 5 regioni risultano inadempienti (non raggiungono il punteggio minimo, ovvero 60 su una scala da 0 a 100).

Nella fotografia scattata nel rapporto Svimez emergono altri dati drammatici: su 1,6 milioni di famiglie italiane in povertà sanitaria – perché hanno avuto difficoltà nel sostenere le spese sanitarie, o hanno rinunciato alle cure – 700 mila vivono al Sud. Qui la povertà sanitaria riguarda l’8% dei nuclei familiari, una percentuale doppia rispetto al 4% del Nord-Est (5,9% al Nord-Ovest, 5% al Centro).

Un altro primato negativo è sulla speranza di vita alla nascita che è 81,7 anni (dato 2022) per i cittadini meridionali, in media 1,5 anni inferiore a quella dei settentrionali.

Ma il divario si riscontra già nelle culle: secondo gli ultimi dati Istat disponibili, il tasso di mortalità infantile (entro il primo anno di vita) era di 1,8 decessi ogni 1000 nati vivi in Toscana, ma era quasi doppio in Sicilia (3,3) e più che doppio in Calabria (3,9).

E nel Mezzogiorno è più alta anche la mortalità per tumore che è pari al 9,6 per 10 mila abitanti per gli uomini rispetto a circa l’8 del Nord; per le donne è rispettivamente a 8,2 e inferiore a 7 al Nord: nel 2010, si rileva nel rapporto, i due dati erano allineati. E su questo fronte “la partita” si gioca soprattutto sul campo della prevenzione: tra il 2021 e il 2022 circa il 70% delle donne tra i 50 e i 69 anni si sono sottoposte ai controlli, due su tre aderendo ai programmi di screening gratuiti messi in campo dalle Regioni. Anche qui la copertura è diversa sul territorio: si va dall’80% nel Nord al 76% nel Centro, fino ad appena il 58% nel Mezzogiorno. Prima in classifica il Friuli-Venezia Giulia (87,8%), fanalino di coda la Calabria, dove solamente il 42,5% delle donne di 50-69 anni si è sottoposto ai controlli.

Per quando riguarda la possibilità di fruire degli screening organizzati, la percentuale delle donne oscilla tra il 63 e il 76% in Veneto, Toscana, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, P.A. di Trento, Umbria e Liguria e circa il 31% in Abruzzo e Molise. Le quote più basse si registrano in Campania (20,4%) e in Calabria, dove le donne che hanno effettuato screening promossi dal Servizio Sanitario sono appena l’11,8%, il dato più basso in Italia: numeri che in queste regioni hanno molto a che fare, oltre che nelle difficoltà sull’organizzazione delle campagne di prevenzione, spiega Caravella, con la carenza di personale, l’obsolescenza dei macchinari, tutti fattori che giustificano una scarsa fiducia nella qualità dei servizi.

La “fuga” dal Mezzogiorno verso le strutture sanitarie del Centro e del Nord ha numeri importanti: nel 2022, dei 629 mila migranti sanitari, il 44% era residente in una regione meridionale.

Per le patologie oncologiche, 12.401 pazienti meridionali (il 22% del totale) si sono spostati per ricevere cure negli ospedali del Centro e del Nord. In direzione opposta hanno viaggiato solo 811 pazienti del Centro-Nord (lo 0,1% del totale). Ed ancora la Calabria a detenere il primato del “turismo sanitario”: il 43% dei pazienti si rivolge a strutture sanitarie di regioni non confinanti. Seguono Basilicata (25%) e Sicilia (16,5%).

Per i pazienti pediatrici “l’indice di fuga” nel 2020 si è attestato in media all’8,7% a livello nazionale, con differenze territoriali che vanno dal 3,4% del Lazio al 43,4% del Molise, il 30,8% della Basilicata, il 26,8% dell’Umbria e il 23,6% della Calabria. Nel complesso, «la fuga per farsi curare vale 4,25 miliardi», è la stima fornita da Cartebellotta.

L’attuazione dell’autonomia differenziata, si sostiene nel report, rischia di aggravare ulteriormente il divario, creando una maggiore sperequazione finanziaria e, di conseguenza, ampliando le diseguaglianze nel diritto alla salute e il fenomeno della mobilità sanitaria (che porta altri soldi nelle casse delle regioni di destinazione).

«La concessione di ulteriori forme di autonomia – si sostiene – potrebbe determinare ulteriori capacità di spesa nelle Regioni ad autonomia rafforzata finanziate dalle compartecipazioni legate al trasferimento di funzioni e, soprattutto, dall’eventuale extra-gettito derivante dalla maggiore crescita economica».

Senza contare che la discrezionalità nella gestione e retribuzione del personale, la regolamentazione dell’attività libero-professionale, l’accesso alle scuole di specializzazione, le politiche tariffarie rafforzano la competitività del sistema sul fronte dell’attrazione di fondi e risorse umane – quest’ultime già carenti sull’intero territorio – e della possibilità di garantire servizi più efficienti.

«Chi afferma che dall’autonomia trarranno vantaggio le regioni del Sud dice una balla spaziale», la chiosa di Cartabellotta.

Per Bianchi la possibilità di un riequilibrio della situazione passa «dall’aggiornamento del metodo di riparto delle risorse del fondo sanitario nazionale con gli indicatori socio-economici: i criteri di deprivazione sono al momento considerati solo marginalmente, sottostimando il bisogno di cura e prevenzione nel Sud». (lr)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud –L’Altravoce dell’Italia]